Ho scritto un saggio per la rivista di filosofia Il Pensiero, fondata da Vincenzo Vitiello, nel numero monografico dedicato alla figura del fuori luogo nelle diverse accezioni filosofiche. Di seguito si può leggere il testo.
Abstract
LA POLITICA FUORI LUOGO
Il
"fuori luogo" della politica è inteso in due significati: come esodo
dai luoghi della rappresentanza e come comportamento urticante o inopportuno.
Esaurita la retorica della spoliticizzazione riemerge una potenza del negativo
come nucleo metafisico del politico, che assume forme diverse tra "mare e
terra", nel mondo anglosassone e nel continente europeo. Le forme
politiche sono condizionate dalla "fase termidoriana" del
capitalismo, che accentua i controlli e le norme dopo aver esaurito la fase
rivoluzionaria della deregulation. Si
inasprisce la frattura tra logica di sistema e mondi vitali, come definita da
Habermas, ma non è ricomponibile con un'etica discorsiva. La causa
dell'ingovernabilità è nello scarto tra potenza e saggezza, tra la formidabile
forza di trasformazione e la debole capacità di regolarne gli esiti. Le
soluzioni possibili sono da ricercare nelle dimensioni originarie del politico:
l'educazione intesa a là Condorcet
come capacità di governo della società; la città intesa a là Baudelaire come trasformazione a misura dell'umano.
LA POLITICA FUORI LUOGO
La
politica è fuori luogo. Ciò vale nei due significati di questa espressione: la
politica è lontana dai luoghi deputati alla sua rappresentazione e assume
atteggiamenti inusuali che spesso appaiono urticanti o comunque inopportuni. Sono
due facce della stessa medaglia. Lo svuotamento delle classiche istituzioni
della democrazia - i Parlamenti, i partiti, gli Stati - determina uno
spaesamento del politico che abbandona l'agorà
deliberativa e cammina senza meta oltre le mura della polis. La sua manifestazione diventa incerta, appare dove non è
atteso ed è assente dove è invocato. E proprio nel suo girovagare per il
contado prende modi inurbani, selvaggi e in certi casi violenti, come se
regredisse dalla civilizzazione che sembrava assicurata per sempre. Al suo
posto si sono insediati usurpatori di diversa origine che si alternano, si
alleano e si combattono senza regole gettando nell'anarchia la polis. Senza alcun potere di
contenimento si diffonde il morbo della peste, come nell'incipit dell'Edipo Re.
E il popolo non è in grado di comprendere il destino che incombe su Tebe.
Oggi
il problema del governo risveglia gli archetipi: l'enigma della polis, l'inganno del potere,
l'invocazione della moltitudine. Solo le antinomie della tragedia greca possono
aiutarci a capire la politica contemporanea. Sembra invece inutilizzabile
l'altro genere letterario, l'orazione di Pericle agli ateniesi che promette la
rotonda verità della polis.
È una vera
spoliticizzazione?
Poiché
abbiamo alle spalle la grandezza del politico novecentesco siamo portati a
pensare tutto ciò che viene dopo come una spoliticizzazione.[1]
Non a caso questa interpretazione si è radicata dopo il crollo del muro. La
sindrome di fine della storia, più o meno consapevolmente, ha ispirato la
visione irenica della globalizzazione degli anni Novanta e nel primo decennio
del Duemila. Il Novecento non è stato poi così breve. Seppure portandosi sulle spalle
il suffisso post è durato oltre venti
anni la fine certificata a Berlino nell'89.
Solo
adesso comincia davvero il XXI secolo. E lo annunciano gli squilli di tromba
della politica di potenza: il volto "cattivo" dell'America di Trump,
l'addio all'Europa della Brexit, la Cina sulla via della Seta e alla conquista
dell'Africa, la Russia di Putin che torna a navigare il Mediterraneo.
Il
vero passaggio di secolo si è compiuto con la grande crisi economica mondiale.
