sabato 8 aprile 2017

La cultura degli italiani nel mondo nuovo


Di seguito il mio contributo alla Conferenza programmatica di Orlando dell'8 Aprile, a Napoli.

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Il futuro del Paese si alimenta con la cultura degli italiani. Solo una grande politica culturale può animare una nuova ambizione nazionale nel secolo che viene e nel contempo può scacciare le angustie, gli affanni, le rassegnazioni del tempo presente.

Perché l'Italia non si trova a suo agio nel nuovo mondo? Perché la nostra tradizione cosmopolita non riesce a cogliere l'occasione della globalizzazione? Eppure in altri momenti abbiamo saputo trarre fortuna dai cambiamenti d'epoca. Nel dopoguerra un paese distrutto, affamato e in gran parte analfabeta fece il miracolo passando dalla società agricola a quella industriale. Seppe rielaborare nei nuovi distretti produttivi le tradizioni culturali sedimentate nel gusto artigianale e nella coesione sociale dei territori, raggiunse i vertici mondiali della tecnologia con il computer Olivetti, la plastica di Natta, la prima impresa spaziale europea con il S. Marco, l'innovazione industriale delle aziende pubbliche; fu raccontato da una letteratura e un cinema di prim'ordine; venne educato da una vivace relazione tra intellettuali e popolo; cominciò a recuperare il ritardo secolare dell'alfabetizzazione con la riforma della scuola media unificata. Il miracolo non ci sarebbe stato senza quella formidabile crescita culturale. Nessuna di quelle ricette è oggi riproponibile, non esistono più quelle tecnologie, quelle aziende, quegli intellettuali e neppure quei partiti. Da questa storia possiamo trarre una sola lezione per oggi.

Nei passaggi d'epoca la fortuna arride ai popoli che rielaborano il proprio patrimonio culturale nei tempi nuovi. Qui sorge la domanda tanto aspra quanto necessaria. Perché un paese che dal dopoguerra a oggi è diventato certo più ricco e progredito non riesce a compiere la seconda transizione dalla società industriale a quella della conoscenza?
Nella Seconda Repubblica a tale domanda sono state risposte parziali e fuorvianti. E ne sono scaturite sempre politiche inefficaci: manovre economiche contingenti, ingegnerie istituzionali, uomini soli al comando. Nessun partito ha mai puntato davvero sulla cultura per uscire dalla lunga crisi economica e civile. L'ingegno è la carta non ancora giocata dall'Italia nel nuovo mondo.

La politica culturale del nuovo secolo deve accrescere le competenze dell'intera popolazione. È stato superato l'analfabetismo del dopoguerra ma nel frattempo si è alzata l'asticella della conoscenza determinando una nuova inadeguatezza. Circa il 70% della popolazione non possiede gli strumenti cognitivi per vivere e lavorare con piena consapevolezza nel mondo d'oggi. E il principale problema italiano, eppure viene occultato o rimosso nel dibattito pubblico e soprattutto nelle agende di governo.


Nel mondo nuovo occorre un sistema educativo integrato che consenta una formazione continua anche degli adulti, per arricchire la cittadinanza e affrontare le mutazioni del mondo del lavoro. Se l'educazione non finisce mai, bisogna ripensare il ruolo della scuola dei bambini e dei ragazzi che deve prima di tutto insegnare ad apprendere per tutta la vita, coltivando la creatività e le conoscenze fondamentali, senza perdersi nei mille rivoli disciplinari. Tutto ciò comporta un ripensamento radicale di come, e di che cosa, si insegna - con la riduzione dei cicli per consentire ai giovani di concludere prima gli studi, arrivando ai 18 anni come i coetanei europei. Soprattutto bisogna aprire le scuole giorno e sera come luoghi di espressione della creatività giovanile, di formazione degli adulti e di apprendimento sociale per la cura dell'ambiente, dell'accoglienza dei migranti, delle mutazioni tecnologiche.

