Questo qui sotto è un articolo scritto per il sito Tam Tàm Democratico, in cui rielaboro e sistemo le mie proposte per una riforma del Parlamento. Le proposte originali le trovate in questo post dello scorso Dicembre.
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In Italia si approvano troppe leggi. Eppure è di moda sostenere che bisogna velocizzare l’attività parlamentare. È uno dei tanti luoghi comuni che sviano il dibattito pubblico. L’attività legislativa è stata piegata ad esigenze di autorappresentazione del potere politico, prescindendo da concrete esigenze di regolazione della vita pubblica. Legifero, ergo sum è il motto del politico mediatico.
Questa riduzione della politica alla legislazione ha reso quasi ingestibile la macchina statale. Ci sono le “leggi manifesto”, ad esempio molte leggi sulla sicurezza o sulla corruzione scritte sull'onda di eventi drammatici si rivelano successivamente insensati appesantimenti burocratici. Ci sono poi le leggi ideologiche che spesso finiscono per arenarsi nel contenzioso costituzionale, come nei casi delle ronde o della procreazione assistita. Ci sono le leggi bugiarde che dicono una cosa positiva per nascondere quella negativa facendo conto sulla confusione mediatica, come la legge Gelmini che prometteva più competizione tra gli atenei mentre li soffocava con la burocrazia. Ci sono le leggi approvate per calmare i mercati, che si sono sempre risolte con il peggioramento del debito, come dimostrano tutte le finanziarie di Tremonti.
L’attività legislativa è stata dominata dalle ossessioni del dibattito politico. Il fisco è stato travolto da un’alluvione normativa che non consentiva di applicare neppure le regole appena emanate perché nel frattempo erano già cambiate. Il governo Monti ha portato alla paralisi i Comuni sconvolgendo in pochi mesi tutti i tributi locali già ripetutamente modificati negli anni precedenti. In generale, può funzionare un Paese in cui si cambiano ogni anno le norme sulla scuola, sulla sanità, sugli incentivi alle imprese, sui servizi pubblici? E poi, senza senso del ridicolo, si istituisce perfino un ministero della semplificazione addetto a cancellare le norme che prima erano state ritenute miracolose.
I ministri ormai hanno perduto il senso del proprio ruolo, non amministrano più la macchina statale ma si sentono obbligati a lasciare un segno riscrivendo le norme di propria competenza. Il governo chiede tante deleghe legislative che poi non è in grado di utilizzare. Non si approvano più leggi organiche, ma solo leggi omnibus costituite da micro norme, che creano problemi interpretativi e contenziosi senza fine.
Perfino nel linguaggio corrente la parola riforma ormai indica la mera approvazione di una legge. Invece, la vera riforma dovrebbe essere un processo graduale e multifunzionale: definizione condivisa degli obiettivi; ricognizione delle risorse finanziarie, professionali e organizzative; analisi di esperienze analoghe; implementazione sociale delle regole; organizzazione delle strutture preposte all'attuazione; formazione degli operatori; monitoraggio degli interventi; valutazione dei risultati e modifiche in corso d’opera. In questo contesto, la norma dovrebbe essere solo uno degli strumenti per dare cogenza al processo. Al contrario, proprio il riduzionismo normativo è la causa principale del fallimento delle pseudo riforme italiane.
La bulimia legislativa rischia di soffocare la funzionalità dello Stato e la vitalità sociale. Eppure, nella mia esperienza parlamentare ho constatato scarsa consapevolezza del problema. Si è fatto credere all’opinione pubblica che con le regole di oggi non è possibile approvare leggi in tempi brevi; non solo è falso, ma di solito le più veloci sono anche le più sbagliate: il Porcellum e le norme ad personam sono state approvate in poche settimane; la manovra pensionistica della Fornero, viziata da errori gravi sugli esodati, in soli quindici giorni. Ciò nonostante si reclama la velocità parlamentare. Con un argomento tanto banale quanto falso: il mondo cambia e le leggi devono correre.
È solo un insensato futurismo legislativo. Aveva ragione Luigi Einaudi che considerava la lentezza parlamentare una fortuna per il Paese proprio perché limita l’ipertrofia normativa. Bisogna riscoprire la virtù dell'indugio parlamentare che fa decantare la discussione pubblica fino a che non si deposita in solide certezze alle quali si potrà dare il sigillo della forza dello Stato.
Restituire centralità al Parlamento è oggi un’esigenza ampiamente sentita, anche all’estero, come dimostra ad esempio il rapporto Norton sul caso britannico. Sulla base della mia esperienza propongo cinque miglioramenti che sono possibili anche a Costituzione invariata.
1 - Ridurre l’attività legislativa che oggi impegna quasi totalmente il tempo di lavoro parlamentare e limita tutte le altre funzioni. Sono sufficienti poche leggi l’anno, purché affrontino in modo organico i diversi argomenti, stabilizzando le decisioni per gli anni a venire ed eliminando tutta la micro legislazione che si è accumulata negli anni precedenti. Le prime dovranno essere ampie delegificazioni che delegano molte competenze all'amministrazione. In questo modo si ottengono due vantaggi, da una parte il Governo può provvedere alla gestione della cosa pubblica senza ricorrere a modifiche normative e nel contempo l'attività del Parlamento viene liberata da minuzie amministrative, compresi alcuni impegni di spesa, e può dedicarsi ad alta legislazione con la produzione di Codici unitari nei diversi campi.