Ma detto così ci si espone ai fraintendimenti del povero linguaggio degli
economisti mainstream. A ogni piè
sospinto annunciano che ricomincerà la crescita, ma di fronte alla sempre più
grave disoccupazione cercano di incoraggiare gli animi spostando più avanti la
fuoriuscita dalla crisi. Indicano sempre una nuova duna che delimita
l'orizzonte, ma ad ogni annuncio si accumula la delusione, come le carovane dei
nomadi del libro di Giobbe (6, 15) che trovano solo l'uadi secco, dove immaginavano fosse il torrente per rinfrescarsi.
Altri economisti cominciano a prenderne atto e parlano addirittura di "stagnazione
secolare".[2]
È davvero impressionante che nonostante l'inusitata potenza tecnologica
l'economia debba segnare il passo. Viene da pensare che sia proprio la
regolazione capitalistica con la sua sovrapproduzione a determinare la
stagnazione.
In
ogni caso non si tratta del solito ciclo economico di alternanza tra ascesa e
declino. Anzi, non è neppure esaustiva la dimensione economica. La crisi
mondiale dell'ultimo decennio è qualcosa di più profondo, è una Grande
Trasformazione degli assetti geopolitici e dei rapporti di potere, dei processi
di produzione e dei modelli di consumo, degli stili di vita e degli immaginari
collettivi.
Questa
trasformazione è connessa strutturalmente con il fuori luogo della politica. Tuttavia siamo indotti a interpretare
il nesso come spoliticizzazione a causa della grande influenza culturale che questo
paradigma ha assunto nella fase finale del lungo Novecento. Il fascino della
decadenza, soprattutto se rafforzato dal suffisso post, ha la proprietà di fissare i concetti prolungandone la
capacità ermeneutica ben oltre il campo di validità.
Più
o meno consapevolmente siamo portati ad applicare al nuovo mondo gli strumenti analitici
del vecchio mondo. In particolare resistono due figure della spoliticizzazione:
l'economia ha preso il sopravvento sulla politica; la globalizzazione ha
instaurato una regolazione che supera lo Stato. Entrambe colgono una parte di
verità, ma hanno il difetto di cristallizzare la politica e lo Stato nelle
vecchie forme e di attribuire il cambiamento solo agli altri due termini,
l'economia e la globalizzazione. In tal modo si opera una separazione
artificiosa tra i soggetti e gli oggetti del cambiamento, come se i primi
potessero agire indisturbati su contenitori inerti e questi conservassero la
vecchia forma nonostante le formidabili torsioni cui sono sottoposti. Le
due spiegazioni nella loro astrazione
perdono l'essenziale del mutamento, che si colloca proprio nell'interazione tra
soggetto e oggetto. La politica ha già retroagito sull'economia contribuendo a
formare un nuovo regime politico-economico. Lo Stato ha riorientato i propri
poteri verso la scala globale creando una nuova governance globale altamente
conflittuale. Molti dati empirici non sono più spiegabili con il vecchio
paradigma della spoliticizzazione; bastano i quattro nomi citati sopra - Trump,
Brexit, Cina, Putin - per convincersi che si tratta in realtà di una nuova
politicizzazione del mondo e degli Stati. Nella Grande Trasformazione la
politica non scompare, ma prende nuove forme ancora da comprendere nella loro
essenza. Certo, ci appaiono inquietanti, perché questa è la loro vera natura
oppure solo perché sconvolgono le vecchie categorie interpretative. È quindi
più feconda analiticamente la suggestione di una nuova epoca del politico,
piuttosto che la figura ormai consumata della spoliticizzazione.
Nella
nuova prospettiva il significato del fuori
della politica rimane in bilico tra un allontanarsi da un codice moderno ben
conosciuto e un collocarsi in una nuova realtà ancora in divenire.
La
poetica di Pasolini, secondo l'analisi di Luciano De Fiore, ha il pregio di
tenere aperto il fuori, come la "vita
che precede ogni ordine linguistico, che precede la storia"[3],
ma coincide con la potenza che è già sempre in atto. Il fuori del Palazzo come traccia simbolica della realtà.
