venerdì 26 giugno 2015

Perché non ho votato la fiducia al governo sulla legge per la scuola



Non ho votato la fiducia al governo sulla legge per la scuola in Senato. Non si può accettare un’altra riforma finta, una nuova rottura con milioni di elettori, l’ennesima mortificazione del Parlamento.

Avevo creduto alle parole di Renzi che ammetteva l’errore e mostrava di volerlo correggere. Mi sono impegnato insieme ad altri per aiutarlo a trovare soluzioni innovative e a riprendere un dialogo. E invece ha interrotto la partita portando via la palla, fino al punto di impedire al Senato di emendare la legge sia in commissione sia in aula. Neppure la destra arrivò a tanto; sulle leggi Moratti e Gelmini noi allora all’opposizione fummo in condizioni di votare gli emendamenti ed esprimere la nostra contrarietà. Oggi, mi rattrista che dal governo il Pd impedisca il confronto parlamentare. Una grande forza politica deve essere coerente in minoranza e in maggioranza.

Avevo sperato che fosse la buona occasione per una riforma. Per la prima volta un giovane Presidente del Consiglio metteva al primo posto la scuola. Avrebbe dovuto chiamare le migliori intelligenze del Paese a scrivere un progetto per il secolo che viene. E invece ha scritto un disegno di legge modesto, che si occupa per lo più di minutaglie amministrative rendendole più complicate, che ricopia male leggi esistenti facendole passare per nuove. Nessuno dei grandi problemi è posto nell’agenda di governo: il grave fenomeno del neoanalfabetismo degli adulti, i cicli scolastici lunghi e inefficaci, l’aumento delle diseguaglianze, il ritardo della didattica di fronte ai caratteri del mondo nuovo. Si approva per forza una legge priva di un’idea di scuola, anoressica di alimenti culturali, sconnessa da un progetto per il paese. Al vuoto si sopperisce con l’ossessione di uno solo che comanda. Stavolta si concede al preside di derogare le graduatorie dei concorsi, aprendo la strada al clientelismo, a nuovi squilibri sociali e alle tendenze ideologiche. Da venti anni le leggi hanno penalizzato gli insegnanti, ora si appanna la loro libertà e viene ferita perfino la dignità. La riforma della scuola si farà un’altra volta, quando avremo un governo che riuscirà a entusiasmare gli insegnanti.


Bisogna squarciare i veli del conformismo che impediscono di correggere la rotta. Prima che sia troppo tardi dobbiamo riconoscere che non vanno bene le cose al governo. A Renzi è stata attribuita la responsabilità di sbloccare le decisioni, ma il passaggio della scuola rivela una difficoltà e un’involuzione. Rischia di diventare un decisionismo ondivago che un giorno propone il dialogo e il giorno dopo forza le regole parlamentari, un decisionismo pasticcione che non cura la qualità delle leggi e ancora meno l’efficacia dell'attuazione, un decisionismo autolesionista che ottiene un risultato modesto pagando il caro prezzo di una ferita con il mondo della scuola, di cui avvertiremo le conseguenze dolorose alla ripresa autunnale.

Queste considerazioni mi hanno indotto a non votare la fiducia al governo. La scelta ha ricevuto due contestazioni di segno opposto, entrambe con toni a volte molto aspri. Alcuni la considerano una mancanza di coraggio o addirittura un tradimento. A costoro ho dovuto chiarire un punto che forse hanno frainteso: io sono un senatore del Pd, ho sostenuto le ragioni della protesta, ma non ho mai detto che avrei lasciato il partito. Avrei dovuto farlo, invece, se avessi votato contro la fiducia. La non partecipazione al voto è oggi la massima espressione di dissenso compatibile con l'appartenenza al gruppo parlamentare, come abbiamo già visto sulla revisione della Costituzione. Esprimere critiche anche dure al governo sulla scuola è il mio modo di coltivare la libertà dentro il Pd. Non chiedo di condividerlo, ma almeno di rispettarlo.

Dal lato interno, però, altri miei critici hanno sostenuto con la medesima severità che avrei dovuto rispettare la disciplina e votare a favore. Si, è vero, fino a ieri anche io mi sono sempre dato questa regola. Però non viviamo tempi normali, ogni cosa è in subbuglio, e i vecchi riferimenti poggiano sulla sabbia. La questione della disciplina di partito va riesaminata in via di principio e nella pratica quotidiana. Soprattutto, non si può chiedere solo ad alcuni, mentre molti altri fanno bellamente i propri comodi. Non si può separare dal contesto. Ci si sente impegnati nelle scelte comuni solo se il partito è una casa di vetro - in cui si discutono in modo trasparente le scelte senza diktat dall'alto -, se il partito è capace di prevenire tentativi d’inquinamento, se non lascia votare alle primarie persone che hanno una diversa appartenenza politica ecc..

