Qui potete leggere l'intervento all'Istituto Sturzo in occasione della presentazione del libro di C.S. Bertuglia, F. Vaio, La Città dopo la pandemia, Aracne 2023. Il mio testo è stato pubblicato dalla rivista Città Bene Comune con il titolo Per una nuova scienza della città. Nello stesso dibattito è intervenuto Giovanni Maria Flick, La città dal diluvio all'arcobaleno.
Questo è un libro sulla memoria e sul futuro. Non dimenticare la lezione del Covid è la condizione per l’avvenire delle città.
Le pandemie hanno lasciato sempre grandi mutamenti, come ci raccontano molti saggi e in particolare la conclusione di Franco Vaio.
Solo per fare un esempio il colera dell’Ottocento lasciò in eredità un’innovazione di lunga durata come il sistema fognario. Il Covid, per adesso, ha lasciato un segno modesto e spero non duraturo, ha lasciato soltanto l’invasione dei tavolini sui marciapiedi.
Quasi nulla si è fatto, invece, sui grandi temi svelati dall’emergenza, che, a ben vedere, già da prima avrebbero richiesto soluzioni coraggiose.
I fallimenti e i successi del Servizio Sanitario, per esempio, erano prevedibili con i dati epidemiologici: qui a Roma nei quartieri intorno a Tor Bella Monaca abbiamo un tasso di mortalità più alto del 25% rispetto ai quartieri intorno a Parioli. Ogni anno muoiono 4500 persone in più nei quartieri disagiati, una sorta di epidemia della povertà che provoca lo stesso numero di morti del Covid, ma non con lo stesso clamore. L’aumento della mortalità dipende da malattie come il diabete, semplici da curare se ci fosse adeguata prevenzione. Al contrario, quando si tratta di patologie che richiedono difficili interventi ospedalieri, per esempio di cardiochirurgia, i ricchi e i poveri sono curati con risultati non disuguali. Il nostro servizio sanitario, in linea di massima, è egualitario negli ospedali, ma fa Caporetto nella prevenzione territoriale. E l’attuale governo ha addirittura aggravato il problema.
A differenza della Sanità il trasporto pubblico ha mostrato una scarsa resilienza, poiché era già indebolito dalla storica mancanza di una seria cura del ferro, di cui ci parlano i contributi di Sylvie Occelli, di Claudio Cipollini e Lorenzo Gallico.
Inoltre, lo smart working ha salvato molti settori produttivi durante il contagio, ma rischia di tornare marginale se non si accompagnerà a un più ampio ripensamento delle condizioni di lavoro, peraltro necessitato da insoddisfatte domande di senso, come dimostra l’incredibile fenomeno soprattutto americano delle dimissioni da impieghi anche di alta professionalità. E non è ancora messa a tema la riconversione degli spazi del terziario, che diventerà la principale trasformazione urbanistica nei prossimi anni, come spiega Corrado Baldinelli.
Infine, l’interdipendenza tra locale e globale, svelata dal singolare ruolo di Codogno, che per alcuni mesi è stato il centro del mondo occidentale, richiederebbe una maggiore consapevolezza della vulnerabilità dei territori esposti in presa diretta alle mutazioni anche impercettibili di parti lontane. Tra Codogno e il mercato di pipistrelli in Cina si è instaurata un’invisibile relazione, come una sorta di entanglement, la connessione tra due particelle lontanissime, ideata da Einstein.
Insomma, sembra che la lezione del Covid sia già stata dimenticata.
Eppure, gli esperti ci dicono che il contagio potrebbe manifestarsi in tante altre forme, fino a costituire un rischio endemico che potrebbe amplificarsi nell’interazione con le altre grandi mutazioni, il cambiamento climatico e il ritorno delle guerre di annientamento.
La crisi della città industriale generò grandi risposte, non solo le fogne, ma la nascita dell’urbanistica, la quale si affermò proprio come politica sanitaria della città. Ciò le conferì una deontologia umanistica, come critica dell’esistente e per certi versi come filosofia morale. La perdita di questi caratteri originari, non a caso, accompagna l’attuale decadenza della disciplina, purtroppo catturata, in parte, dai dominanti assetti territoriali ed economici.