2 - A fronte di una maggiore autonomia nella gestione della cosa pubblica il Governo è sottoposto ad un effettivo potere di indirizzo e controllo, che va reso cogente con regole molto più precise. Oggi una mozione serve come bandierina per chi la propone ma nella maggior parte dei casi non ha alcuna conseguenza pratica. Le interrogazioni sono attività burocratiche la cui risposta dipende dal ghiribizzo del Governo. Le stesse interrogazioni formali dovrebbero essere ridotte a questioni di rilevanza generale, mettendo però a disposizione dei parlamentari e dei cittadini strumenti diretti di accesso alle informazioni. Le audizioni parlamentari di funzionari dell’amministrazione e di manager di aziende pubbliche dovrebbero diventare strumenti temuti dalle burocrazie come accade nel parlamento americano.
3 - Le Camere devono dotarsi di strumenti efficienti di monitoraggio di tutte le attività amministrative. In particolare, bisogna istituire una struttura professionale di policy analysis per verificare i risultati ottenuti dal Governo nell’attuazione delle leggi e acquisire indicazioni utili per la legislazione successiva. Questa attività di rendiconto è oggi completamente ignorata e spesso si approvano leggi che ripetono pedissequamente gli errori già compiuti. All'attività di controllo e indirizzo bisognerebbe dedicare gran parte del tempo disponibile.
4 - Il Parlamento deve essere la Casa delle Autonomie, il luogo di confronto e di concertazione permanente con le Regioni e gli Enti Locali, secondo l'ispirazione dell'articolo cinque della Costituzione, quel mirabile principio del Riconoscimento che fonda un prius storico e nazionale nelle comunità territoriali rispetto alla formazione statale. L’intuizione dei padri costituenti è stata smarrita da quando si è preso a parlare di federalismo e si è affermata l'usanza di collocare la Conferenza Stato-Regioni presso il Governo, escludendo il Parlamento da questa fondamentale relazione costituzionale.
5 - Infine, l'ascolto delle forze vive del paese dovrebbe essere il cuore dell'attività parlamentare. Non solo utilizzando tutte le tecnologie disponibili per garantire l'accesso alle informazioni e il dialogo con i cittadini, ma attivando canali di consultazione delle forze sociali, di associazioni e di esperienze significative della vita sociale e culturale. I lavoratori di una fabbrica, i cittadini che organizzano una petizione, gli studenti che invocano provvedimenti a favore dell'istruzione - per fare solo alcuni esempi - sono esperienze che devono trovare udienza e confronto secondo procedure ordinarie e ben definite.
Le competenze, le istituzioni culturali, le personalità che danno lustro al Paese dovrebbero essere di casa nelle sedi parlamentari per essere consultate sulle decisioni da prendere. Anche col supporto di un rinnovato ruolo del Cnel la concertazione sociale dovrebbe trovare un punto di riferimento costante nel Parlamento. Le iniziative legislative dei cittadini devono avere una maggiore garanzia di accesso al dibattito parlamentare, costringendo le parti politiche a dare risposte chiare sia positive sia negative.
Ma tutte queste innovazioni non sono sufficienti se non si ricostruisce il prestigio del Parlamento e dei suoi membri. Bisogna cancellare la parola privilegio dal dibattito politico. Gli emolumenti dei parlamentari si possono almeno dimezzare. Già oggi, infatti, il 50% di quello che ricevono non va nelle loro retribuzioni, ma finanzia la politica scaricando però su di loro un prezzo di immagine rispetto ai colleghi europei.
La gestione coordinata di una parte di tali risorse consentirebbe ulteriori risparmi e aumenterebbe la qualità del nostro lavoro. Si potrebbe condividere una moderna piattaforma tecnologica, utilizzando alte professionalità, per realizzare una potente macchina di comunicazione. Ci consentirebbe di tenere informati e ascoltare tutti i giorni i cittadini delle primarie, seguendo l’esempio della piattaforma Organizing for America di Obama.
Infine, è ineludibile la legge di attuazione dell’articolo 49 sui partiti al fine di assicurarne la trasparenza democratica e di ripensarne le modalità di finanziamento. L’unica via che può legittimare un contributo pubblico è il coinvolgimento dei cittadini nella scelta di finanziamento di ciascun partito. Ne abbiamo ragionato in un gruppetto di parlamentari ed è venuto fuori un disegno di legge che individua due strumenti: contributo pari all’uno per mille del gettito Irpef da ripartire secondo le indicazioni dei contribuenti; forte credito d’imposta per le libere donazioni private, secondo la proposta di Pellegrino Capaldo. Anche il presidente Letta ha espresso analoghi intendimenti nelle sue dichiarazioni programmatiche. Si può fare presto.
Questo modo di finanziamento sarebbe un incentivo a riformare la nostra organizzazione. Tutti i giorni, non solo le domeniche dei gazebo, dovremmo cercare il sostegno del popolo delle primarie, non solo per ottenere i finanziamenti, ma per mettere a frutto la disponibilità di milioni di elettori, coinvolgendoli nelle decisioni e nell’ampliamento dei consensi. Sarebbe il primo passo per costruire il grande partito popolare che il PD non è ancora riuscito a diventare.
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