mercoledì 13 febbraio 2013

Milano vista da Roma

Dialoghi Internazionali - Città nel Mondo, n. 18, 2013

E' sempre utile tornare sulla relazione tra Roma e Milano per comprendere presente e futuro del nostro Paese. La globalizzazione non solo non archivia il vecchio dualismo nazionale, ma per certi versi ne illumina aspetti prima nascosti.

Le due città, diceva Prezzolini, sono come annotazioni sul passaporto spirituale degli italiani,  caratteri irriducibili e non di meno entrambi indispensabili per definire la fisionomia italiana. Tutto ciò è la conseguenza dell'eccentricità o meglio della mancata centralità di Roma, una capitale anomala che non è mai riuscita a rappresentare da sola l'intero carattere nazionale, come invece hanno saputo fare Londra o Parigi. In ogni caso, della relazione tra le due città è interessante sia il lato antitetico sia quello complementare.




Il primo si consolidò alla fine dell'Ottocento, in seguito alle delusioni del mito risorgimentale della Terza Roma e alla rivoluzione industriale settentrionale. Divenne chiaro all'opinione pubblica nazionale proprio nella competizione per le Expo dell'epoca, che Roma non riuscì ad organizzare pur chiedendo i finanziamenti statali e Milano realizzò mirabilmente con le proprie risorse in ben due edizioni, nel 1881 e 1894[1].

Il lato complementare, invece, è sempre stato meno visibile, pur esprimendosi in tante occasioni. Mi piace ricordare che le migliori politiche urbane di Roma nel Novecento sono state realizzate da due uomini del Nord: Edmondo Sanjust di Teulada, capo del Genio Civile di Milano, col piano regolatore del 1909 e il riformista pavese Giovanni Montemartini con la municipalizzazione dei servizi. L'integrazione si è rafforzata, nel bene e nel male, soprattutto nella Prima Repubblica: Miracolo a Milano e Dolce Vita, capitalismo familiare e capitalismo di Stato, Craxi e Andreotti. Ma poi si è rotta nella Seconda Repubblica perché Milano ha rinunciato a proporsi come modello morale per la nazione e anzi si è fatta rappresentare in politica da messaggi conflittuali al limite del separatismo. Forse le sue energie erano tanto assorbite dalla grande trasformazione dall'industria al terziario avanzato da non avere più la forza di spirito per pensare al resto del Paese. Ma non avendo la consapevolezza per gli altri non l'ha avuta neppure per sé stessa. Da quando è venuta meno la narrazione della borghesia industriale, la città, come dice Magatti, “soffre di una bassa autopercezione, che all'esterno diventa una immagine sfuocata”[2].

Questa abdicazione milanese nel passaggio di secolo ha lasciato a Roma per la prima volta la possibilità di rappresentare da sola lo spirito di coesione nazionale. Le amministrazioni capitoline di centro-sinistra riuscirono a dare l'impressione che potesse diventare la vera capitale per i meriti contemporanei e non solo in virtù delle glorie antiche. Il successo del Grande Giubileo riconquistò la fiducia degli italiani e il prestigio internazionale. La grande narrazione veltroniana propose al Paese un Modello Roma di governo mite e solidale come alternativa credibile alle spacconate leghiste e berlusconiane. Poi la sonfitta del 2008 rivelò la fragilità dell'illusione e improvvisamente emersero gli istinti del vecchio plebeismo romano che trovarono immediata rappresentazione nella destra romana. L'inadeguatezza del sindaco Alemanno ha riportato indietro le lancette verso la città burocratica e clientelare. Il nuovo Sindaco dovrà risanare l'amministrazione cittadina e ricostituire una credibilità nazionale della capitale.

Nel frattempo molte ragioni chiedono di aprire un discorso nuovo tra il Settentrione e il Paese. Le parole “lombardo” e “ambrosiano” perdono il significato aggressivo di questi anni per tornare ad indicare risorse preziose dell'italianità. Con i nuovi politici milanesi, Pisapia e Monti, la sobrietà e la responsabilità sono tornate sulla scena come virtù che parlano alla nazione.

E' possibile che il dualismo tra Roma e Milano ritrovi il lato complementare a partire dalle reciproche differenze, proprio perché queste non saranno più come prima, ma verranno rielaborate di fronte ai problemi del nuovo mondo.

Da sempre esse sono rappresentate da paradigmi opposti, uno orizzontale e l'altro verticale.Mediolanum è la città di mezzo che mette in relazione i territori, le culture e le economie. Non ha mai comandato sul contado, ma ha saputo alimentarsi della sua linfa restituendo i frutti della civiltà urbana. Non è mai rimasta chiusa nei confini nazionali, ma ha sempre cercato le strade del mondo.