Insomma oggi non appare una capacità di risposta pari a quella del passato. Non abbiamo inventato una nuova scienza urbana. Forse non bastano quattro anni per trarre questo bilancio, forse è già molto importante che l’Europa abbia reagito con un poderoso piano investimenti.
Tuttavia, la risposta appare molto al di sotto delle nostre possibilità, dei nostri strumenti, certo molto più potenti del passato: la crescita infinita delle conoscenze, le tecnologie che arrivano a imitare la mente umana e a creare la materia, l’organizzazione sociale che pervade tutti i momenti della vita, le reti internazionali che presidiano ogni parte del globo, ecc. Questi mezzi inauditi non sembrano ancora mobilitati per garantire il futuro del pianeta.
Siamo approdati a un grande squilibrio tra Potenza e Saggezza; tra la Potenza di trasformazione del mondo e la Saggezza, intesa come la capacità di regolare gli esiti della trasformazione. Giorgio Ruffolo lo aveva già capito negli anni ‘80 con il libro Potenza e potere, dove “potere” indicava la capacità di regolazione.
Per esprimere la posta in gioco non basta neppure il linguaggio ordinario. Qui all’Istituto Sturzo possiamo utilizzare il linguaggio più complesso e profondo del messianismo cristiano. E allora lo squilibrio tra potenza e saggezza si traduce nella tensione tra eschaton e katechon. L’escathon è la promessa di inverare il Regno di Dio in terra, una promessa oggi secolarizzata dall’utopia tecnologica, come espressione della potenza dell’uomo contemporaneo. Il katechon, invece, è la capacità di trattenere il male in attesa del Regno di Dio, ma proprio questa secolarizzazione non si manifesta, poiché appunto sono deboli le forze di contenimento delle pulsioni autodistruttive del genere umano.
Dallo squilibrio tra Potenza e Saggezza riemerge la sempiterna profezia della fine della città. La pandemia l’ha rilanciata con la profezia, che ha deliziato i media, di una vita agreste sostenuta dalle mirabilia della connettività tecnologica.
La profezia è sempre stata smentita dai fatti. Le crisi, infatti, sono intrinseche alla dimensione urbana e anzi ne costituiscono le fasi di trasformazione.
Come osserva Roberto Della Seta, dal punto di vista della cultura ambientalista, la città è certamente l’ambito di massima dissipazione delle risorse, ma è anche il luogo di maturazione della consapevolezza ecologica. Parafrasando un verso di Hölderlin si potrebbe dire: “Laddove è il rischio cresce anche ciò che salva”.
Durante la pandemia la possibilità di salvezza è stata vissuta come un imperativo vitale: Abitare la Distanza (un’interpretazione filosofica del tema in Pier Aldo Rovatti, Raffaello Cortina, 2007). Abbiamo cercato di dare un senso alla separazione, affrontando limitazioni mai vissute prima, ma anche scoprendo nuove opportunità, come il lavoro e lo studio a distanza, i gesti di solidarietà, la gioia di ritrovarsi a cantare insieme nei cortili.
Proprio questa ambivalenza svela un significato più profondo dell’imperativo: non solo un volontarismo dettato dall’emergenza, ma anche un’esperienza legata all’essenza relazionale della città. A pensarci bene, il problema che ci ha angustiato nella pandemia non è un accidente, ma appartiene all’essenza del fenomeno urbano, anzi ne indica l’origine e il destino.
La città nasce e prospera proprio per Abitare la Distanza, sia in senso fisico sia in senso sociale.
1. In senso fisico, come insegna Leonardo Benevolo, l’agglomerazione urbana riduce le distanze al fine di renderle compatibili con i tempi delle relazioni interumane. Il contenimento dell’illimitato crea la funzione e accresce le possibilità della vita urbana. È dispositivo spazio-temporale che supera il nomadismo (vedi i saggi di Bianca Petrella e di Angelo Campo).
