Pagine

mercoledì 11 aprile 2018

Vedere e pensare la città


Pubblico oggi la mia prefazione al libro del giovane amico Michele Grimaldi, La macchia urbana - la vittoria della disuguaglianza, la speranza dei commons

*
Questo libro è da leggere, conservare e diffondere.

Da leggere come un romanzo di viaggio nelle città. Un viaggio nel tempo, dalle misteriose origini fino agli esiti contemporanei, e nello spazio globale, inseguendo le invarianti e le differenze nei diversi continenti.

Da conservare, poiché al lettore non mancherà l'occasione di riprenderlo in mano per approfondire un caso di città o uno dei tanti pensatori che l'autore chiama a testimoniare. Utile per chi voglia farsi un'idea della letteratura critica che sull'asse interpretativo di Lefebvre, Berman e Harvey ha saputo connettere i processi strutturali, le trasformazioni sociali e i codici dell'immaginario urbano.

Da diffondere perché, dietro il rigore dell'analisi, prorompe un pensiero militante desideroso di affiancare i movimenti popolari e di contribuire alla ripresa di una politica democratica della città. Per le tante battaglie comuni, non ci sarebbe bisogno di chiarire con Michele il significato che attribuisco alla parola "militante", ma forse è bene evitare fraintendimenti con il lettore. Non gli attribuisco significato ideologico né meramente attivistico; piuttosto lo trovo un urlare in faccia al conformismo del nostro tempo un orgoglioso "non mi avrai". Significa rimanere in piedi senza farsi travolgere dal vento delle ideologie dominanti e andare alla ricerca delle faglie che sprigionano le promesse mancate della democrazia.

Il libro è prima di tutto un appassionato esercizio di critica del fenomeno urbano. In queste pagine il fare teoria della città riscopre la radice originaria del theorein - etimologicamente il vedere la città - che però non è un'attività ingenua o passiva, quanto una lotta per squarciare i paraventi del mainstream, per conquistare uno sguardo sapiente sulle strutture del potere, e per lasciarsi incantare dalla molteplicità della vita urbana. Michele ci offre un rischiaramento della questione, un Aufklärung post-illuministico, non solo oltre il sonno della ragione, ma per un risveglio della vita cittadina.


Il primo sguardo militante produce una convincente polemica contro gli ossessivi luoghi comuni e contro le dimenticanze non ingenue che hanno tenuto banco nella retorica politica dell'ultimo ventennio. Ora è più chiaro che la competizione tra le città è stata una fuorviante "leggenda metropolitana", un caso di Pop-Internationalism, secondo la citata espressione di Paul Krugman. Non si è trattato solo di una rozza forzatura ideologica che ha preteso di ridurre nell'asettica forma aziendale la complessità antropologica dell'esperienza urbana. C'era in tale riduzionismo anche la malevola intenzione di oscurare le diseguaglianze, descrivendo la città come una sfera liscia depurata delle striature e delle fratture sociali, come un attore solitario che parla la lingua dell'establishment e riduce al silenzio le altre voci, come una volontà unitaria che ammette solo il conflitto economico all'esterno e oscura il conflitto politico interno. L'operazione simbolica è riuscita, il discorso pubblico ha espunto la questione sociale, proprio mentre essa tornava all'intensità della città ottocentesca. Per tornare alla realtà c'è voluta la crisi economica mondiale, che non è uno dei tanti cicli della crescita raccontati dagli economisti, ma la manifestazione di una "grande trasformazione" in gran parte avvenuta e ancora in atto.

