Sulla crisi della sinistra Ferruccio Capelli ha scritto un bel libro di analisi e di proposta: A sinistra. Con uno sguardo umano. Lo abbiamo presentato alla Fondazione Basso il 23-10-2023, insieme al presidente Franco Ippolito, Marina Forti e Marco Furfaro.
La Casa della Cultura di Milano ha gentilmente pubblicato il testo del mio intervento nella versione completa.
Una parte del testo potete leggerla di seguito.
Il video della presentazione si trova qui (mio intervento inizia a 1h e 11m)
L’idea del Nuovo Umanesimo è la questione centrale del libro. Merita, quindi, di essere discussa, sviscerata nelle conseguenze e messa alla prova. Ferruccio ci lavora da tanti anni con la cura che conosciamo. Mi pare una linea feconda. E consente anche di ampliare la discussione con molteplici ispirazioni culturali. Come va già facendo la Casa della Cultura a Milano, per esempio, nel dialogo con la tradizione del personalismo cattolico di marca ambrosiana oppure riscoprendo le origini del movimento socialista rappresentato in quella città non a caso da un’istituzione sociale come l’Umanitaria, il longevo centro di formazione e di cultura che rimanda all’opera di Gnocchi Viani, quanto mai attuale.
Umanesimo come pensiero della vita
La discussione sul libro, quindi, deve svilupparsi intorno alla domanda: che cos’è l’Umanesimo.
A me pare si possa rappresentare con parole semplici come il Pensiero della Vita. Questa espressione può essere letta come un genitivo soggettivo oppure un genitivo oggettivo.
Se è protagonista la prima parola, abbiamo un Pensiero che si rivolge alla Vita. Cioè, come dice l’autore, “uno sguardo sulla vita” che elabora un costrutto nel campo delle idee, una narrazione, una filosofia. Da tutto ciò emerge un Umanesimo Ideale.
Se è protagonista la seconda parola, la Vita irrompe nel Pensiero svelando la lotta originaria tra umano e disumano. Questo, invece, è l’Umanesimo Esistenziale che emerge nella dimensione dell’intangibile, dell’irriducibile e perfino dell’indicibile. Come ha detto prima Marina Forti, di fronte al conflitto israelo-palestinese quasi ci mancano le parole per descrivere da un lato l’odio infinito, la strage quotidiana, ma dall’altro lato anche episodi quasi invisibili che disertano lo spirito di vendetta e scelgono la generosità e il dialogo.
Capelli ci tiene a sottolineare che l’Umanesimo deve essere qualificato con l’aggettivo nuovo, e siamo d’accordo con lui. Tuttavia, rispetto alla bipartizione del concetto appena proposta, solo con riferimento all’Umanesimo Ideale ha senso aggiungere la parola nuovo. In quanto narrazione, infatti, sedimenta una tradizione culturale che deve essere continuamente rielaborata nella contemporaneità.
Se invece ci riferiamo all’Umanesimo Esistenziale non è necessaria la distinzione tra vecchio e nuovo. Il pensiero della vita in tal caso si riferisce a una dimensione antropologica e comunque di lunga durata. Per dare una rappresentazione della lotta tra umano e disumano dobbiamo ricorrere agli archetipi, alle figure originarie della nostra civiltà. Il pensiero corre al primo coro dell’Antigone “l’uomo meraviglioso e inquietante”, il deinòn sofocleo. Oppure alla lotta ingaggiata nella notte da Giacobbe, fino a slogarsi l’anca, con l’innominato, che alla luce dell’aurora si rivela come il divino. Oppure, ancora, Cristo interpellato dalle tentazioni di Satana affinché abbandoni l’amore per l’uomo e diventi padrone del mondo; quei versetti del Vangelo costituiscono l’insuperabile manifesto della Volontà di Potenza.
Proprio la dimensione archetipica della lotta tra umano e disumano è risvegliata dalle sfide del nostro tempo. La dimensione più originaria è quella più attuale: il post-umano, il pericolo per la Madre Terra, la Terza guerra Mondiale, costituita da tanti conflitti ormai quotidiani, non più solo di conquista del territorio, ma di annientamento del nemico; l’armistizio è già scomparso dal vocabolario delle armi.
