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venerdì 11 dicembre 2020

In Senato la presentazione del libro Roma come se

La presentazione del libro Roma come se si è svolta in Senato giovedì 17 dicembre. Dopo i saluti della vicepresidente Anna Rossomando hanno discusso con me Marco Damilano, Ida Dominijanni e il ministro Giuseppe Provenzano. 

Qui si può vedere il video della presentazione

  • Anna Rossomando da 00:00:20; Marco Damilano da 00:12:05; Ida Dominijanni da 00:27:29; Giuseppe Provenzano da 00:48:58; Walter Tocci da 01:20:50.

Di seguito il testo del mio intervento conclusivo:


Il libro nasce da una ribellione. Contro il discorso pubblico che ha dominato negli anni passati: a Roma non succede niente, è sempre la stessa, apatica, inconcludente, assistita, sregolata, ecc..

Nella ribellione c'è sempre un'esagerazione; forse ho insistito troppo al contrario nella lettura positiva. Lascio al lettore la ricerca dell'equilibrio. E ciò mi consente di continuare la ribellione.

Contro lo stereotipo cerco di valorizzare le energie vitali della società romana. Non emergono a prima vista, occorre scavare come si fa con i reperti antichi, in una sorta di archeologia del contemporaneo.

Contro la banalizzazione cerco si richiamare la complessità della questione Roma, per la eterogeneità dei suoi elementi fisici, storici, sociali e immaginari. Non a caso Freud la utilizzò come metafora della complessità della psiche umana.

Contro lo sconforto alimentato dal collasso amministrativo e politico e dalla più grave crisi economica e sociale invoco il verso pasoliniano nella sua interpretazione ottimistica: non si piange, è tempo per i singoli e per la collettività di rimboccarsi le maniche e fare qualcosa di buono per la nostra città.

È l'esortazione per Roma. Avrei voluto farne il titolo, ma poteva apparire astruso, e l'editore e gli amici mi hanno convinto che non era il caso. Così abbiamo scelto il come se, che è un esercizio dell'immaginazione.

Verso il futuro: come potrebbe essere Roma se si ponesse nuove ambizioni per il secolo che viene.

Verso il passato: come sarebbe diventata Roma se avesse realizzato i migliori propositi, che invece sono rimasti sentieri interrotti.

Nel come se, quindi, il futuro e il passato si ribellano contro la dittatura del presente e occupano il suo campo, diventano com-presenti. Eppure rimangono separati, senza alcun rapporto, né di discendenza né di evoluzione. I sentieri sono interrotti per sempre e sarebbe illusorio riprenderli nel mondo di oggi, eppure propongono suggestioni per le ambizioni dell'avvenire.

Tra i migliori, il progetto di Quintino Sella di fare di Roma il centro cosmopolita della conoscenza nella molteplicità dei saperi, il luogo del cozzo delle idee, diceva con un'espressione bellissima. Non è stato realizzato ma nell'epoca della globalizzazione indica l'attualissima possibilità che Roma riscopra la vocazione internazionale: nella produzione culturale e nella formazione per attrarre i giovani, come ai tempi del Grand Tour; come capitale del Mediterraneo per la cooperazione Nord-Sud; come città accogliente nella grande mutazione antropologica innescata dalle migrazioni.

L'altro sentiero interrotto è il grande dibattito che si sviluppò in Europa sul futuro della Campagna romana, riguardo all'ingegneria della bonifica, alla lotta contro la malaria, agli studi sullo sviluppo economico del giovane Werner Sombart, al fiorire della pittura del paesaggio, ai primi restauri dell'Appia antica. Gli intellettuali europei chiedevano alla classe dirigente sabauda: che ne farete di quella landa desolata, malarica e selvaggia? Nel Novecento è venuta la risposta più sciagurata: la disseminazione di tanti coriandoli edilizi senza infrastrutture.

La chiamiamo ancora Roma, utilizziamo ancora il nome storico, ma è ormai una delle più estese conurbazioni regionali europee. Da qui emergono gli impegni cruciali per il futuro. La cura del ferro non solo per trasportare i pendolari ma per orientare uno sviluppo sostenibile dell'area regionale. E smettere di trattare la Campagna come un vuoto da riempire di cemento, curarla invece come un pieno di aria, acqua, fertilità e paesaggi che garantiscono la vita di Roma per l'avvenire.

