venerdì 25 maggio 2018

Il Termidoro del tecnocapitalismo


Il mio saggio "Il Termidoro del tecnocapitalismo" fa parte di un nuovo ebook rilasciato dalla Fondazione Basso sul tema della riformabilità del capitalismo, che potete scaricare qui. Pubblico di seguito parte del mio saggio, che è disponibile online e per il download nella sua interezza anche a questo indirizzo.

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Da tempo ci poniamo la domanda “quando finisce la crisi?”. Ora i dati del Pil sembrano autorizzare un cauto ottimismo, ma alimentano anche l'illusione di un classico ciclo economico con le sue discese e le sue risalite. Siamo invece di fronte a una Grande Crisi da intendere non già nel linguaggio degli economisti, ma in quello della scienza politica. In questi anni l'affanno della crescita e l'impoverimento di ampi settori sociali sono stati gli epifenomeni di un mutamento più profondo degli assetti di potere nella dimensione geopolitica, nelle relazioni sociali e perfino nelle forme istituzionali. Nella parola crisi occorre espungere il significato meramente ciclico e riscoprire il senso più ricco anche etimologicamente di trasformazione.

Nell'esplosione della bolla finanziaria dei subprime si è esaurita la spinta rivoluzionaria del liberismo iniziata nella crisi degli anni ‘70. Siamo entrati nella fase del Termidoro del turbocapitalismo. La freccia del quarantennio parte da un’esigenza libertaria e approda a un surplus di controllo nel governo dei processi. C’è quindi una tensione forte, irrisolta, tra libertà e controllo, e più in generale tra ordine e disordine; è l’instabilità di cui parlava stamane Giacomo Marramao.

Come sempre la fase termidoriana capovolge la promessa rivoluzionaria. Doveva essere il trionfo dell’Occidente, mentre la crisi ne certifica la perdita di primato, e in particolar modo quello dell’Europa. Doveva essere il trionfo dell’individuo che afferra il futuro nelle proprie mani e invece domina l’incertezza se non l'impossibilità, soprattutto per i giovani, di immaginare un progetto di vita. La precarietà è la condizione esistenziale dell’epoca. Doveva essere l’esportazione della democrazia e invece per la prima volta dopo tanto tempo il capitalismo sembra poterne fare a meno, sia nei livelli alti della crescita con il modello autoritario cinese e sia nella stagnazione europea accompagnata da una crisi del costituzionalismo. Il professor Guarino ha parlato di un colpo di stato; forse è esagerato, ma il Fiscal Compact è un accordo tra Stati che prescinde dall'istituzione dell'Unione Europea. Solo adesso ci si pone il problema di porre fine allo stato di eccezione, assorbendo il trattato nelle regole ordinarie. Anche nelle dimensioni nazionali si evidenzia una tendenza a forzare gli assetti costituzionali in senso antiparlamentare.

Il ribaltamento delle promesse rivoluzionarie riguarda anche la forma politica per eccellenza cioè la sovranità della legge. L’impeto rivoluzionario di quaranta anni fa si manifestò sotto la bandiera della deregulation, e rivelò uno spirito quasi anarchico nel contestare il principio legislativo, non solo in termini giuridici, non solo come regolazione pubblica, ma più profondamente come struttura cognitiva di comprensione della realtà. Il liberismo è stato una rivoluzione intellettuale non a caso covata per tanti anni nei think tank anglosassoni, prima in assoluto isolamento e poi via via con una straordinaria capacità di influenzare il senso comune. Il ripudio della ragione legislativa ha riguardato non solo i rapporti economici e le relazioni sociali, ma ha investito tutti i campi della conoscenza e la forma stessa della razionalità. È stato l'assalto a uno dei castelli della modernità, all'idea della sovranità come si era configurata dall'età barocca in avanti.


sabato 5 maggio 2018

Il futuro della mobilità urbana


Pubblico oggi il mio contributo al libro Green Mobility - Come cambiare la città e la vita, curato da Andrea Poggio per Legambiente. Si tratta di una raccolta di esperienze e progetti che rendono credibile un nuovo scenario per la mobilità urbana nei prossimi anni.