Ma la questione della disciplina ormai riguarda questioni di principio che meritano una discussione aperta. Ai miei critici interni al partito, quindi, dedico le considerazioni che seguono.

1. Elettori. In pochi mesi sono stati aperti conflitti micidiali con una parte rilevante dell'elettorato di sinistra sui diritti dei lavoratori, sugli scarabocchi al bel testo della Costituzione e ora sulla scuola. Gli strappi, spesso consumati con un misto di leggerezza e tracotanza, investono i principi fondativi di una forza politica e intaccano il mandato elettorale dei suoi rappresentanti. Come riconobbe lo stessi Renzi ai suoi "retroscenisti" sarebbe stupefacente che simili scelte non provocassero problemi nei gruppi parlamentari. C'è infatti una vasta area di malessere che va al di là delle logore tassonomie congressuali. Tra tutti noi demo-critici, me compreso, c'è la doppia preoccupazione, da un lato garantire la stabilità di governo e dall'altro coltivare il colloquio con la nostra gente. Oggi è un dilemma irrisolvibile, e ben venga una soluzione imperfetta, anche non esplicita, non concordata e perfino casuale, che ci costringe a ruoli diversi: rispetto e anzi ringrazio i colleghi di minoranza che si fanno carico del voto di fiducia; noi che ci occupiamo di scuola da tempo con il non voto diamo un segno che la voce della protesta è arrivata anche all'interno del Pd e continueremo l'ascolto. È una contraddizione, lo so, che almeno si veda, fino a quando non sapremo risolverla.

2. Istituzioni. Con il nuovo bicameralismo e la legge elettorale si è introdotta una forma di governo unica al mondo che mescola il presidenzialismo e il premierato senza neppure considerare i contrappesi di quei modelli. La pratica ha anticipato le nuove leggi. Da diversi anni il Parlamento è piegato alla volontà del governo che dispone a suo piacimento del potere legislativo. Se a questa forma di governo si aggiunge anche la ferrea disciplina dei parlamentari al vincolo di partito il sistema democratico si blocca definitivamente. È il desiderio di tutti i leader solitari; non a caso in tempi e modi diversi Berlusconi, Grillo e Renzi hanno dato segni di insofferenza verso l'articolo 57 della Costituzione che libera gli eletti dai vincoli di mandato. Norberto Bobbio invece lo considerava il principio fondamentale della Carta. Nella matura democrazia americana la libertà di voto dei parlamentari è considerata un bilanciamento del potere presidenziale. Obama è abituato a confrontarsi con il dissenso dei senatori democratici e può cercare di convincerli, mai di obbligarli. Solo il provincialismo dei giornali italiani può arrivare a definire "ribelli" gli eletti che mantengono il contatto con gli elettori. Né si può invocare la tradizione. La disciplina di partito era compatibile con la legge proporzionale della Prima Repubblica e perfino con il bipolarismo della Seconda repubblica, ma diventa pericolosa nel nuovo assetto istituzionale quasi presidenziale. Avremo modo di discuterne nei prossimi mesi, a mio avviso bisogna rafforzare la libertà di mandato dei parlamentari sia in sede di revisione costituzionale sia nella legge di attuazione dell'articolo 49 sui partiti.

3. Partiti. Ricevo lezioni da chi sa veramente poco della disciplina di partito. Per la mia generazione essa nasceva da convincimenti condivisi, dalla partecipazione alle scelte e dall'autorevolezza dei dirigenti. Mi hanno spiegato che si trattava di vecchi arnesi da sostituire con la politica leggera dell'improvvisazione e della personalizzazione. Ne è scaturita l'anarchia che è sotto gli occhi di tutti, la babele di linguaggi, l'eterogeneità delle proposte, la frammentazione degli interessi e delle cordate. Eppure il sistema decisionale interno è ferreo ed è concentrato sulle due figure che compongono il partito in franchising: il leader che cura il brand nella comunicazione e i notabili che gestiscono il potere sul territorio. Questi due poteri oggi decidono tutto , creano un alone di conformismo e chiedono ubbidienza. Se ad essi concediamo anche la disciplina degli iscritti il cerchio si chiude e diventa soffocante. Bisognerà trovare nuove regole, riscrivere uno statuto ormai obsoleto, per liberare tutte le energie di partecipazione che oggi vogliono sottrarsi al partito in franchising.