Bisogna ampliare gli orizzonti della capitale. Non si può più ridurre alla vecchia coppia Nazione-Città. Va pensata e governata nella nuova coppia Mondo-Regione. A questa transizione è finalizzata la riforma istituzionale. Superare il vecchio Comune trasferendo le sue funzioni, in alto a un livello di governo strategico - la Città Metropolitana o una nuova Regione della capitale - capace di sostenere le relazioni internazionali e la strutturazione dell'area regionale, e in basso verso gli attuali Municipi per trasformarli in Comuni autonomi che si prendano cura della vita dei quartieri e dei servizi alla persona, magari sottolineando la novità con un'insegna all'ingresso: qui è vietato dire non è di mia competenza.

Tuttavia la riforma istituzionale non è una via obbligata. È necessaria solo se ci diamo le nuove ambizioni della Città Mondo e della Città Regione. Se invece si tratta di gestire l'esistente ci possiamo tenere il vecchio Comune. È più che sufficiente, se ben gestito, per affrontare i malanni della città e per gestire i rapporti con un Stato declinante. Come ex-amministratore posso testimoniare che il sindaco ha tutti gli strumenti per migliorare la gestione dei trasporti e dei rifiuti, cioè i più gravi problemi della vita quotidiana.

Non servono poteri speciali e non è vero che mancano i soldi. Ho dedicato alcune pagine a dimostrare che ci sono miliardi non spesi, e ora arrivano anche i fondi europei. Questo piagnisteo è solo l'alibi di amministratori inadempienti. I grandi sindaci non si lamentano mai della mancanza di poteri e di soldi. Bisogna ricordare ai candidati che governare Roma non può essere una rivendicazione municipale, è sempre prima di tutto una responsabilità nazionale e internazionale.

In ogni caso la riforma istituzionale non va intesa solo come un'ingegneria dei poteri, ma si deve accompagnare a un nuovo riconoscimento di ciò che è comune tra i cittadini.

Nella vecchia coppia Nazione-Città la società romana è vissuta di tre rendite, ormai in via di esaurimento: centralismo statale, accumulazione immobiliare e retorica del passato. Era la capitale in sé, ricevuta come eredità storica senza alcun merito dei contemporanei.

Nella coppia Mondo-Regione, invece, cresce la capitale per sé sostenuta dal saper fare dei suoi cittadini, plasmata dal metabolismo sociale e alimentata dalla produzione culturale contemporanea, anche come rielaborazione dell'antico. La capitale per sé non rivendica privilegi, anzi riconquista il prestigio curando se stessa. Non vive di rendita, ma mette a frutto l'intelligenza sociale.

È già in azione l'intelligenza sociale che si prende cura della città e della sua periferia. Cerco di raccontarla valorizzando le esperienze più belle: genitori e insegnanti che aprono le scuole ai quartieri giorno e sera; immobili abbandonati che diventano laboratori di cultura e di mutualismo; terreni desolati che si trasformano in parchi e orti urbani.

È qualcosa di più della vecchia e onorata partecipazione degli anni settanta. Sono iniziative concrete, colte, generative, che vengono animate da nuovi attivisti urbani, per lo più lavoratori intellettuali precari che mettono i loro saperi a disposizione del riscatto popolare. A loro fianco si trovano spesso i ricercatori sociali, una nuova generazione di studiosi che analizza la città con rigore e passione civile, e anche con il tentativo di influire sul discorso pubblico, come sono riusciti a fare per esempio gli autori delle Mappe della disuguaglianza.

Si va formando un'alleanza tra attivisti urbani e ricercatori sociali, e riempie il vuoto lasciato in periferia dai partiti e dai sindacati. Sono avanguardie culturali che riusciranno a cambiare la città solo se saranno in grado di entrare in relazione con l'umanità popolare romana. Di che cosa si tratta? È un eccedenza, un'energia vitale che trabocca qualsiasi forma, qualsiasi contenitore istituzionale, ideologico e di costume. Non va però idealizzata, poiché trabocca sia in positivo sia in negativo: la generosità con il poco di ciascuno, ma anche la dissipazione dei beni comuni; l'humus di legami sociali ancora attivi, ma anche la gramigna dell'appropriazione egoistica e abusiva. Sono comportamenti antitetici, ma appartengono al medesimo ceppo antropologico.  È difficile comprendere l'intreccio di questi elementi, cogliere l'essenza di questa complexio oppositorum. Se ne ha la migliore espressione nella lingua, la mai sopita vitalità del romanesco e il suo prestigio contraddittorio, di apprezzamento e di rifiuto, nella ricezione nazionale. Non a caso questa ambivalenza è stata compresa meglio dalla letteratura, dal cinema e dall'arte.