2. In senso sociale, la stretta connessione tra le persone procura un sovraccarico psichico che si può sostenere solo in quanto l’altro è straniero, secondo la famosa intuizione di Georg Simmel, ripresa meritoriamente dal saggio di Irene Ranaldi. Se tutti gli abitanti si conoscessero direttamente sarebbe molto faticosa e meno libera la vita metropolitana. Italo Calvino se ne intendeva di città per aver indagato tutte le sue forme invisibili e raccontava di essersi trasferito a Parigi proprio per salvare lo sguardo straniero (Eremita a Parigi, in Romanzi e Racconti, volume terzo, Modadori, 2004, pp. 102-10) È il dispositivo psico-sociale che supera il comunitarismo.
Questi dispositivi originari dell’Abitare la Distanza si sono affermati in una lotta che ha consentito di mediare le unilateralità del nomadismo e del comunitarismo, senza negarli, ma assorbendoli entro un nuovo orizzonte spaziale e sociale. Infatti, ancora nella città contemporanea esiste un nomadismo inter e intra-urbano, come mostrano le letterature del city-user e del flaneur; così come esiste ed è prezioso un comunitarismo di quartiere, creativo di stili e di solidarietà.
La vita metropolitana non annienta i suoi nemici, ma li civilizza nel proprio ambito.
Questa civilizzazione oggi è decisiva nell’affrontare il rischio pandemico (vedi il saggio di Massimo Pica Ciamarra). L’urbano riuscirà di nuovo ad assorbire l’assalto che viene dall’anti-urbano?
Il dubbio emerge nel libro. Molti saggi assumono una postura a ritroso, per la quale la pandemia non è un nemico imprevisto, ma è la rivelazione di una patologia già incubata da tempo nel fenomeno urbano. Renzo Riboldazzi, per esempio, dimostra che essa riporta in auge tutti i problemi urbanistici irrisolti da decenni. Più in generale, a me pare, che nell’ultimo mezzo secolo sia entrata in crisi proprio questa capacità di civilizzare i nemici dell’urbano.
Il nomadismo e il comunitarismo si ripresentano nella loro unilateralità, senza alcuna possibilità di mediazione. Il primo rinasce nella dispersione nello sprawl, nella negazione del confine tra città e campagna, nella frammentazione della città infinita, in un’estesa dissipazione di risorse ambientali e di legami sociali. Il comunitarismo si ripresenta in forma deteriore nella creazione di ghetti, di recinti, di segregazioni etniche e di insediamenti in stile Truman Show, ecc.
Allora la pandemia è un’occasione per capire meglio dove stiamo andando: siamo ancora capaci di Abitare la Distanza? Questo imperativo ci incoraggia a rielaborare nella contemporaneità l’origine dell’urbano, senza cadere nel catastrofismo dell’anti-urbano. Ne saremo capaci?
A queste domande il libro risponde con proposte concrete e ulteriori piste di ricerca che provo a riassumere in tre punti fondamentali: la politica, l’economia e il sapere della città
1. Marianella Sclavi ci ha regalato un libretto dentro il libro, dedicato alla democrazia deliberativa. Non è questa la sede per approfondire il suo metodo, ma è utile partire dal suo problema, ovvero la crescente divaricazione tra le retoriche decisionali del potere e la fisiologia dell’organismo urbano. Tra alto e basso c’è ormai un’incomprensione di linguaggio, espressa da Walter Siti con una frase fulminante - “Non so immaginare un borgataro riformista” - che mette in luce la distanza tra il gergo politico e la cruda realtà della periferia romana.
Sono cambiate le sorgenti della politica: non si alimenta più dal radicamento sociale, ma è incistata nella macchina statale, quindi sa utilizzare solo le norme e ne produce una quantità alluvionale, fino a soffocare la fisiologia sociale; inoltre, ha rinunciato all’impollinazione culturale, quindi non genera nuove idee, ma è costretta dai media a dare spettacoli sempre più bizzarri.
Penso ai miei alberi da frutto, li ho appena curati con le potature e gli innesti, per una passione contadina che mi ha preso in tarda età. Non produrranno frutti se non salirà vigorosa la linfa dalle radici e se verrà meno il lavorio delle api che portano il polline. Analogamente la statalizzazione e la mediatizzazione, avendo sostituito il radicamento sociale e l’elaborazione culturale, impediscono alla politica di portare buoni frutti alla società.
La svolta può venire solo da una nuova politica della generatività, che trova proprio nella città il suo ambiente naturale, secondo una linea di ricerca avviata proprio qui allo Sturzo da Mauro Magatti e Chiara Giaccardi.