È tempo di misurare la corrispondenza tra le parole e le cose. Che significa partito oggi? Conosco bene il significato precedente, non per sentito dire ma perché ad esso ho dedicato una vita di militante. Ma ora è tutto diverso, e continuare a usare le parole vecchie per la realtà nuova produce solo fraintendimenti, sia nel foro interiore sia nel discorso pubblico. 

Il Pd non è un partito - evitiamo la finzione - è un campo politico attraversato da flussi elettorali mutevoli, rappresentato da un leader assoluto, gestito da una classe politica per gran parte ancora di buon livello anche se non ha saputo estirpare la gramigna, sostenuto da una generosa risorsa di volontariato politico. È il mio campo politico, ne vedo i gravi difetti e ne conosco le potenzialità ancora inespresse. 

7 commenti:

  1. "È il mio campo politico, ne vedo i gravi difetti e ne conosco le potenzialità ancora inespresse."
    Ne prend(iamo)o perché anche questa, per continuare a citarti,
    "È una contraddizione, lo so, che almeno si veda, fino a quando non sapremo risolverla."

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  2. Comprendo le sue difficoltà, la contraddizione tra essere contro la riforma e al tempo stesso componente di un partito il cui governo chiede su di essa la fiducia. Non biasimo lei per essere uscito dall'aula, né i suoi colleghi che hanno fatto come lei; che peccato, però.

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  3. Queste critiche sono apprezzabili e molto significative, indicano inoltre la vera natura di un malessere profondo che attraversa coloro che hanno creduto e credono ancora che il PD possa essere ancora un partito democratico e di sinistra. Però, caro Tocci, l'evidenza purtroppo è assai disarmante, perché le "anime belle" con questa direzione sciagurata del PD, rischiano sempre di più di assumere, di fatto, il ruolo del "chiagni e fotti"..anche quando il "chiagni" resta senza "fotti" come in questo caso. E il Paese invece ha bisogno di una vera alternativa politica, al permanere dell'inciucio tra destra postberlusconiana e renzismo assoluto, incarnato dal nuovo padroncino il cui motto si rivela sempre di più nei fatti come "il PD sono io". Una volta per rovesciare l'assolutismo ci volle una rivoluzione, cosa ci vuole oggi per rovesciare il PD molti elettori lo hanno già capito: è non votarlo più..e tanti auguri a chi ci resta criticandolo.

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  4. Lei ha già dimostrato altre volte di non essere della loro stessa pasta. Li abbandoni al loro destino prima che sia troppo tardi.

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  5. Caro Walter,
    adesso sulla scuola è andata (anche se dovremo discutere dei temi che poni).
    Quello che mi preoccupa è il riferimento alla riforma costituzionale, perchè, mi sembra, usi un'argomentazione che - aldilà della mediazione di cui leggiamo sui giornali, sull' "elezione" dei senatori - fa balenare comunque l'ipotesi (o la scelta) del non voto.
    Ti prego, no!
    Almeno - in attesa di chiarirci su come si sta in un partito, e se il PD sia o meno un partito, e di che tipo - fa "una volta per uno": una volta non si vota, e un'altra si!
    Abbracci, Nicola

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    1. Grazie Nicola per il bel consiglio; così la contraddizione si vede ancora meglio, in attesa di risolverla, chissà quando...

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    2. Mettere mano alla scuola è un gran problema e purtroppo Renzi lo ha fatto nel peggiore dei modi. Ma vorrei sgombrare il campo almeno da due aspetti. 1) Non si possono assumere tutti i precari perchè non ci sarebbe la copertura economica e perchè il fa bisogno non ne richiede cossì tanti. Aver previsto un aumento di organico per ogni istituto per far fronte alle esigenze non mi sembra poco. 2) Gli insegnanti non vogliono essere valutati anche se è difficilissimo trovare un equo sistema di valutazione; visto che si tratta anche di premi economici affidare tutto a un dirigente e a tre docenti mi pare assai limitativo e denso di possibili ingiustizie (eufemismo). Infine ho trovato deprecabile il ricatto : O passa la riforma come voglio io o niente assunzioni








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