Chi l'avrebbe detto che il turbo-capitalismo si sarebbe inceppato sul vecchio sogno piccolo borghese della casetta in proprietà. Che la crisi esplodesse proprio sui mutui immobiliari non era stato previsto a suo tempo, e neppure veramente compreso a posteriori. La sorpresa deriva dalla sottovalutazione o inconsapevolezza, perfino della scienza economica, del carattere sistemico assunto dalla rendita immobiliare negli ultimi venti anni. Sistemico all'interno del proprio campo, poiché con il fondo immobiliare la rendita approda alla sua fase pura che prescinde dai vincoli localizzativi e funzionali, regolando tutti i caratteri della struttura materiale. Sistemico verso l'esterno del proprio campo, per l'inedito intreccio con l'ascesa della finanza che ha prodotto un continuum nell'economia di carta e di mattone. A conferma del misterioso intreccio tra la dimensione fisica e immaginaria dell'urbano, vale la pena ricordare che nel dopoguerra, quando era ancora un fenomeno settoriale e arretrato, la rendita divenne argomento delle lotte sociali, del dibattito parlamentare e perfino dell'arte, dal cinema di Rosi al romanzo di Calvino. Invece è scomparsa dal discorso pubblico quando è diventata una colonna della finanziarizzazione, fino a determinarne gli scricchiolii e i parziali cedimenti. Si tratta di nessi che ancora oggi nel dibattito pubblico e nella letteratura scientifica sono scarsamente indagati. A mia conoscenza, questo è uno dei pochi libri italiani che spiegano come l'incipit moderno dell'appropriazione dei terreni incolti - il movimento delle enclosures che diede origine all'accumulazione capitalistica - si ripresenti oggi come una forza di trasformazione post-moderna.

Il secondo sguardo, proprio perché militante, non perde di vista la libera espressione dell'umano, senza farsi fuorviare dalle false necessità del regime urbano. L’analisi riguarda la frattura tra logica di sistema e forma di vita. È la frattura che spiega la crisi politica europea: ciò che maldestramente viene chiamato “populismo” è solo la manifestazione di una profonda estraneità tra élite e popoli. Nella storia europea forse bisogna risalire all'età dell'Assolutismo per ritrovare una distanza tanto forte tra chi ha in mano il potere e chi ne è privo. È stata chiamata post-democrazia dalla scienza politica critica, che ne ha spiegato le dinamiche istituzionali, economiche e simboliche. Ma per capire la mutazione generale bisogna rivolgere lo sguardo alla città - con il vedere pensante del theorein - come ci invita a fare Michele. Perché nello spazio urbano la logica di sistema si manifesta nella sua materialità e svela la pretesa di modellare la forma di vita. Il contrasto diventa più visibile e nel contempo suscita le energie che ne mettono in discussione l'origine. Non si tratta solo della semplice manifestazione fisica dei processi economici che in definitiva riguarda ogni territorio. Nell'urbano c'è una relazione più intima tra sistema e vita, come vide Georg Simmel nel pioneristico saggio "La metropoli e la vita dello spirito" che aprì la strada alla sociologia urbana e a gran parte degli autori citati in questo studio.

Nella metropoli post-urbana lo spazio accentua sia l'esteriorità sia l'interiorità delle forme sociali. Gli archetipi della città vengono mistificati o rielaborati nella trasformazione contemporanea. Le mura sono scomparse come segno fisico esteriore - preservate non sempre con cura come reperto archeologico - ma la loro potenza simbolica dispiega una presenza immanente all'organizzazione sociale. I confini si smaterializzano ma diventano più laceranti prendendo a riferimento le diversità di etnia, di ceto sociale, di stili di vita, di generazioni e assumono le varie forme di gentrification, di vecchi e nuovi ghetti, di edge city, delle ossessioni securitarie nelle gated community, fino all'effetto Truman Show del new urbanism, tutti fenomeni acutamente descritti nella seconda parte del libro. In senso inverso, l'archetipo della piazza offre una materialità per sedimentare la carica simbolica accumulata nella comunicazione immateriale. Tutti i grandi movimenti politici nati nella rete negli ultimi anni hanno sentito il bisogno di rappresentarsi in luoghi urbani, trasformandoli in vere e proprie piazze del mondo: Occupy Wall Street, le tende degli Indignados a Madrid, piazza Tahrir del Cairo, Gezi park di Istanbul.