In questa dimensione è difficile individuare con il linguaggio ordinario gli scenari possibili. Bisogna ricorrere a linguaggi più sconvolgenti. L’apocalittica cristiana ci mette a disposizione due umanesimi radicali e opposti: 1) l’èschaton, l’umanesimo della liberazione, cioè il Nuovo Regno che libera l’uomo dal male; le utopie politiche del Novecento non sono altro che la secolarizzazione di questa apocalittica; 2) il katéchon, cioè l’umanesimo che trattiene il male, che impedisce la vittoria dell’Anticristo e rimuove quindi il pericolo mortale per l’uomo.
Nella realtà storica sono due figure molto intrecciate: l’èschaton provoca rivoluzioni che approdano spesso a nuove forme di dominio; allora c’è bisogno di un katéchon che trattenga il male; a forza di trattenere, però, il katéchon assume uno spirito conservatore e, di conseguenza, emerge nuovamente la necessità di un Èschaton che rimetta in movimento la storia.
La nostra generazione ha avuto un privilegio, come poche altre. Siamo stati escatologici in gioventù (il Sol dell’Avvenire) e siamo oggi katechontici. Tutte le proposte di Capelli sono di natura katechontica, poiché ruotano intorno al contenimento degli spiriti selvaggi del capitalismo.
Se fallisce il katéchon, vince l’odio irriducibile, il razzismo, la manipolazione dei corpi e delle menti, la rovina del pianeta. La nostra speranza può essere solo katechontica, non più e non ancora escatologica.
Come dice il poeta, “laddove è il rischio cresce anche ciò che salva”. Dov’è questo luogo esistenziale in cui cresce ciò che salva? Può trovarsi solo nella dignità dell’uomo, cioè nel riconoscimento generato dalla lotta tra umano e disumano.
Capelli estrae l’idea della dignità dalla lettura platonica del mito di Prometeo, al quale gli dei donano Èidos e Dike - rispetto e giustizia - perché sappia governare la potenza del fuoco, senza rimanerne soggiogato. Una bellissima interpretazione è venuta da Mario Vegetti per il testo della conferenza che avrebbe dovuto pronunciare proprio alla Casa della Cultura, se non fosse venuto a mancare, purtroppo, qualche giorno prima.
Il tema della dignità richiama un altro grande maestro, stavolta della nostra Fondazione Basso. Stefano Rodotà in Il Diritto di avere diritti ne fa un crocevia nel percorso moderno del costituzionalismo. Abbiamo avuto l’homo hierarchicus nelle Carte dell’ancien régime, l’homo aequalis nelle Costituzioni del Novecento, ma la sfida del XXI secolo è il costituzionalismo dell’homo dignus, cioè il diritto che salva l’umano di fronte alle sfide del post-umano.
Tutto ciò corrisponde a una visione tragica dell’Umanesimo tipicamente occidentale. È l’esito della grande tradizione greco-giudaico-cristiana, non a caso scandita dalle figure di Antigone, Giacobbe e Gesù.
Ormai, però, siamo al confronto con l’Oriente. Non è solo una competizione economica. Non è solo una comparazione di sistemi politici, e alcuni cominciano a dire che quelle autocrazie sono in grado di governare più efficacemente il capitalismo. Non è solo questo, c’è una discordanza spirituale da comprendere e riconoscere, come propone Capelli in pagine molto belle sulle culture degli altri, domandandosi, per esempio, perché non c’è stato un colonialismo cinese.
L’umanità occidentale è lacerata nella lotta col disumano. È una koinè binaria: una parte contro l’altra. Al contrario, l’umanità orientale è armonica, riguarda l’intero, non ammette fratture.
Se l’armonia fosse autentica, non farebbe problema. Ma, come spesso accade, l’armonia è inautentica, è ideologica, nasconde forme di dominio e soprattutto inibisce la forza spirituale di contrasto. Quindi può degradare in un dominio non trattenuto da alcun katéchon. E in tal caso non c’è alcuna possibilità di svelare l’inganno, è assente il soggetto che può indicare il rischio e la salvezza. Nella Cina di oggi e di ieri sono evidenti le tracce della tendenza al conformismo, dell’acquiescenza verso il potere costituito, della mancanza di conflitti dichiarati, almeno per ora. La domanda inquietante riguarda gli esiti futuri: quando questa formazione spirituale si misurerà con le sfide del post-umano e dei monopoli cognitivi, potrebbero mancare le risorse di umanità di un katéchon che trattiene il male.
