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venerdì 6 maggio 2016

Il senso di una tutela: in difesa dell'articolo 9


“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Che bella prosa costituzionale! L’articolo 9 dice l’essenziale con poche parole semplici e solenni. La frase si regge sul verbo “tutelare”, così pregno di civiltà storica e di responsabilità per l’avvenire. Eppure è un verbo mortificato dalle recenti iniziative governative che lo considerano ormai apertamente un ostacolo alla valorizzazione. Anche questa viene malintesa nelle ossessioni mediatiche e nell’economicismo da straccivendoli. Ancora viene propinata l’illusione di fare i soldi con il merchandising e i cocktail nei musei. Per correre dietro ai miti correnti si mette a rischio l’eredità culturale del Paese.


E si perde perfino l’occasione di creare una ricca economia dei beni culturali che può fondarsi invece proprio sulla tutela e il restauro. In queste attività è esplosa la domanda mondiale in seguito ai formidabili investimenti messi in campo dai grandi paesi emergenti, dall’Asia all’America Latina. C’è una richiesta crescente di formazione e di servizi qualificati nella cura del patrimonio. Se l’Italia sapesse organizzare un’offerta di alto livello avrebbe il vantaggio competitivo del brand che viene dalla sua storia. È studiato in tutto il mondo il “metodo italiano” dell’archeologia, dell’archivistica, del restauro e della storia dell’arte, formatosi nell’insegnamento dei Bianchi Bandinelli, Brandi, Longhi e Argan. Per cogliere l’opportunità che viene dal mondo bisogna organizzare prestigiose scuole internazionali sulla tutela e il restauro, e promuovere nuove imprese capaci di esportare il nostro sapere dell’antico. Anche per questo bisogna salvare i giovani dal precariato selvaggio che in questi anni si è diffuso nel settore pubblico e in quello privato fino a forme di intollerabile sfruttamento. Una ricca economia dei beni culturali cresce solo se nel rispetto della dignità e della qualità del lavoro. E soprattutto se si inverte la tendenza attuale rilanciando gli investimenti sul patrimonio culturale, secondo una programmazione di lungo periodo, uscendo dall’improvvisazione mediatica.



Purtroppo la professionalità del “metodo italiano” viene svalutata proprio dal Ministero che dovrebbe esserne custode. Le competenze tecniche e scientifiche sono emarginate dai poteri burocratici; la mancanza di personale impedisce la trasmissione dei saperi da una generazione all’altra; la carenza di risorse schiaccia le strutture sull’emergenza; il succedersi nevrotico delle leggi soffoca la gestione quotidiana e ancor di più la ricerca culturale.

La destrutturazione degli organismi di tutela è perseguita da una serie di decreti ministeriali che producono solo caos organizzativo e risultati insensati. A Roma, ad esempio, si arriva a spezzare in due soprintendenze la tutela dell’Appia antica e dei Fori imperiali. E lo chiamano “principio olistico” senza temere il ridicolo. Nella tutela si perde la continuità tra il Campidoglio e la Regina Viarum, l’unica relazione paesaggistica ancora vivente tra la città storica e la campagna romana. Sembra dimenticata la lezione di Antonio Cederna sull’unitarietà del più prestigioso parco archeologico-naturalistico del mondo. 


L’ostilità verso la tutela è arrivata fino al punto di collocare le soprintendenze sotto il controllo dei Prefetti e nella tagliola del silenzio-assenso, tanto più grave nelle attuali condizioni di penuria di mezzi e di personale. Non ho votato in Senato per questa legge e sarò domani alla manifestazione di protesta organizzata da tante associazioni culturali. Spero che l’appello dei promotori “Salviamo l’articolo 9” sia ascoltato dal governo. Consiglio al Ministro Franceschini di riaprire il dialogo con gli esperti e gli operatori dei beni culturali.

Se dovesse permanere la chiusura al confronto sarebbe un brutto segnale. La supremazia della politica sui soprintendenti assomiglia ai pieni poteri del preside a scuola, dell’amministratore unico di nomina governativa alla Rai, dell’imprenditore mendace che licenzia con il jobs act e soprattutto del “premierato assoluto” dell’Italicum e della revisione costituzionale.

C’è ancora chi dice che si può cambiare la seconda parte della Carta perché non influisce sui principi fondamentali. Quando si apre la strada all’uomo solo nelle istituzioni poi si arriva anche ai prefetti che comandano sui beni culturali. Domani in piazza si canterà viva l'articolo 9.


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