Si è creato un fossato tra scuola e università che rende ancora più difficile il percorso formativo dei giovani. Al contrario è necessaria una nuova alleanza tra scuola e università. La rivoluzione della didattica ha bisogno di un sostegno continuo della ricerca universitaria e l'istruzione scolastica deve favorire il proseguimento degli studi anche per i figli delle famiglie più povere. Il calo delle immatricolazioni negli ultimi anni è un campanello d'allarme, anzi è una vergogna per un paese che porta alla laurea la metà dei giovani rispetto alla media europea. Il diritto allo studio deve essere il baluardo di un moderno Welfare giovanile.

Le classi dirigenti italiane guardano solo ai propri interessi, rafforzano gli atenei di eccellenza e scoraggiano i figli del popolo a proseguire gli studi. Aumentano le tasse, diminuiscono i professori, azzerano i fondi per la ricerca universitaria e chiudono le porte ai giovani ricercatori costringendoli a emigrare. E il costo maggiore lo paga il Mezzogiorno, che rischia di perdere l'ingegno dei suoi giovani migliori.

Concentrare le risorse in pochi atenei è un autolesionismo nazionale. La peculiarità italiana consiste proprio in molte università medie di buon livello. Questa rete di ricerca e di alta formazione è l'infrastruttura cognitiva che serve al Paese per creare la prosperità civile ed economica nel nuovo secolo. Nella fase post-statuale gli atenei scoprono un futuro antico nell'origine dell'universitas medioevale, come istituzioni generative delle relazioni tra città e mondo. Sono il periscopio che consente alle comunità locali di ampliare gli orizzonti spaziali e temporali, inseguendo le frontiere della conoscenza a livello internazionale. Come dimostrano i dati - spesso occultati dai governanti - i ricercatori italiani tengono il passo della migliore produzione scientifica mondiale. Si tratta solo di sostenerli con risorse adeguate, garantendo la libertà della ricerca con bandi trasparenti, senza favoritismi politici. Come propone la mozione Orlando, occorre una sorta di IRI della conoscenza sul modello del Fraunhofer tedesco, per agevolare il trasferimento dei risultati scientifici nel sistema produttivo, nei servizi pubblici e nello spirito pubblico del Paese.

Quanto più sono connessi alle reti internazionali gli atenei possono contribuire alla crescita civile ed economica delle rispettive città. Innanzitutto con la formazione della gioventù alle grandi sfide del contemporaneo: quale cittadinanza, quale lavoro, quale pianeta, quale interculturalità.
La cultura urbana è ciò che abbiamo di inimitabile nella competizione mondiale. In essa il filo della tradizione si intreccia con le opportunità del moderno. Solo a partire dai punti alti della nostra identità nazionale sarà possibile cogliere le occasioni del futuro.

Le belle città italiane sono state sfigurate dall’industrializzazione, ma possono diventare luoghi ideali per la ricerca, le tecnologie, i servizi avanzati e l’alta formazione. L'innovazione in fin dei conti non è questione di tecnologie, ma di creatività. È un processo sociale che favorisce la produzione dei saperi e delle arti, l’invenzione di nuovi prodotti, l’elaborazione di nuovi stili di vita, i mutamenti dell’organizzazione civile, la condivisione di conoscenze, la contaminazione tra esperienze diverse, l'apertura verso le differenze, il ricambio generazionale, la mobilità sociale ecc. Di fronte alla tendenza omologante della globalizzazione la differenza urbana e l'asso nella manica del Paese.

La formazione è la risorsa più preziosa. In questo secolo le multinazionali non saranno più le case automobilistiche o le sette sorelle petrolifere, ma le grandi università che esportano in tutto il mondo i propri modelli formativi. La concorrenza tra Harvard e Stanford è già storica, ma si apprestano a rispondere anche le emergenti università asiatiche. Certo non possiamo competere a questi livelli, ma nella globalizzazione dell’apprendimento vengono valorizzate anche le nicchie formative legate a determinati luoghi. Le città italiane sono un deposito di saperi sedimentati che possono diventare centri di formazione specializzati a livello mondiale nelle arti, nel restauro, nella tutela dei beni culturali.