Perché nuovo Umanesimo?
Nella seconda parte del libro Capelli insiste a dire nuovo Umanesimo e si domanda: “che cosa dobbiamo mantenere della tradizione umanistica” - ma io aggiungo, “se è nuovo, che cosa deve cadere?”.
La risposta viene dalla critica più severa condotta contro l’Umanesimo dal pensiero novecentesco, quella di Heidegger in Lettera sull’Umanismo, nel dialogo con Sartre. L’argomento cruciale denuncia la profonda implicazione dell’Umanesimo con la moderna Volontà di Potenza. Dal suo punto di vista, ciò significa dominio dell’ente sull’essere e quindi declino della metafisica occidentale. Era un grande filosofo, ma l’orizzonte della capanna di Todnauberg rimaneva limitato dentro la cultura tedesca, la quale aveva interpretato l’Umanesimo italiano in senso idealistico, come Humanismus, cioè un paradigma chiuso in sé, compiuto, potente, perfetto, apollineo potremmo dire. Questa interpretazione, però, è stata ribaltata dalla critica storiografica italiana, da Garin, a Cacciari, a Ciliberto e, credo si possa dire, anche a Esposito, i quali hanno svelato un Umanesimo delle origini di tipo dionisiaco, più incerto, aperto a esiti diversi e inquieto; si veda, per esempio, il bellissimo libro di Cacciari intitolato appunto La mente inquieta.
Rivolgendosi a questa storiografia, Capelli qualifica il nuovo come un ritorno all’origine, che è sempre il modo più radicale di concepire l’innovazione.
Anche io, caro Ferruccio, sono affezionato come te al ribaltamento critico elaborato dai filosofi italiani. Però è pur sempre un’operazione meramente filologica. Dobbiamo riconoscere che nell’esperienza storica fattuale, dal Rinascimento in poi, è prevalso il connubio tra Umanesimo e Volontà di Potenza. In tale contesto non si può dar torto alla radicale critica heideggeriana.
La fiducia nell’uomo innescata dalla rivoluzione umanistica non si è posta limiti katechontici, anzi è approdata al tentativo supremo di far scendere Dio in Terra.
Il Codice Moderno della conoscenza può essere interpretato come una tenace secolarizzazione della Legge di Dio: nella legge dello Stato hobbesiano; nelle leggi dell’intelletto, da Cartesio, a Spinoza, a Kant fino a Husserl; nelle leggi della fisica, da Newton a Heisenberg.
Questo principio legislativo della conoscenza è stato sviluppato al massimo grado di intensità nel corso del Novecento, fino a provocarne l’esaurimento, che si è palesato nel passaggio di millennio con la deflagrazione della razionalità del Moderno.
Lo Stato torna apparentemente protagonista con le guerre e le pandemie, ma viene meno la sua sovranità, non è più katechontico verso il capitalismo, è assorbito dentro il sistema tecnico-finanziario globalizzato.
Le leggi dell’intelletto non sorreggono più il sistema della metafisica occidentale, le cui fondamenta sono state da tempo destrutturate sotto i colpi del “martello di Nietzsche” e di tutti i decostruzionisti successivi.
Perfino la legge fisica non è più oggi nelle corde dell’Intelligenza Artificiale, la quale non ha bisogno di un’equazione che spieghi la realtà delle cose, ma va in cerca di correlazioni statistiche tra i fenomeni. La domanda non è perché accadono, ma come accadono; è un principio di funzionalità, non di conoscenza.
Qui è la ragione più profonda dell’incertezza del nostro tempo. Si indebolisce il Codice Moderno della conoscenza umanistica, proprio mentre la Volontà di Potenza, che da quel Codice è stata innescata, arriva ai confini dell’inquietante e del perturbante, cioè di fronte alle sfide descritte da Capelli: il post- umano, il pericolo per la biosfera, le nuove possibilità di dominio delle menti.