Anche la politica del dopoguerra l'ha compresa e anzi l'ha trasformata in un'energia democratica; i diritti sociali non sono venuti dall'iniziativa di classi dirigenti ma dal possente movimento popolare. Poi la politica l'ha rifiutata e il distacco si è consumato ormai da decenni.

Oggi questa umanità popolare è rimasta sola, senza rappresentanza, senza riconoscimento e senza poteri. Sembra occuparsene il populismo, ma è un inganno, è solo una retorica chiassosa che copre l'assenza di popolo. Gli ultimi due sindaci sono stati eletti con la partecipazione al voto inferiore al 50%. Rutelli e Veltroni furono eletti con la partecipazione dell'80%, e non si definivano leader populisti. I leader di destra fanno i ventriloqui per un pupazzo di plastica che chiamano popolo, tentando così di surrogarne l'assenza.

I leader di sinistra non si pongono neppure il problema della surroga e ogni tanto qualcuno si alza a dire: bisogna tornare in periferia. A me stupisce il verbo tornare pronunciato proprio da chi non ci è mai andato. Eppure questo è il problema cruciale.

Non so come, non so quando, ma la politica di sinistra potrà trasformare Roma solo se sarà capace di riconoscere l'umanità popolare, di comprenderla nella sua ambivalenza, di rappresentarla con autenticità.

Non so dire di più. La mia è solo un'esortazione: come non si piange su una città coloniale, così non si piange su una sinistra coloniale, come è oggi avvertita in periferia, purtroppo.

È un'esortazione a darsi una mossa per la ormai vicina campagna elettorale. 

Sono sconcertato dal ritardo dei nostri partiti, di tutti, quelli radicali, riformisti e centristi. La mobilitazione elettorale doveva essere già partita da tempo. La coalizione avrebbe dovuto già decidere il candidato Sindaco e almeno cento membri della sua squadra, e dovrebbero essere già operativi. Ci vorrebbe già un programma non meramente cartaceo, ma una serie di impegni da discutere e condividere con le forze sociali e culturali. Dovrebbe essere già pronta un'organizzazione della campagna nel territorio e una convincente strategia comunicativa. 

Nella campagna elettorale del '93 partimmo con due anni di anticipo. Rutelli organizzò una squadra plurale con esponenti dei vecchi partiti e molte persone nuove agli incarichi pubblici, ma ricche di competenze e di rappresentanze sociali. Riuscimmo a realizzare opere per la città fin dai primi mesi del nostro mandato perché la squadra era già affiatata nel lavoro comune della lunga campagna elettorale. Alcuni progetti erano definiti fin nei dettagi tecnici, per esempio l'attivazione della linea ferroviaria Monterotondo-Fiumicino che fu l'incipit della cura del ferro. Andammo in giro nelle città europee per copiare le migliori innovazioni, per esempio da Barcellona imparammo che le centopiazze potevano suscitare un nuovo riconoscimento dei luoghi e restituire la fiducia nel cambiamento, in una Roma a quel tempo ferita e depressa non meno di oggi.

Niente di tutto ciò si vede all'orizzonte. La coalizione del centrosinistra è chiusa a discutere in un tavolo senza alcuna attività esterna. Le poche iniziative sono prese dai candidati singoli e da associazioni, in tante meritorie ed "eccellenti solitudini", come dice Sabrina Alfonsi. 

La principale responsabilità del vuoto politico è da addebitare ai partiti più grandi. Sarebbe un bel gesto se M5S e PD riconoscessero la loro impreparazione. I grillini dal governo hanno deluso le aspettative dei loro elettori. I democratici dall'opposizione non hanno creato un'alternativa politica e progettuale. Al governo stanno lavorando insieme mentre a Roma sono lacerati da un aspro conflitto tra maggioranza e opposizione, pienamente giustificato a mio avviso dal fallimento della giunta Raggi. Però il rapporto tra loro si può volgere in avanti stipulando una sorta di alleanza dell'umiltà: dovrebbero decidere insieme di non presentare i propri simboli nella competizione elettorale, chiedendo di fare altrettanto agli altri partiti della coalizione. Questo passo indietro lascerebbe il campo libero per la costituzione di una grande e unitaria Lista Civica unitaria per la rinascita di Roma. 