Da vent'anni si coltiva l'illusione di creare ricchezza con i biglietti e il merchandising che rappresentano solo una piccola componente del bilancio di gestione del patrimonio. Al contrario, un'economia della cultura può alimentarsi proprio a partire da una forte qualificazione dell'attività di tutela e di restauro.
In questi campi è esplosa la domanda mondiale in seguito agli investimenti dei paesi emergenti, dall’Asia all’America Latina. C’è una richiesta crescente di formazione e di servizi qualificati nella cura del patrimonio. 
Se l’Italia sapesse organizzare un’offerta di alto livello avrebbe il vantaggio competitivo del brand - come si dice oggi - che viene dalla sua storia. È studiato in tutto il mondo il “metodo italiano” dell’archeologia, dell’archivistica, del restauro e della storia dell’arte, formatosi nell’insegnamento dei Bianchi Bandinelli, Brandi e Argan. Per cogliere l’opportunità che viene dal mondo bisogna rafforzare le prestigiose scuole internazionali sulla tutela e il restauro, e promuovere nuove imprese capaci di esportare il nostro sapere dell’antico. Anche per questo bisogna salvare i giovani dal precariato selvaggio che in questi anni si è diffuso nel settore pubblico e in quello privato. Una ricca economia dei beni culturali cresce solo con imprese solide che rispettano la dignità e la qualità del lavoro.

Allo stesso modo le Accademie dell'arte, della danza, del teatro e della musica - nominate con il povero acronimo AFAM - avrebbero grandi occasioni di proiezione internazionale se non fossero oppresse dalla sciatteria ministeriale e dalla mancanza di risorse. Le città italiane costituiscono il libro di testo della storia dell'arte, e l'offerta formativa delle Accademie dovrebbe aumentare dieci volte per soddisfare l'enorme domanda internazionale che la politica miope lascia inesaudita. Nel secolo passato per uno scienziato di valore era d'obbligo perfezionare gli studi in America. Nel secolo attuale, in tutte le parti del mondo un artista e un restauratore devono sentire come assolutamente necessario un viaggio di formazione in Italia. Così è stato nei secoli passati, sarebbe davvero incredibile se non lo fosse anche nell'epoca della conoscenza globale.

Il governo urbano ha bisogno della conoscenza. Oggi la città va ripensata, si tratta di inventare funzioni nuove e di ridisegnare luoghi già segnati dai vecchi usi. È quasi un gioco gestaltico che aiuta a vedere le cose in modo totalmente diverso, in una sorta di ironia dell'innovazione che caratterizza oggi la cultura giovanile. Immaginare, ad esempio, un giardino pensile su un’autostrada urbana dismessa, una startup dell'immateriale in un'officina dismessa, una performance di street art per dare colore alla periferia. La capacità di reinventare i luoghi e la molteplicità delle funzioni sono oggi i caratteri che arricchiscono la città.

L’ingegno deve essere applicato all’organizzazione della vita collettiva. La dotazione tecnologica di cui godiamo a casa e in ufficio è enorme, ma nello spazio pubblico prevalgono sistemi obsoleti. Si possono creare servizi innovativi di mobilità che superano l'offerta oggi cristallizzata solo nelle modalità estreme del taxi e degli autobus. La città è anche un’enorme banca dati che dovrebbe essere accessibile come i suoi luoghi. Si tratta di una conoscenza non solo utilizzata ma anche alimentata dai cittadini: è bastato che prendesse piede quel gioco in rete sulle vecchie foto di famiglia per ottenere un grande archivio di immagini sulla trasformazione urbana. Nei prossimi anni sarà decisivo questo software urbano, come insieme di open data, di servizi, di modi d’uso dello spazio. Non è solo una sfida per i governi municipali ma implica anche un riconoscimento dell’ingegno sociale.