Lo squilibrio tra Potenza e Saggezza
Viene a mancare la razionalità dell’Umanesimo moderno proprio mentre il destino dell’umanità si trova di fronte a prove inaudite. Non abbiamo gli strumenti cognitivi e morali adatti ad affrontare la lotta divenuta sempre più rischiosa tra umano e disumano. Siamo approdati a un grande squilibrio tra Potenza e Saggezza; tra la Potenza di trasformazione del mondo contemporaneo e la Saggezza, intesa come la capacità di regolare gli esiti della trasformazione. Giorgio Ruffolo lo aveva già capito negli anni ‘80 con il libro Potenza e potere, dove “potere” indicava la capacità di regolazione.
Lo squilibrio si vede meglio nella Rete: miliardi di persone nel mondo dispongono di un deposito infinito di conoscenze e di informazioni, come non è mai accaduto nella storia, ma per attingere a tale ricchezza sarebbero necessarie abilità cognitive e capacità critiche molto più sviluppate di quelle che abbiamo maturato in epoca industriale, “il leggere, scrivere e far di conto”, sulle quali, tra l’altro, l’Italia è arrivata molto in ritardo; il nostro maestro Tullio de Mauro metteva sempre sull’avviso riguardo al pericolo di regressione di alfabetizzazione per ampie fasce di popolazione.
Nella fase industriale c’era comunque la consapevolezza della necessità di adeguare le competenze dei cittadini e si attuò la scolarizzazione di massa. Al contrario, oggi lo squilibrio tra accesso e apprendimento della conoscenza non è neppure tematizzato. Se fosse affrontato in modo rigoroso si dovrebbero cancellare tutte le leggi sulla scuola approvate negli ultimi trent’anni, perché rivolte nella direzione sbagliata di una tecnicizzazione dell’insegnamento, proprio mentre sarebbe stata necessaria una didattica per la vita e con la vita.
La questione non riguarda solo la scuola, ma più in generale tutti quei processi sociali in grado di accrescere le capacità di apprendimento. In passato, nell’Italia ancora analfabeta, per esempio, i partiti e i sindacati hanno svolto un grande compito di educazione popolare. Oggi tali processi di apprendimento non sono affatto spontanei, mancano le agenzie formative di natura sociale e anzi sono molto più forti le agenzie dell’ignoranza, che strumentalizzano lo squilibrio cognitivo per propalare la demagogia politica, il razzismo, la scienza fai da te ecc. Anthony Giddens, il teorico del blairismo, descriveva l’avvento della società della conoscenza come un passeggiare su un prato raccogliendo i fiori dei saperi. Poi si è visto che non si trattava di un prato, ma di crepacci rischiosi, di pendii rocciosi, di selve oscure. E che l’Età della Conoscenza, se non metabolizzata da una più alta opera di educazione popolare, può tramutarsi anche nell’Età dell’Ignoranza, come ha mostrato in anticipo il libro di Fabrizio Tonello. È un’altra espressione della lotta tra umano e disumano.
L’autentico Umanesimo è connesso alla questione educativa. Capelli ha sviluppato il nesso in un libro precedente - La formazione (è) umanistica, Unicopli, 2012 - e ne ha richiamato l’origine storica. La parola Umanesimo viene dal termine humanitas di Cicerone, che traduceva dal greco paideia, la formazione delle scuole filosofiche ellenistiche. E anche l’idealismo tedesco, pur con l’interpretazione fuorviante sopra richiamata, connetteva l’Humanismus alla Bildung, cioè alla formazione intesa come progetto di vita. C’è, quindi, una continuità da riscoprire: il Nuovo Umanesimo comporta un profondo ripensamento dell’Educazione nel nostro tempo.
Come e quando si è creata questa divergenza tra Potenza e Saggezza? Soprattutto negli ultimi quarant’anni ad opera dell’egemonia neoliberale, che ha saputo volgere a suo favore tutte le grandi innovazioni: le tecnologie digitali, la finanziarizzazione dell’economia, la fine della guerra fredda. Uso la parola neoliberale per un momento e poi la getto via. A me non è mai piaciuta e la considero fuorviante. Siamo portati a constatarne il successo negli ultimi 40 anni, ma si tratta di una tipica storia novecentesca.