Al contrario, la Città Eterna ha rappresentato sempre il potere che agisce dall'alto, a partire dal mondo antico fino alla centralizzazione statale, delegando ai suoi codici simbolici la tenuta in epoca moderna dei rapporti col mondo. Intorno a sé ha creato il vuoto, prima con l'inerzia dello Stato Pontificio e poi con la bulimia dello sprawl immobiliare.

Le due città rappresentano in modo quasi puro le antitesi originarie: relazione e potere, rete e obelisco, regione-mondo e città-Stato. Eppure, la globalizzazione le costringerà in futuro ad imparare qualcosa l'una dall'altra. Milano deve diventare un po' obelisco per aiutare l'economia dei distretti a percorrere le vie del mondo, perché essi non ce la fanno più solo con le proprie gambe e hanno bisogno di una leadership che li sostenga con i servizi del terziario avanzato e con i saperi contemporanei.

E poi è anche nel suo interesse porsi di nuovo il problema dell'unità nazionale, in modo diverso dal passato, collocando la questione meridionale all'interno della politica euromediterranea. Molto può fare il rigore ambrosiano per convincere i tedeschi che al sud non ci sono solo dei perdigiorno, ma esistono le potenzialità per una nuova fase di crescita civile ed economica. Sono lungimiranti le iniziative della Camera di Commercio milanese in tale direzione. Se la politica europea sarà generosa con le nuove democrazie nordafricane, più di quanto sia stata con i tiranni, raccoglierà molti frutti della cooperazione mediterranea. Se l'Expo risolvesse i problemi gestionali e si dedicasse davvero al tema Nutrire il pianeta sarebbe la grande occasione di Milano per affermarsi come capitale della cooperazione internazionale, proprio come riuscì con le grandi Esposizioni di fine Ottocento a creare il mito della capitale morale.

La vera svolta è da ricercare nella politica territoriale. Non è più solo una città, ma una  macroregione che distende le sue funzioni in un territorio frammentato, diradato e non strutturato. La città infinita, come è stata chiamata dai suoi apologeti, è una galassia di villette, capannoni e svincoli autostradali che costituisce oggi uno dei più preoccupanti casi di sprawl in Europa. Le classi dirigenti si sono consolate descrivendo come sindrome di Nimby gli ostacoli che si pongono alla realizzazione di qualsiasi nuova opera, ma la causa è invece nella sciagurata saturazione a bassa densità che ha compromesso troppo territorio rispetto a quanto sarebbe stato necessario per le funzioni insediate. Si sarebbe dovuto condensare e strutturare questa conurbazione e invece sono state mancate le occasioni più importanti degli ultimi trenta anni. 

L'establishment lombardo – pur avendo avuto un certo peso negli ultimi governi - ha smarrito la capacità di guidare la politica infrastrutturale nazionale, come invece aveva saputo fare nel miracolo economico, ad esempio con l'autostrada del Sole. L'aeroporto di Malpensa non è degno di una grande capitale europea; la nuova Fiera è un'astronave chiusa, mentre doveva essere un nodo strutturante del territorio e un vero gate-way dell'economia dei distretti; l'alta velocità ha rincorso i deboli flussi del corridoio Lisbona-Kiev, trascurando le connessioni della logistica verso l'area tedesca - molto più utile per l'Italia - sull'asse verticale europeo che lega il Mediterraneo con il Mare del Nord; oltre tutto la realizzazione dell'asse orizzontale dell'alta velocità non è stata ancora utilizzata come opportunità per ristrutturare le ferrovie locali secondo il modello della rete S-Bahn tedesca, che sarebbe l'unico modo per dare a posteriori una struttura portante alla conurbazione amorfa della macro-regione.

Non era scontato questo esito frammentato della macro regione milanese, che ha riguardato anche i recenti piani urbanistici nella Downtown[3]. Lo sprawl, invece, era già scritto nel metabolismo di Roma. Nel primo Novecento, quando le due città sono ancora contenute in una struttura compatta, si possono già notare due tendenze diverse. A Milano prevalgono i palazzi continui uno di seguito all'altro in stile siedlungen, che ancora oggi costituiscono la sua forte immagine urbana. A Roma invece la speculazione inventa le palazzine come elementi separati tra loro che ibridano la limpida distinzione istituita dal Sanjust tra fabbricato, villino e giardino, volgarizzando lo stile e rispondendo all'ansia patrimonialista del ceto medio. Solo un milanese ammiratore della capitale come Carlo Emilio Gadda poteva preferire ai bei viali della sua città la frantumazione palazzinara: “Roma.. leva nel sole i dadi de' suoi isolati a quattro facce”[4].

Per Milano, insomma, il cattivo rapporto con lo spazio è fenomeno recente e denota forse la più grave perdita dell'antropologia ambrosiana. La comunità operosa della macchina del Duomo conosceva la produzione che migliora l'habitat, l'attività che prepara il benessere sociale. Di queste antiche virtù la capitale morale avrebbe ancora più bisogno di ieri per competere nell'economia dell'immateriale e dovrebbe scovarle tra le pieghe del suo modo d'essere contemporaneo. 

