Non condivido il decreto sul lavoro approvato ieri in Senato. Non potendo smentire la decisione favorevole del mio Gruppo ho scelto di non partecipare al voto. L’indegna bagarre scatenata dal gruppo 5 Stelle occupa lo spazio mediatico e rende più difficile una discussione serena e di merito. Anche per questo sento il bisogno di chiarire le mie motivazioni.
Avevo sperato che il Jobs act di Matteo Renzi potesse davvero cambiare verso, ma purtroppo è stata una promessa mancata per almeno tre motivi.
a) Il contratto a tutele crescenti e sostitutivo delle forme precarie doveva superare il fossato tra garantiti e non garantiti. E invece il decreto rende il contratto a termine lo strumento quasi esclusivo per i giovani, aggravando una tendenza già in atto. Viene cancellato l'obbligo per l'imprenditore di motivare le ragioni dell'assunzione temporanea e quindi viene impedita qualsiasi forma di controllo. D'altro canto, in caso di violazione del massimale di contratti a termine presenti in azienda ci sarà solo una multa, perché è stato cancellato - come ha voluto Sacconi - l'obbligo di trasformazione in contratto a tempo indeterminato. Eppure questa sarebbe la basilare configurazione di un rapporto di lavoro, secondo una precisa direttiva europea che viene elusa palesemente.
Si è rinviato il contratto unico ad un decreto legislativo da approvare nei prossimi anni. Come ha osservato Tito Boeri il decreto di oggi vanifica la futura riforma, perché le imprese avranno interesse a utilizzare queste norme invece di quelle che offriranno eventualmente più garanzie ai lavoratori.