L’ideologia nasce negli anni ‘30 nella scuola austriaca e in quella tedesca contro i propositi delle dittature di creare l’uomo nuovo, l’uomo sovietico e l’uomo fascista. Quei pensatori si pongono all’altezza della sfida dell’epoca, ricercando le condizioni sociali e umane che possano impedire la formazione dei totalitarismi.
A tal fine, non si limitano a una ricetta economica, ma elaborano una teoria della conoscenza e una vera e propria antropologia filosofica basata sullo scambio. Quando poi conquistano l’egemonia, il loro pensiero offre le basi per la costruzione di un nuovo tipo di umano, opposto a quello dei totalitarismi, ma non meno performativo e perfino seducente. Il capitale non riguarda più solo il processo industriale, ma colonizza la vite delle persone, diventa capitale umano; la figura stessa dell’imprenditore si generalizza come regola di comportamento degli individui.
Qui c’è la rottura con la tradizione del liberalismo, che era una teoria giusnaturalistica basata sulla conformità tra le leggi del mercato e quelle della natura umana. Ora, invece, si vuole creare una nuova forma di vita pienamente compatibile con la logica del capitalismo. È una sorta di Umanesimo Capitalista che svuota il senso dell’Umanesimo Ideale e neutralizza la lotta di quello Esistenziale.
La nuova egemonia ha funzionato meglio nella dimensione antropologica che nella teoria economica. Tutte le sue promesse sono fallite, come impietosamente mette in luce l’autore: la crescita infinita, la stabilità di sistema, il cittadino-consumatore padrone delle scelte, la globalizzazione irenica ecc. Ha resistito a tutti questi smacchi perché si è insediata nella vita, nella salute del corpo, nella colonizzazione dei sentimenti, nelle relazioni interpersonali, nei fini educativi, nelle condizioni di lavoro, nella produzione degli immaginari, ecc., come hanno svelato gli studi di Dardot e Laval, La nuova ragione del mondo, e di De Carolis, Il rovescio della libertà.
Seguendo questa chiave interpretativa si potrebbe spiegare meglio anche il declino del movimento operaio, il quale non ha resistito alle sconfitte politiche proprio perché non ha saputo rielaborare la propria tradizione culturale in una nuova antropologia ovvero un Umanesimo del Lavoro, che poi sarebbe stato l’inveramento del primo articolo della nostra Costituzione.
Allora come si esce dalla lunga egemonia dell’Umanesimo Capitalista? La risposta di Capelli è la crescita di una nuova “coscienza del limite”; intorno a questo tema ruotano tutte le proposte del libro. Indubbiamente è anche la critica più radicale che si possa fare al capitalismo, il quale nella sua essenza è animato proprio dalla potenza dell’illimitato, come mostra Alessandro Montebugnoli riprendendo la lezione marxiana.
Tuttavia, a mio avviso, non basta annunciare la cultura del limite. E non bastano neppure le politiche del limite, anche se sarebbero non solo necessarie ma dirimenti per il futuro. Qui, c’è il mio dubbio: la battaglia delle idee non è sufficiente, occorre disporsi sul terreno dove ha vinto l’avversario, cioè nel mondo della vita.
Di fronte alla lotta tra umano e disumano bisogna coniugare l’Umanesimo Ideale e quello Esistenziale. E ciò comporta un campo di pensiero e di azione molto più ampio, non solo l’economia, la società e le istituzioni, ma appunto la vita reale, i corpi, i linguaggi, gli immaginari, le passioni, le solitudini, i bisogni materiali e immateriali.
E perfino la parola umano in questo approccio deve perdere la sua tendenza unificatrice: non solo l’uomo, ma la differenza tra i sessi, la molteplicità dei generi. Non a caso proprio dalla cultura femminista vengono le parole decisive per il ribaltamento della visione dell’Umanesimo Capitalista. Nel bellissimo documento sul Salto di specie elaborato dalle femministe del CRS in occasione del Covid, emergono le parole Vulnerabilità e Cura. Per le donne Vulnerabilità viene dall’esposizione alla violenza del maschile e Cura degli altri è inseparabile dalla cura di sé e del mondo.