La misura del cambiamento è ben rappresentata dalla mutazione del lessico. Il lockdown aveva introdotto nuove parole in sostituzione di quelle del secolo scorso: quando eravamo giovani parlavamo con entusiasmo di sviluppo e riforme, ma poi questi obiettivi hanno assunto significati di conservazione dell’esistente.
Nei giorni della pandemia, invece, si parlava di Vulnerabilità e Cura (per esempio, I. Dominijanni et al, Salto di Specie, Centro per la riforma dello Stato, 2020).
La Vulnerabilità alimenta la coscienza del limite e per questa via fa emergere una forza della fragilità in grado di contenere la Volontà di Potenza; e il prendersi Cura è la relazione katechontica che salva l’umano resistendo alla colonizzazione della vita, alla spoliazione dei beni comuni e agli spiriti selvaggi del capitalismo.
Il lessico della pandemia aiuta la riconciliazione della politica con la vita.
2. Per Stefano Zamagni nei modelli teorici dell’economia non esiste la città come luogo di relazione, cioè, aggiungo io, come forma dell’Abitare la Distanza. In effetti, l’epoca industriale non si è mai veramente innamorata della vita urbana, anzi l'ha sfigurata con i suoi impianti, l'ha ammorbata con i suoi inquinamenti e ha imposto i suoi modelli organizzativi: la parcellizzazione professionale del fordismo è analoga alla gerarchia territoriale dello zoning.
Negli ultimi tempi, invece, è scoppiato un grande interesse economico per la città, non come relazione, ma come appropriazione. La rendita urbana è diventata un prodotto finanziario di natura anfibia, capace di librarsi sulle eteree transazioni dei mercati globali e però saldamente ancorata a quanto di più solido nella nuda terra.
Per la generazione di studiosi come Sergio Bertuglia era consueto parlare di rendita urbana, ma il concetto è uscito dagli studi e dalla pubblicistica da quando il valore immobiliare ha assunto un carattere sistemico nell’intreccio dell’economia di carta e di mattone, diventando una forza indisturbata dello sviluppo territoriale.
E gli effetti si vedono oggi, come dimostra il saggio di Paolo Berdini, sopratutto nella indisponibilità di alloggi in affitto, non solo per i ceti popolari, ma anche per ampie fasce di ceti medi e soprattutto di giovani. È un colpo al cuore dell’urbano inteso proprio come Abitare la Distanza. È diventato il primario tema nelle agende politiche nazionali e locali in Germania, Francia e Gran Bretagna, mentre da noi ci sono volute le tende degli studenti per aprire una discussione, fino ad oggi comunque priva di risultati. Eppure la pandemia ha rilanciato la centralità della casa come luogo vitale, non solo per dormire e mangiare, ma anche per lavorare, studiare e vivere le relazioni sociali. Molti saggi, oltre quello di Berdini, anche quello di Francesco Alessandria, sono dedicati, pur con argomentazioni diverse, al rilancio di una nuova politica delle abitazioni, che a mio avviso dovrebbe superare sia gli errori dei grandi quartieri della 167 sia le promesse non mantenute del così detto housing sociale.
3. Il saggio di Giampaolo Nuvolati e Sara Spanu parla di una crisi epistemologica degli studi urbani, derivante dall’estrema segmentazione dei saperi. C’è un’assonanza con il recente Annale Feltrinelli, un volume altrettanto ponderoso, curato da Alessandro Balducci e dedicato alla Città Invisibile. Invisibile perché i fenomeni nuovi vengono interpretati con le categorie del passato e invisibile perché determinati assetti di potere oscurano i processi reali.
Nel pensiero sulla città domina l’incertezza da quando l’urbanistica è andata in crisi, sia per suoi difetti teorici sia a causa degli interessi economici che vogliono le mani libere. È come se la sfera della disciplina fosse esplosa in mille frammenti, in tante letture settoriali. La stessa urbanistica ha perso fiducia in se stessa e si è mimetizzata in paradigmi disciplinari contigui: la tecnologia delle smart cities, l’economia concorrenziale tra le città, l’ecologia della città sostenibile, l’apologia della città infinita e tutte le forme narrative urbane, ricche di suggestioni quanto povere di pianificazioni, come la città creativa, la città resiliente, la città del rammendo, ecc.