Contro un abusato stereotipo l'essenza della laboriosità milanese non è il lavoro fine a se stesso, bensì il lavoro che riverbera qualcosa oltre la mera attività, alimenta una ricchezza maggiore del semplice prodotto, cerca di coniugare il bello e l'utile (Sequeri). A tutto ciò ha contribuito la religiosità ambrosiana con il suo peculiare carattere di ascesi sociale che ambisce a realizzare nell'opera umana una trascendenza (Vittadini). Qualcosa del genere oggi si ritrova, in forma secolarizzata, nelle comunità creative del design, della moda e dell'immateriale. Il nesso non vuol essere irriverente, ma aiuta a cogliere un isomorfismo tra bellezza spirituale ed estetica mondana, tra iconografia della santità e brand del consumo.

Anche in questo caso è illuminante la differenza con la religiosità romana della Controriforma, nella quale il bello intona verso l'aulico perché invece di suscitare un fare collettivo serve a stupire il popolo con la manifestazione del potere. Da qui è venuto il trionfo del barocco romano così profondamente caratterizzato dalla tensione tra aulico e popolare. Ma certo questa estetica verticale non poteva lasciare in eredità un'attitudine alla produzione creativa, con l'unica eccezione del cinema, il cui primato nella capitale nasce non a caso col fascismo, rispondendo ad esigenze analoghe di relazione del potere con le masse.

Per ritrovare le antiche virtù ambrosiane è decisivo liberarsi dal morbo della separazione che ha colpito non solo la struttura urbanistica, ma anche quella sociale. Se le comunità creative  costituiscono la carta migliore che la città possiede per entrare nella fase matura del capitalismo cognitivo, c'è da chiedersi perché esse si aggregano con una certa indifferenza rispetto agli altri mondi della finanza, della politica, della gestione urbana e delle stesse istituzioni della conoscenza. Questa domanda porta al cuore del problema indicato da Giulio Sapelli: Milano dovrebbe riconciliare innanzitutto la funzione con il senso, senza che la forza della prima finisca per oscurare il secondo.

La capitale morale oggi è in sé, ma non per sé. Alla sua potenza di trasformazione non corrisponde un potere capace di regolare gli esiti del cambiamento. Se ne hanno tante conferme: con la privatizzazione gli istituti di credito hanno raccolto la sfida del modello anglosassone, smarrendo però la specializzazione e il radicamento territoriale che oggi sarebbero utili per uscire dalla crisi (Modiano); il sistema universitario costituisce ormai un pivotnelle reti lunghe della conoscenza, ma è molto difficile trasferire i suoi risultati di ricerca alle piccole imprese[5]; la città meglio cablata in Europa non riesce a sincronizzare i semafori, come risulta dall'esempio di vita quotidiana portato da Magatti; l'enorme valorizzazione immobiliare ha restituito alla città pochissime risorse per investimenti pubblici, come dimostra Camagni in un confronto con Monaco sugli oneri di urbanizzazione[6]; la trasformazione dall'industria nel terziario avanzato è ormai compiuta, ma è diventata la città più diseguale nella distribuzione della ricchezza, perdendo la capacità di ibridazione sociale che ha saputo esprimere per secoli (Ranci). Nella vittoria di Pisapia un anno fa, al di là delle contingenze politiche, si era forse fatta sentire per la prima volta questa volontà di tornare a curare il per sédella città, dopo il lungo soliloquio dell'in sé.

Forse questo cimento non riguarda solo la buona amministrazione, ma anche la struttura economica. Riguarda non solo la capacità di creare valore, ma anche di trattenerlo, come suggerisce Magatti. La cura del per sé allora costituisce una realistica via di uscita dalla crisi. Quando le cose andavano bene i successi della produzione e i fasti del consumo si manifestavano pienamente proprio nella vita urbana, anche se facevano parte di catene del valore esterne e ormai pienamente globalizzate. Oggi, la crisi è sia di domanda sia di offerta, ma proprio per questo può venire utile il contributo di una circuitazione tra produzione e consumo interna all'economia cittadina. La “via sussidiaria”, come la chiama Sapelli, “ossia endogena, che si fondi sulle risorse sia locali sia attraibili dall'internazionale al locale”. Se l'ossessione dell'in sé è approdata ad una sovrapproduzione che la domanda attuale non riesce a consumare, dalla cura dei servizi urbani possono venire nuovi stimoli a coniugare sviluppo economico e civile. Tutto ciò comporta un cambiamento di prospettiva, anzi un Mind the Gap, oltre l'inconcludente retorica macroeconomica sulla crescita, per individuare nuovi modi di creazione di lavoro in relazione alla qualità della vita[7].