In questo avvicendarsi di interiorità ed esteriorità dei fenomeni socio-spaziali si esprimono sia le ineffabili strutture di dominio sia la corporeità dei movimenti libertari. E questi va esplorando in tutte le parti del mondo il nostro autore, come un cercatore di pepite d'oro che segue le tracce per arrivare a scoprire i grandi giacimenti. Non un elenco indistinto di buone pratiche, come si legge in tanti studi vagamente progressisti, ma la ricerca di un ribaltamento delle strutture di potere. Come passare dalla singola esperienza di lotta a una nuova politica per la città. Qui emerge non solo l'impegno intellettuale, ma perfino lo stile molto personale di scegliere un particolare per descrivere un fenomeno più grande, di esaltare un dettaglio per comunicare un'intuizione. Uno stile di Michele ben noto agli amici più cari, che a me sembra anche frutto del suo nutrimento culturale: l'intelligenza della vita coltivata dalla civiltà napoletana. Che nella sua lunga durata ha sviluppato gli anticorpi capaci di curare la frattura contemporanea tra logica di sistema e forma di vita. Si racconta che Wittgenstein abbandonò il grande tentativo sistematico del Tractatus perché non era in grado di spiegare la smorfia napoletana, e iniziò una nuova ricerca sul linguaggio come forma di vita.

Infine, il terzo sguardo è rivolto al nesso tra teoria e pratica. Nella testa del militante risuona sempre l'undicesima tesi su Feuerbach, il passaggio dall'interpretazione alla trasformazione del mondo. Nell'attuale riformismo di sinistra la sequenza si legge in negativo: non trasforma la realtà perché non è più in grado di interpretarla. I sedicenti riformisti si sono abbarbicati nell'amministrazione e di conseguenza sono rimasti intrappolati nella logica di sistema. Avendo reciso le radici sociali e culturali è venuta meno la linfa che alimenta le riforme quando davvero riescono a migliorare la vita delle persone. È evidente ormai l'estraneità del discorso politico da qualsiasi referente sociale. Il soliloquio levigato dei leader mediatici non riesce neppure a percepire la scabrosità della vita reale. A dare la misura della distanza nella mia periferia romana basta una frase fulminante di Walter Siti: "Non so proprio immaginare un borgataro riformista". D'altro canto, la perdita di contatto con la libera ricerca culturale ha lasciato i riformisti in balia dei think tank che promuovono patinate campagne ideologiche, come ad esempio l'ultima delle smart cities. Si assomigliano tutte le agende delle principali città, sembrano scritte dalle società di consulenza che rifilano lo stesso documento a diversi committenti cambiando solo la copertina.

Dello smacco della politica riformista si avverte in queste pagine una testimonianza seppure dissimulata e insieme un tentativo di fuoriuscita. C'è un percorso che porta dall'inadeguatezza della politica alla ricerca teorica, ma sempre con il pensiero rivolto all'undicesima tesi. Credo possa incrociare il cammino inverso di tanti giovani ricercatori, molti dei quali non a caso precari, che studiano la città con una forte motivazione politica. A me sembra di scorgere nelle università, nei centri sociali, nell'associazionismo, un fiorire di studi critici sul fenomeno urbano che attraversa tutte le discipline e svelle le fondamenta dell'ideologia dominante. Chissà, forse camminando in senso opposto sulla stessa strada giovani studiosi e giovani politici si incontreranno e decideranno di proseguire insieme. Sarebbe l'occasione per ricostruire un rapporto fecondo tra politica e cultura, condizione essenziale per trasformare le nostre città.

Non so se è una previsione ben fondata, magari è solo un sogno di un anziano militante come me, o forse un augurio alle nuove generazioni di militanti. Mi piacerebbe vederli tornare all'offensiva nel governo e nella lotta. Anche con la speranza che possano porre riparo ai nostri insuccessi. Forse pesa anche un senso di colpa della mia generazione che ha scaricato sulla successiva il prezzo della sconfitta.

Michele ha frequentato la politica riformista e ha reagito alle delusioni con un intenso impegno intellettuale. Quando vengono dolorosamente rielaborate nella riflessione teorica, le sconfitte diventano formidabili occasioni cognitive. Probabilmente Platone scrisse La Repubblica tornando indietro da Siracusa con la delusione di non essere riuscito a educare il tiranno di quella città.
L'inversione del viaggio è il sogno segreto di questo libro. Credo che Michele ambisca di andare a Siracusa insieme ad altri compagni disposti ad abbattere i tiranni del nostro tempo.


Nessun commento:

Posta un commento