venerdì 5 aprile 2013

Discorso al Senato sul decreto per Roma capitale


Signor Presidente, colleghi senatori, sono possibili tre piani di lettura del decreto per Roma Capitale: quello tecnico, quello dei cittadini e quello storico.
In ordine al primo, il Governo ha presentato delle argomentazioni ragionevoli a sostegno di alcune modifiche apportate al testo già approvato dalla Commissione Bicamerale. Quindi, a nome del PD, dichiaro il voto favorevole alla ratifica della proposta governativa. Siamo disponibili a votare su una breve risoluzione unitaria e a tal fine ritiriamo il nostro testo, nel quale il giudizio favorevole era accompagnato da alcuni commenti che comunque svilupperò nel mio breve discorso. Rimane solo il dubbio, signor Ministro: perché il Governo tecnico non ha avuto la perizia tecnica di sottoporre a suo tempo alla Commissione Bicamerale le sue osservazioni? Ci saremmo risparmiati questo passaggio parlamentare.
Per quanto riguarda il secondo aspetto, ho sentito la Lega scatenarsi contro il provvedimento. Forse hanno dimenticato che queste norme sono figlie dell'accordo del 2008 tra Alemanno, Polverini e Bossi. A Roma è conosciuto come «l'accordo della pajata» (Applausi dal Gruppo PD) perché suggellato da un ridicolo evento gastronomico davanti a Palazzo Montecitorio. L’accordo conteneva la scelta, a mio avviso sciagurata, di cancellare gli investimenti che venivano dalla vecchia legge 396-1990 per spostare tutte risorse solo sulla spesa corrente, con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Dopo cinque anni, infatti, l'effetto di tutto questo apparato normativo è stato soltanto il cambiamento della carta intestata del Comune; sulle automobili dei vigili urbani non c'è più scritto «Comune di Roma» ma «Roma Capitale». I cittadini non hanno visto altro miglioramento che questo. (Applausi dai Gruppi PD e SCpI).