Dobbiamo evitare i compartimenti stagni: da una parte i luoghi delle elaborazioni e delle esperienze delle donne e dall’altra i convegni dove gli uomini parlano d’altro. Il linguaggio femminista ha una forza generativa di nuovi pensieri e pratiche all’altezza delle sfide del nostro tempo. Perché Vulnerabilità indica una forza della fragilità in grado di contrastare la Volontà di Potenza; e la Cura è la relazione katechontica che impedisce la colonizzazione della vita, la spoliazione dei beni comuni, gli spiriti selvaggi del capitalismo.
La relazione tra politica e vita
Infine, l’ultimo tema. E non a caso ne parlo solo alla fine.
Dov’è la politica? È fuori luogo, perché ha lasciato il mondo della vita ed è stata catturata dal sistema tecnico-economico globalizzato. I suoi vincoli sono internazionali, le sue utopie sono tecnologiche, le sue narrazioni sono mediatiche, ma la vita non esiste nel suo orizzonte.
Quando la politica di sinistra parla di Umanesimo, si riferisce alla dimensione ideale codificata dal progressismo democratico. Questo non conosce l’Umanesimo Esistenziale, perché aborre la violenza tra umano e disumano e, nei casi migliori, si concede un significato solo culturale di tale lotta.
I soggetti protagonisti sono le élites e i ceti medi riflessivi. Sono gli eredi della lotta per il riconoscimento scaturito dal conflitto novecentesco tra borghesia e proletariato. Non sono nati per caso, vengono dal cosiddetto compromesso socialdemocratico, il quale, avendo perso la spinta propulsiva, resta un campo progressista sempre più ristretto e tiene fuori tutto il resto. Il resto, però, è diventato maggioranza, è la moltitudine che si sente esclusa e non vuole o non può diventare soggetto; che non ottiene il riconoscimento né da sé né dagli altri; che non elabora un’idea di futuro, ma vive nella contingenza.
Non è una classe, non è un ceto e non è soltanto l’esito delle diseguaglianze. Non esiste in natura sociologica. Non è definibile precisamente se non per per un carattere decisivo: ciò che nella società mantiene una relazione immediata con la vita, pur senza riflessione e senza riconoscimento. Proprio perché è una relazione immediata si esprime come una contraddittoria Stimmung sociale, come stato d’animo lacerato da pulsioni eterogenee: bisogni e dissipazioni, generosità e appropriazioni, rivolte e acquiescenze, ingiustizie e rancori. Comunque, in tutto ciò traspare un Umanesimo Esistenziale, molto più travagliato di quello Ideale dei progressisti.
E allora questo resto che cos’è? È la plebe di cui parla fugacemente Hegel nei Lineamenti di Filosofia del diritto. La plebe è ciò che resta al di fuori del riconoscimento nella lotta tra servo e signore.
Dopo il secolo socialdemocratico non c’è più lotta e tanto meno riconoscimento; il servo quindi non provoca la trasformazione del signore, ma rimane plebe, non diventa soggetto. La sua lotta degrada nel tumulto e nel risentimento, ma, nel contempo, si espone anche alla subordinazione nei confronti del discorso del signore o anche del lacaniano discorso del capitalista. Ed è ciò che constatiamo tutti i giorni, nella penetrazione così profonda della demagogia nel sentimento popolare. La destra è stata rapida a sottrarsi dal compromesso novecentesco e utilizza questa permeabilità della plebe per invaderla con i suoi slogan.
Ora, se la sinistra vuole ritrovare l’energia per trasformare l’intera società, deve immergersi in questo mondo plebeo È l’unico modo per ricostruire una relazione feconda tra politica e vita.
Caro Ferruccio, qui c’è l’interrogativo che ti propongo. Forse non basta “uno sguardo umano”, come hai scritto nel sottotitolo, perché tale visione rischia di rimanere prigioniera nell’ideale dell’etica progressista. Occorre, invece, gettarsi nella lotta tra umano e disumano stando dalla parte della plebe. Solo in questa lotta è possibile ricomporre la cesura tra Umanesimo Ideale e Umanesimo Esistenziale.