La costruzione di un nuovo welfare urbano capace di rimuovere le diseguaglianze metropolitane, non è un costo che frena la produzione, bensì una via per creare nuova impresa e arricchire il tessuto sociale, come insegna Johnny Dotti sia in teoria che in pratica.

Nella stessa direzione è suggestiva la proposta di Giulio Sapelli di un ripensamento delle politiche dei servizi pubblici. Di solito gli amministratori si gonfiano di orgoglio per aver trasformato le vecchie municipalizzate in grandi gruppi imprenditoriali sovracomunali. Ma siamo proprio sicuri che questa trasformazione non abbia spostato eccessivamente la loro attenzione sul mestiere di proprietari di asset piuttosto che di responsabili della qualità dei servizi verso i cittadini? Sono proprio le utilities nazionali e locali che hanno fornito, insieme alla rendita immobiliare, il rifugio per il capitalismo italiano in ritirata dalla competizione internazionale. D'altro canto, queste aziende pubbliche, oltre a gestire bene i servizi, potrebbero organizzare nuove filiere produttive per la green economy e per la smart city.

Torna quindi d'attualità la lezione di Giovanni Montemartini, il quale prima di realizzare la municipalizzazione dei servizi nella capitale ne elaborò la teoria in un pioneristico saggio sull'argomento[8]. Il grande riformista pavese-romano la giustificò con lo stesso argomento concorrenziale che oggi usiamo per smantellarla. Aveva infatti di fronte la catastrofica gestione dei servizi pubblici da parte dei grandi gruppi finanziari di fine Ottocento e proponeva di trovare un nuovo rapporto tra la dignità del lavoro e la qualità della vita urbana.
Se per Milano è giunto il tempo di curare il per sé, il problema di Roma è opposto. Il suo per sé, infatti, è fin troppo sviluppato e in alcuni momenti è anche degenerato nelle difese corporative, nella dissipazione di risorse e nel centralismo burocratico. Manca invece l'in sé come capacità del contemporaneo di produrre un senso all'altezza del patrimonio ricevuto in eredità e anzi, nel significato davvero latino, di accrescerlo per i posteri.

A tale scopo, la capitale deve dirigersi nella direzione contraria a quella indicata sopra per Milano. Deve cioè allontanarsi sempre più dall'obelisco per dirigersi verso le reti locali e globali, deve pensarsi sempre meno nell'angusto binomio città-Stato e aprirsi alla relazione regione-mondo. Nel contempo la sua relazione col mondo non può più essere affidata solo ai simboli della storia, ma deve trovare alimento nel moderno saper fare dei cittadini, delle imprese e delle istituzioni. I simboli della Città Eterna devono essere reincarnati nell'in sé del contemporaneo. 

Se nel compiere questi due cammini opposti Roma e Milano si incontreranno in una terra di mezzo ne verrà un beneficio per l'intero Paese. Ancora meglio che in passato i due caratteri definiscono il passaporto dell'Italia per il nuovo mondo.

Walter Tocci



[1]    F. Bartolini – Rivali d'Italia. Roma e Milano dal Settecento a oggi – Laterza, Roma, 2006, p. 128.
[2]    Magatti paper
[3]    MM. Bricocoli, P. Savoldi - Milano Donwtown. Azione pubblica e luoghi dell'abitare – Edizioni et al, Milano, 2010.
[4]    In F. Bartolini – Rivali d'Italia – op. cit., p. 227.
[5]    A. Balducci, F. Cognetti, V. Fedeli (a cura di) – Milano, la città degli studi. Storia, geografia e politiche delle università milanesi – Editrice Abitare Segesta, Milano, 2010.
[6]    R. Camagni – Il finanziamento della città pubblica, in M. Baioni (a cura di) – La costruzione della città pubblica - Alinea, Firenze, 2008. Gli oneri a favore del pubblico in alcuni progetti milanesi sono circa quattro volte più bassi rispetto a Monaco e costituiscono il 9% del valore di mercato. Una successiva ricerca su progetti diversi ha rilevato percentuali ancora più basse, circa 4-5%, si veda: A. Arcidiacono, L. Pogliani – Ma i cittadini cosa ci guadagnano, in AAVV – Per un’altra città – Maggioli, Ravenna, 2008.
[7]    Un inquadramento generale ed esempi concreti in N. Zanardi – Mind the Gap – Equilibri, n.   , 2012
[8]    G. Montemartini – Municipalizzazione dei pubblici servigi – Società Editrice Libraria, Milano, 1902.

3 commenti:

  1. molto utile per riflettere sulle somiglianze e differenze e per voler bene a due città così diverse!
    Roberto (milanese che ha vissuto 18 anni a Roma)

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  2. bene, allora puoi scrivere Roma vista da un milanese

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