Dovrebbe essere un Forum permanente tra gli esponenti della coalizione politica e i rappresentanti delle forze sociali, delle produzioni culturali, delle associazioni e delle esperienze di cittadinanza attiva, aperto anche al contributo di singoli cittadini. Un luogo di iniziativa e di confronto tra tutte le persone che operano quotidianamente per il cambiamento della città, nei quartieri, nel lavoro, nella cura dell'ambiente, nelle innovazioni produttive, nella cultura, nell'educazione, nel volontariato. Un luogo accogliente per scambiarsi le esperienze e per elaborare un convincente programma di governo. Un presidio del territorio, tramite il coordinamento dei soggetti promotori nei quartieri, per ricostruire il radicamento sociale soprattutto in periferia. Un ambiente favorevole alla crescita di una nuova classe dirigente, creando un amalgama tra gli esponenti delle istituzioni e dei partiti - ci sono molte persone in gamba nel PD e nel M5S e nella coalizione - e altre persone non ancora impegnate in politica, soprattutto giovani competenti, appassionati e già attivi nella società. La novità della Lista Civica, a mio avviso, susciterebbe la mobilitazione degli elettori di centrosinistra e forse convincerebbe anche gli astensionisti. Sarebbe una forza elettorale irresistibile. Sarebbe capace di vincere le elezioni non per la solita paura di Salvini, ma per un progetto di governo condiviso e quindi anche realizzabile.

Ecco, alla fine, dopo gli alati discorsi sulla città, sono tornato al che fare; riemerge la mia educazione all'attivismo politico. Vorrei impegnarmi nella battaglia per la rinascita di Roma, ma non nelle prime file. Vorrei contribuire dalle retrovie.

Stasera è ritornata la domanda di cari amici sulla mia candidatura. Li ringrazio, so che la ripropongono con affetto e stima, ma ho deciso di no almeno venti anni fa. Per due motivi, uno politico e l'altro personale, che riassumo qui, spero in modo definitivo. 

Primo, appartengo a una generazione di politici che hanno governato negli anni novanta e primi duemila. Dopo le sconfitte hanno preteso di mantenere il comando, invece di favorire per tempo il ricambio generazionale. Che di conseguenza è arrivato in modo traumatico con la rottamazione, ma alla fine sono stato sconfitti tutti, sia i rottamati sia i rottamatori. Non ho mai condiviso tutto ciò e, proprio in queste aule del Senato, mi è toccato fare il dissidente, dopo una vita spesa nella disciplina di partito. Oggi, per me sarebbe grottesco tornare nelle prime file: farei proprio ciò che rimproveravo ai miei coetanei.

Sul piano personale, infine: amministrare il Comune da Vice Sindaco è stata l'esperienza politica più appassionante della mia vita. Però, quando le cose belle finiscono bisogna lasciarle andare, soprattutto se si tratta di incarichi pubblici. Si deve creare una distanza, che è il modo migliore per valorizzare i risultati raggiunti - ancora più brillanti se confrontati con l'oggi - e anche per vedere i limiti e gli errori, come ho cercato di fare nel libro.

L'ho scritto per incoraggiare i giovani che desiderano impegnarsi per il governo della città, sia nelle istituzioni sia nella società. Non voglio consegnare loro le nostre vecchie soluzioni, già chiuse e impacchettate con un fiocco. Una testimonianza critica, credo, sia più utile per loro, può aiutarli a cercare nuove vie.

D'altronde, anche per me la memoria di quell'esperienza irripetibile è uno stimolo a studiare la città e soprattutto le sue ambizioni per l'avvenire. 

Cercare ancora le soluzioni possibili per Roma: questo è oggi il mio principale impegno civico. 



2 commenti:

  1. Un'occasione di lettura, riflessione e discussione imperdibile per chi si occupi a vario titolo di Roma e dei suoi destini. Grazie Walter!

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  2. Grazie, l'ascolterò senz'altro!
    Carlo

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