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Ai giovani assessori mi sento di dire: siate ottimisti, perché in futuro sarà più facile governare la mobilità urbana. Gli assessori del secolo scorso erano invece pessimisti, fiaccati dalla resistenza dell'uso proprietario dell'automobile. È stato il mito che ha plasmato l'immaginario collettivo, il paesaggio urbano, la produzione industriale. I giovani guardano ormai con ironia all'ossessione dei genitori per lo status symbol delle quattro ruote.

La convergenza tra i nuovi stili di vita e le tecnologie della condivisione rende possibile aggregare la domanda, cioè mettere in relazione in tempo reale le persone che si muovono nella medesima direzione. Era un problema un tempo irrisolvibile, che costringeva a irrigidire l’offerta pubblica nelle forme estreme: la modalità esclusivamente individuale del taxi oppure le linee predefinite del trasporto collettivo. L’ampia fascia intermedia veniva lasciata all’automobile privata, mentre oggi offre grandi potenzialità di crescita per forme di trasporto in condivisione. I nuovi servizi possono raggiungere quote di spostamenti fino a due cifre, prossime a quelle del trasporto pubblico e insieme superiori a quelle dell’automobile privata.

Per il salto di scala servono nuovi imprenditori che gestiscano sistemi di mobilità piuttosto che singoli segmenti di trasporto, che coinvolgano gli utenti attraverso tecnologie collaborative e marketing sociale. C'è chi ha cercato di sfruttare l’innovazione per coartare i diritti del lavoro, sotto forma di prestazioni occasionali e non tutelate, ma non è una scelta obbligata dalla tecnologia, come si vuole far credere. Con i “lavoretti di ripiego” non si modificano i grandi numeri della mobilità; occorrono imprese capaci di rispettare i contratti e la qualità del lavoro.

Due esempi da seguire: il superamento del monopolio telefonico ha creato spazio per le imprese della telefonia mobile, e gli incentivi fiscali hanno promosso le filiere produttive delle energie rinnovabili. Nel nostro caso, purtroppo, il Parlamento ha perso dieci anni a legiferare sulla sciocca guerra tra i taxi e il noleggio. Occorre invece una ambiziosa politica nazionale che superi gli attuali monopoli per creare un moderno mercato della mobilità urbana, con regole semplici e obiettivi di benessere sociale e ambientale. Se c'è una strategia chiara, si troveranno poi le gradualità per aiutare gli attuali operatori pubblici a partecipare all’innovazione. I tassisti hanno una preziosa esperienza del servizio a domanda che può essere riconvertita nel trasporto in condivisione. Le aziende pubbliche possono ristrutturare le reti gestendo le linee deboli mediante servizi a domanda - con le attuali tariffe per garantire l'accessibilità anche nelle periferie più lontane - ottenendo cospicui risparmi da reinvestire nelle infrastrutture. Soprattutto, la politica nazionale deve sostenere le esperienze innovative delle città - car-sharing, bike-sharing, car-pooling, mobility manager - al fine di coltivare l'humus favorevole ai nuovi stili di vita e al superamento del mito automobilistico.

Nella transizione diventa possibile volgere in positivo anche i difetti del passato: la mattina sugli autobus mi capita di ascoltare discussioni tra gli utenti sulle linee da prendere, sulle frequenze e sulla regolarità, e perfino sulla gestione dei turni degli autisti. Nelle altre città europee i passeggeri leggono il giornale senza preoccuparsi dei turni; da noi, si devono ingegnare per resistere alle inefficienze. È maturata così una competenza sociale del trasporto. Forse ne avremmo fatto volentieri a meno, ma ci sarà utilissima nell'avvento della nuova mobilità urbana.



mercoledì 2 maggio 2018

PD, M5S e le intese impossibili


In previsione della riunione della direzione del PD di domani, pubblico qui il mio punto di vista sui possibili scenari di governo condiviso tra i due partiti. L'articolo è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano di Martedì 1 Maggio.