Infine, per quanto riguarda l'aspetto storico, in queste aule di Roma Capitale si è discusso con ben altro cimento nei diversi momenti della vita nazionale. Sono andato a rileggermi il dibattito che portò nel 1990 all'approvazione della legge n. 396, per merito - lo dico al senatore Calderoli - di un grande lombardo che amava Roma: Antonio Cederna. Quella legge parlava dell'area archeologica centrale, dei Fori, della Regina viarum, dei musei, della cultura, dei grandi fiumi, del Tevere, delle reti di trasporto, del ruolo internazionale di Roma. Quella legge indicava grandi idee per la capitale. Il testo all’esame oggi, invece, non contiene né scelte, né principi, né valori, ma solo procedure, norme e burocrazie.
Signor Ministro, lei è uno studioso di diritto e sa che il linguaggio di una legge è anche una misura della sua efficacia. Quando si tratta, quindi, di questioni altamente simboliche - e la capitale lo è certamente - il linguaggio legislativo dovrebbe avere quella chiarezza, quella lungimiranza, quella ieraticità che si confanno all'argomento. Questo - mi consenta - sembra invece un regolamento di condominio, pieno di commi, di rinvii, di incisi, di dettagli amministrativi. Non gliene faccio una colpa, ma segnalo un'inadeguatezza che in futuro dovremo superare.
Se confronto l’approdo di oggi con la produzione legislativa precedente mi torna in mente il fulminante giudizio che Giacomo Puccini diede a un giovane compositore che gli sottopose il suo spartito: «Ciò che è bello non è nuovo e ciò che è nuovo non è bello».
Detto questo, però, come parlamentari abbiamo il dovere di discutere nel merito anche questi provvedimenti. Sicuramente è migliorata la norma sui poteri di ordinanza in capo al sindaco per l'emergenza traffico: vengono attenuati e posti sotto il controllo di un documento di indirizzo del Governo e - a me sembra necessario, almeno lo auspico - anche dell’Assemblea capitolina. Però, Signor Ministro (anche qui mi rivolgo soprattutto allo studioso di diritto), è surreale che il Governo di un grande Paese debba perdere tempo ad occuparsi degli indirizzi della politica del traffico di una sola città. Se quei poteri abbisognano di una compensazione tanto forte significa che sono proprio sbagliate le norme del Sindaco commissario per il traffico. D'altronde Veltroni le ha usate bene, ma negli ultimi anni sono state applicate soprattutto per derogare alle gare d'appalto e alle conferenze dei servizi. Oltre tutto, dopo gli eccessi di Bertolaso, si era convenuto che i poteri commissariali dovessero riguardare soltanto le calamità naturali, e il traffico non lo è. Per esperienza personale, so che quello dell'assessore al traffico è un mestiere difficile, ma certo non mancano nel nostro Paese le leggi per esercitarlo. Agli amministratori che chiedono sempre nuovi poteri per avere l'alibi della loro inefficienza il buonsenso popolare romano risponderà con l’atavica ironia: «Hai voluto la bicicletta? Adesso pedala».
Infine, sui fondi per i trasporti il decreto legislativo conferma il principio di assegnazione diretta alla città di Roma. Ora si aggiunge un «d'intesa con la Regione Lazio» e siamo sicuri che dalla nuova Giunta Zingaretti verrà pieno sostegno e collaborazione alla città. Anche sul piano degli investimenti infrastrutturali si aggiunge l'espressione «d'intesa con il Ministro dell'economia». Questo Ministero ha mostrato negli ultimi anni un'inutile esuberanza: per ogni provvedimento chiede la firma del decreto attuativo, ma, come ha dimostrato ieri benissimo il collega Sangalli, poi non riesce ad esercitare tutti i poteri che chiede. Il Ministero dell'economia è diventato un grande collo di bottiglia nell'amministrazione dello Stato.
Infine, avremmo preferito la prima versione del decreto legislativo, che stabiliva una procedura automatica di trasferimento dei poteri di Roma Capitale alla nuova Città metropolitana, ma lo ha impedito un'impuntatura dall'attuale sindaco di Roma.
Siamo alla vigilia di un rendiconto elettorale: saranno i cittadini a valutare l'operato del sindaco. Ma in questa sede, per quanto ci riguarda e ci compete, posso dire che ha pesato molto negativamente il suo atteggiamento rivendicativo e di continua conflittualità istituzionale, fino al punto di entrare in collisione con la Regione Lazio, che pure era amministrata da una giunta dello stesso colore politico. Non ci nascondiamo che ci troviamo qui ad approvare con urgenza il decreto legislativo perché contro queste norme pende addirittura un ricorso alla Corte costituzionale da parte della Regione Lazio.
In generale questo atteggiamento rivendicativo danneggia la nostra città. Anche quando dovesse ottenere risultati positivi, nella misura in cui sottovaluta l’interesse nazionale e rinuncia al consenso delle altre città, fa male a Roma perché intacca il suo prestigio e la sua autorevolezza di capitale. Governare Roma non è una rivendicazione municipale, è una responsabilità nazionale.(Applausi dal Gruppo PD). Quando si fa qualcosa a Roma bisogna certo curare l’interesse dei cittadini romani, ma sempre avendo in mente che quelle realizzazioni debbono essere percepite dall'intera comunità nazionale come un arricchimento di tutti, come una risorsa in più per tutto il Paese.
La legge per Roma capitale dovrebbe occuparsi prima di tutto della sua funzione culturale, ma in questo testo non ve n'é traccia. Eppure, oggi la sua storia - la memoria custodita nei musei, negli archivi, nelle piazze, nelle chiese, nei monumenti, nell’archeologia - si trova ad un passaggio d'epoca con il nuovo mondo della cultura digitale. La tensione creativa tra antico e moderno, tra memoria e invenzione, tra custodia e innovazione dovrebbe fare di Roma un centro internazionale di produzione culturale e artistica, dalle scienze umanistiche ai saperi contemporanei, non solo come studio, come fruizione, ma anche come nuove opportunità di creazione di lavoro. Questo era il senso della legge proposta da Antonio Cederna.
La capitale non è soltanto il luogo in cui risiedono i Ministri, non è soltanto una somma di norme e di procedure come quelle che stiamo qui approvando; una vera capitale è soprattutto un centro di trasformazione della cultura, un luogo che contribuisce all'elaborazione e al miglioramento dello spirito nazionale, che raccoglie cioè tutte le energie del Paese e le porta ad un più alto livello di maturazione. Così nella storia hanno funzionato Parigi o Londra. Nella capitale ciò che è particolare diventa universale, ciò che è implicito diventa esplicito, ciò che è ancora grezzo nelle energie vitali di un Paese viene raffinato in un nuovo e più alto sentire della Nazione.
Consentitemi, colleghi senatori, di concludere con una riflessione storica che riguarda tutti noi.
Quando Roma divenne Capitale, al governo del Paese c'era una destra di rango europeo, la grande Destra storica postrisorgimentale. Ad occuparsi di questi argomenti erano personalità di grandissimo livello, in primis Quintino Sella che volle chiedere consiglio sul da farsi a Theodor Mommsen. Il grande storico di Roma antica gli rispose: «Caro Sella, non si governa Roma senza avere una grande idea». Credo che quell'ammonimento sia valido soprattutto per noi, per la nostra generazione, una generazione evoluta, ricca di tecnologie e di saperi, ma che oggi non è all'altezza, purtroppo, di quelle aspirazioni e di quelle suggestioni. Quintino Sella parlava appunto di Roma come grande capitale della cultura, definendola, nel suo linguaggio aulico, come luogo in cui si dispiega il “cozzo delle idee”, cioè uno dei centri pulsanti di dibattito e di produzione della cultura nazionale.
Siamo nani e non siamo neppure saliti sulle spalle dei giganti, ma almeno mantenere la memoria dei momenti migliori può servire a tutti: alla sinistra, al centro, alla destra. Non faccio qui un discorso di parte, ma rivolgo un auspicio all’intera assemblea. Ricordarci della memoria dei giganti può rinfocolare la speranza che in futuro le nuove generazioni sappiano esprimere nuove classi dirigenti capaci di costruire la capitale come risorsa per l’unità e il progresso della nazione, che sappiano pensare il destino di Roma nell’orizzonte dell’Italia e del mondo.

Seduta del 3 Aprile 2013 – Dichiarazione finale di voto a nome del Gruppo PD   

Walter Tocci

2 commenti:

  1. Buon intervento, bello il richiamo a Sella. Mi chiedo a chi, oggi, Mommsen potrebbe indirizzare il suo consiglio. E, soprattutto, chi sarebbe in grado di farsene carico, tra i nostri candidati alle primarie a Sindaco di Roma.

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  2. Non era Puccini, bensì Rossini. Fuochino...

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