Finisco con un aneddoto. Qualche anno fa inviai a Ferruccio la bozza di un mio libro che poi è stato pubblicato. Sentivo il bisogno di una revisione perché ho grande stima del suo rigore e della sua saggezza. La bozza conteneva un capitolo sulla plebe e, con il garbo da vero amico, mi fece capire che non era il caso. Gli diedi retta e il libro, di certo, è venuto meglio con quel taglio.
Però, come si vede, il tema mi ritorna in mente. Sono affezionato alla parola e non condivido il significato spregiativo che le è stato attribuito. Ma, parliamoci chiaro, attribuito da chi? Dalla borghesia decadente e dal proletariato in ascesa, sempre ostile al Lumpenproletariat secondo la vulgata marxista.
Il doppio interdetto ha bloccato lo sviluppo moderno del concetto di plebe. Eppure, esso ha alle spalle una prestigiosa storia intellettuale. Machiavelli lo valorizza nel tumulto che crea la virtù della Repubblica. Hegel lo definisce come il resto del riconoscimento. Weber gli dedica un capitolo fondamentale di Economia e Società. Anche Foucault ne propone nuove interpretazioni. E Žižek lo attualizza nella contemporaneità.
Di recente, inoltre, alcuni autori hanno utilizzato il concetto come strumento di analisi della crisi sociale ed economica; per esempio, Matteo Vegetti, Rete. Plasma. Plebe. Margini della città globale, e Paolo Perulli, Nel 2050. Passaggio al nuovo mondo; quest’ultimo libro ha suscitato una discussione vivace nella presentazione tenuta qui alla Fondazione Basso.
In ogni caso, tali studi mostrano come sia irrinunciabile l’uso del concetto di plebe, non meno importante del più abusato concetto di popolo. Entrambi non esistono in natura sociologica, ma sono essenziali per il linguaggio politico, con l’unica differenza che il primo esprime un movimento subito e il secondo un’azione intenzionale.
Però, il mio interesse non deriva solo da questi riferimenti teorici. Molto più importante è stata l’esperienza giovanile. La mia paidèia, o per dirla in altro modo la mia Bildung, si è formata nel sottoproletariato romano, quando fui “inviato” (come si diceva allora) dai dirigenti del Pci a gestire l’organizzazione nella periferia orientale. Il radicamento nelle borgate fu una scelta eretica del Pci romano. Secondo i canoni del marxismo quella plebe non poteva avere una forza propulsiva, non era classe operaia. Fu una sorta di Umanesimo Esistenziale ad aprire gli occhi ai comunisti romani: compresero che proprio in quella tensione tra umano e disumano si giocavano le sorti del movimento di emancipazione e perfino l’ampliamento della democrazia nella Capitale d’Italia. Se non avessero fatto quella scelta, non avremmo oggi una sinistra romana che ogni tanto ce la fa a vincere le elezioni. Perché questi sono i processi con effetti di lunga durata, a differenza degli slogan improvvisati nelle diverse campagne elettorali.
Quando fui “inviato”, l’anziano dirigente comunista mi diede precise istruzioni: “devi stare con loro, vivere con loro, entrare nelle loro abitudini, nella loro mentalità, nel loro linguaggio. Devi educarli alla politica, superando sia il ribellismo sterile sia l’arrangiarsi opportunistico”. Nelle direttive emergeva una sorta di paternalismo rafforzato dal bolscevismo che pretendeva di portare dall’esterno la coscienza politica alle masse. Tuttavia l’imperativo finale andava oltre l’ideologia: “lotta ai vizi del plebeismo, ma sempre dalla parte della plebe”. Non ho mai dimenticato quella scelta di campo.
Oggi non esiste più quel sottoproletariato, ed è perfino difficile definire l’attuale plebe. Tuttavia solo in questa tensione tra umano e disumano la politica può ritrovare la relazione con la vita. Solo “dalla parte della plebe” la sinistra può ritrovare se stessa.
Nessun commento:
Posta un commento