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Ha fatto bene Martina a proporre una trattativa con i 5Stelle impegnandosi a sottoporre i risultati al referendum tra gli elettori del Pd. In un sistema proporzionale nessun partito è collocato automaticamente all'opposizione. La Spd si era presentata agli elettori dicendo “mai più” al governo con la Merkel, ma dopo la sconfitta l'esigenza di dare un governo al Paese ha riaperto la trattativa. I cui risultati hanno ottenuto la maggioranza nel referendum tra gli iscritti socialdemocratici.

Una parte del PD, invece, vorrebbe stabilire una pregiudiziale assoluta contro i 5Stelle, pur non avendo mai fatto lo stesso verso Forza Italia. I dirigenti che oggi sollecitano la rivolta della base contro l'ipotesi di accordo con Di Maio sono gli stessi che non hanno mai sentito l'esigenza di ascoltare gli iscritti prima di stipulare con Berlusconi accordi di governo, patti del Nazareno e sostegni informali nelle votazioni critiche al Senato.


Perché tale diversità di trattamento? Il programma di governo dei 5Stelle non è più distante dal PD di quanto non lo sia quello della destra. L'affidabilità di Di Maio è un'incognita, ma è un fatto che tutti i leader della sinistra - D'Alema, Veltroni, Bersani e Renzi - abbiano provato a fare accordi con il Cavaliere rimanendo sempre con il cerino in mano. Infine, il berlusconismo non è stato solo un fenomeno politico: per un quarto di secolo il suo leader, dai vertici delle istituzioni, ha incoraggiato la gente a non rispettare le leggi, a far vincere l'egoismo contro il bene comune, a trattare le donne come una merce. Di questi veleni iniettati nel corpo sociale ancora si sentono le conseguenze.

All'inizio di questo decennio, però, il fenomeno ha perso la sua spinta sotto i colpi della crisi economica. Il PD ebbe la possibilità di batterlo in campo aperto, ma evitò la competizione elettorale per andarsi a impantanare nel governo Monti, creando le condizioni per il trionfo di Grillo. Il sistema politico è diventato tripolare perché il bipolarismo non ha fornito l'alternativa. Da quasi dieci anni siamo costretti alle larghe intese perché il PD non ha assolto il compito fondativo, cioè costruire l'alternativa al berlusconismo. Ciò non significa che il movimento 5Stelle sia una costola della sinistra; è piuttosto una forza di centro che esprime l'inedita radicalizzazione di questo luogo politico pur decisivo per l'equilibrio del sistema. I democratici e i pentastellati sono quindi molto diversi e tuttavia connessi: sono insieme la causa e l'effetto del fallimento del breve bipolarismo italiano.

Questo intreccio rende molto difficile ma anche suggestivo il confronto. In un certo senso, avrebbero bisogno l'uno dell'altro. Il nuovo corso dei 5Stelle, di responsabilità europea e di credibilità di governo, sarebbe corroborato dall'intesa col PD, il quale di rimando avrebbe l'occasione per ripensare le sue politiche migliori, domandandosi perché non abbiano ottenuto il consenso popolare.

Il reddito di inclusione si poteva approvare due anni prima - nella versione del governo Letta, senza dover ricominciare daccapo in nome dell'ossessione renziana per l’anno zero - e soprattutto sostenendo tutte le persone aventi diritto, utilizzando i soldi che sono stati sprecati per togliere l'Imu ai più ricchi. Il PD si sarebbe presentato alle elezioni con il risultato storico della lotta alla povertà, e avrebbe svuotato la propaganda 5Stelle che parlava di reddito di cittadinanza pur avendo scritto un disegno di legge più simile al reddito di inclusione.

Bene ha fatto Renzi a lottare in Europa per ampliare i margini di manovra del bilancio. Peccato che abbia poi speso decine di miliardi per incentivi alle imprese illudendosi che avrebbero creato lavoro stabile, ripetendo lo stesso errore del famoso cuneo fiscale di Prodi. I nuovi posti di lavoro, sempre più precari, sono venuti dalle politiche europee di Draghi. Invece di sprecare soldi per incentivi si potevano rilanciare gli investimenti nell'ambiente, nella scuola, nella ricerca scientifica, nella sanità, nei trasporti. Sarebbe aumentata molto di più l'occupazione e ne avrebbe avuto un grande beneficio la produttività del sistema paese.