L’ultima narrazione è la città dei 15 minuti. Se è un programma operativo può fare solo del bene alla vita urbana, arricchendo la dotazione di servizi alla scala dei quartieri. Inteso così non sarebbe neppure una novità, poiché già la legge ponte degli anni sessanta definì le dotazioni ottimali come standard urbanistici, peraltro oggi delegittimati dalla cultura architettonica. Se invece la C15 è intesa come paradigma teorico, mostra tutte le sue debolezze e anche un certo retrogusto antiurbano. Nel libro ci sono accenti diversi, ma prevale questa critica, fin dall’introduzione.
Sergio Bertuglia e Franco Vaio osservano acutamente il paradosso del modello C15, il quale nell’isolare una variabile dal contesto ricade proprio nel difetto funzionalista, che a parole voleva superare con la nuova narrazione.
Giampaolo Nuvolati e Sara Spano sostengono che il nuovo approccio rischia una chiusura intimistica nei quartieri, come un ripiegamento antiurbano in seguito ai disagi della vita metropolitana.
Federica Fava e Giovanni Caudo aggiungono che in tal modo si perderebbe il peculiare valore della metropoli simmeliana, segnata proprio dall’inconsueto, dall’imprevisto, dall’ignoto.
Se nonostante questo vulnus teorico la narrazione della città dei 15 minuti ha ottenuto un successo internazionale vuol dire che è grande lo spaesamento degli studi urbani.
L’urbanistica si trova a un bivio: da una parte non può tornare indietro alla sua ingenua razionalità novecentesca, di cui ormai sappiamo la fallacia. D’altra parte non può continuare a mimetizzarsi nelle suadenti narrazioni delle altre discipline.
È necessario un salto epistemologico che superi entrambe queste tendenze, ma, come ogni vero superamento, ne assuma le parziali verità. Di una nuova razionalità, pur non ingenua, c’è bisogno se vogliamo ancora parlare di pianificazione, almeno nell’accezione complessa del planning anglosassone. E la mimesi transdisciplinare, pur nella sua fumosità, esprime comunque l’esigenza sacrosanta di mobilitare tutti i saperi moderni per una comprensione più profonda del fenomeno urbano.
Nel compiere questo salto la stessa urbanistica cambierebbe natura, non più la logora tecnica dello zoning, ma una Nuova Scienza della Città vocata a superare la frammentazione disciplinare e la scissione tra cultura umanistica e cultura scientifica.
La ricchezza di questo nuovo sapere è stata descritta dalle opere e, se posso dire, dall’intera vita dei nostri grandi maestri come Sergio Bertuglia e Gianfranco Dioguardi, qui ricordato dal saggio di Francesco Maggiore. E alle generazioni successive spetta il compito di portare a compimento questo ambizioso programma di ricerca.
Ovviamente, bisogna intendersi sulla complessità. Molto saggi approfondiscono la questione. Franco Vaio ha scritto insieme a Sergio Bertuglia un’opera omnia applicando gli strumenti più raffinati della teoria dei sistemi e dei relativi modelli matematici alla fenomenologia urbana. Però mi pare sia arrivato alla conclusione che non basta neppure il più ambizioso set di variabili a descrivere compiutamente la realtà urbana. La raccomandazione di Lucio Bianco è dirimente: non basta descrivere la città di pietra e quella delle relazioni, potremmo dire non basta l’urbs e la civitas, occorre integrare anche la città del vissuto e dell’immaginazione. E darne una descrizione scientifica significa riconciliare logica di sistema e forma di vita.
Secondo alcune testimonianze Ludwig Wittgenstein si convinse ad abbandonare il suo capolavoro giovanile, la grande architettura logica del Tractatus, perché non riusciva a spiegare la smorfia napoletana (F. Lo Piparo, Il professor Gramsci e Wittgenstein, Donzelli, 2014, p. 9). La Nuova Scienza della Città deve riuscire a comprendere le tante smorfie, gli imprevisti, gli stupori della metropoli contemporanea. La complessità riguarda innanzitutto la relazione tra politica generativa e vita urbana.
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