L’innovazione è un vettore composto da due direzioni: il salto cognitivo e la qualità della cittadinanza. Si può creare valore nell’economia urbana migliorando l’organizzazione della vita collettiva. È possibile - anzi è una delle poche vie per produrre nuova occupazione. Altrimenti rimangono solo le chiacchiere dell'establishment che promettono la crescita continuando a fare le stesse cose che hanno provocato la crisi. 
Il primato della finanza si è accompagnato con la speculazione immobiliare. L'economia di carta e di mattone ha impoverito le città e ha costretto tanti cittadini ad abbandonarle per andare a vivere negli hinterland consumando inutilmente altro suolo. Al contrario, la cura dei beni comuni può fornire nuove opportunità per fare impresa innovativa. Invece di svendere una caserma a prezzi stracciati forse sarebbe meglio utilizzarla per case in affitto ai giovani, per atelier di imprese innovative e per strutture del nuovo welfare. Le cose da fare sono indicate dalle esperienze migliori dei nostri amministratori - la mobilità sostenibile, il recupero urbanistico, la riconversione ecologica degli edifici, il ciclo dei rifiuti, la saggia gestione delle acque, l’agricoltura periurbana, come anche la comunicazione digitale, la cura della persona, la scuola e l’educazione. 
Tutto ciò negli altri paesi europei è sostenuto da forti politiche nazionali. L'Agenda Urbana invece è assente nel nostro dibattito pubblico. Ed è anche paradossale che un governo composto da sindaci non abbia elaborato politiche urbane, ma abbia inondato le amministrazioni locali con alluvioni di leggi che mutano vorticosamente le procedure e gli assetti paralizzando la burocrazia nell'incertezza delle competenze.

Nella Seconda Repubblica l'Italia si è impoverita trascurando proprio ciò che ha di più prezioso, la sua eredità culturale. Le politiche pubbliche hanno seguito le impostazioni mainstream, sempre dominate da economicismi e politicismi sterili. Con declinazioni diverse tra destra e sinistra gli argomenti prevalenti erano sempre gli stessi: incentivi, fisco, pensioni, lavoro con meno diritti, privatizzazioni, legislazione alluvionale, tagli senza intelligenza e così via. Tutte cose che non potevano in nessun modo produrre la crescita, pur tanto invocata come fanno gli stregoni con la pioggia.

Nessuno a sinistra ha mai avuto la lungimiranza di riscrivere l'agenda delle politiche pubbliche, di cambiare gioco, di affermare una priorità mai vista prima: la cultura degli italiani nel mondo nuovo. Questa è la nostra proposta per il Pd, per farne il partito della crescita della conoscenza, il partito che porta a soluzione la seconda transizione, che aiuta l'Italia a rinnovare il miracolo italiano nell'epoca della conoscenza globale.
Se assolverà questo compito storico il Pd sarà davvero il partito della nazione, non inteso come autarchia del ceto politico ma come costruttore del futuro italiano.


2 commenti:

  1. Caro Walter,
    Il numero dei laureati e' diminuito negli ultimi anni, e' vero, ma bisognerebbe riflettere sulla situazione a pelle di leopardo che abbiamo davanti. Gli immatricolati, e quindi i laureati, nelle materie delle scienze dure sta invece aumentando, in alcuni casi anche in maniera molto forte. Questo e' vero nella Fisica per esempio, alla Sapienza e nelle maggiori unversita' italiane. Alla Sapienza il forte aumento degli immatricolati nella Facolta' di Scienze contribuisce in modo decisivo alla inversione nel numero degli immatricolati dell'Ateneo dopo il sensibile calo degli ultimi anni.
    Bisognerebbe riflettere su questo aspetto, cosi' come bisognerebbe chiedersi come sia possibile che la ricerca universitaria italiana conservi in alcune discipline delle punte di eccellenza nonostante la miseria dei contributi che il governo destina alla ricerca. E come sia possibile che i nostri laureati, che noi regaliamo in numero crescente all'Europa, siano cosi' fortemente apprezzati da quei paesi.
    Bisognerebbe pero' anche chiedersi per quanto tempo ancora tutto cio' sara' possibile, se continueremo con la sciagurata politica scientifica di tutti i governi degli ultimi 20 anni.

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