Il
Palazzo è atterrito dalle forme inquietanti del politico e cerca di
esorcizzarle con la definizione di "populismo". Questa parola ha oggi una doppia vita, come le
persone che mantengono uno stile rigoroso durante il giorno e poi nella notte
si lasciano andare a comportamenti irregolari. È quindi una parola infingarda,
di cui è bene non fidarsi. Negli ultimi tempi il concetto è stato approfondito
e razionalizzato alla luce del sole da una ricchissima letteratura
specialistica, che consente quindi di farne un uso preciso e consapevole.[4]
Al contrario, nel rabbuiarsi del dibattito pubblico il termine viene usato con
significati e finalità che nulla hanno a che fare con quella chiarificazione
teorica e servono solo ad accentuare il significato polemico. Ci sono almeno
tre accezioni strumentali della parola: populista
è la certezza che toglie la curiosità di capire la realtà; populista è la definizione prêt-à-porter del nemico, è sempre l'altro nel discorso in
un reciproco rimproverarsi l'atteggiamento comune; populista è la pozione magica che cancella le responsabilità dell'establishment per i risultati disastrosi
delle sue decisioni unilaterali. Eppure, proprio nella strumentalità dell'uso,
la parola rivela indirettamente caratteri più essenziali del politico
contemporaneo.[5]
È pur sempre una risposta popolare al tentativo di spoliticizzazione non
riuscito da parte delle classi dirigenti.
Nel
discorso pubblico scompare il senso del pudore, si pronunciano parole che prima
erano indicibili, il linguaggio perde ogni riguardo, il parlante non teme di
apparire sguaiato. È il segno della perdita del limite, non solo quello
normativo, anche quello dell'eleganza, ma soprattutto quello etico: si può fare
e dire ogni cosa se è funzionale allo scopo. Qui si esprime il lato negativo
del collocarsi fuori dai luoghi
preposti. Il politico si toglie i vestiti istituzionali e mostra la sua nudità,
ma per resistere in questa intima esposizione deve liberarsi dal senso del
pudore. Il denudamento non rimane confinato nella sfera dei comportamenti politici
ma si estende agli ordinamenti con un'avversione crescente verso le
Costituzioni, proprio perché intese come sedimentazioni del pudore collettivo,
come limite invalicabile per l'irruenza degli istinti.
Tutto
ciò rivela la struttura profondamente narcisistica dell'ego politico
contemporaneo. La personalizzazione del programma di governo implica per il
leader un ossessivo rispecchiamento di sé[6].
L'immedesimazione alimenta una patologia bipolare che alterna momenti di
euforia della fase del consenso e di solitudine nelle fasi del declino. Il
narcisismo produce da un lato la concentrazione di energia psichica necessaria
per vincere la competizione elettorale, ma poi accentua la sindrome depressiva
quando la realtà smentisce le promesse. La cultura antica aveva un'acuta
percezione della malattia della solitudine connessa alla tirannide, come viene
rappresentata da Senofonte nel dialogo tra il tiranno Ierone e il poeta
Simonide .
Il
rispecchiamento di sé impedisce il riconoscimento dell'altro. Così il conflitto
politico ripudia qualsiasi forma di mediazione, diventa una lotta per la
sopravvivenza e può mirare solo all'annientamento dell'avversario.
Paradossalmente la carica di violenza aumenta proprio nell'epoca
post-ideologica. Nella storia repubblicana i frutti migliori della nostra
democrazia - la Costituzione e il progresso sociale - sono venuti dal
riconoscimento reciproco che si è sviluppato tra le grandi ideologie novecentesche,
nonostante i muri della guerra fredda. Quando siamo diventati tutti liberali
sono venute a mancare le ragioni superiori per giustificare il conflitto, che di
conseguenza ha dovuto trovare in se stesso l'impeto di uno scontro sempre più
aspro.[7]
Così la politica ha riscoperto il linguaggio della guerra[8]
che aveva assunto come discorso ordinario nella prima parte del secolo sotto
l'influenza dei due grandi conflitti mondiali
Nell'ambito
nazionale lo spirito di annientamento rimane ancora verbale, ma sullo scenario
mondiale si sviluppa senza limiti fino a diventare conflitto militare. E
finisce per travolgere perfino le regole della guerra formale, fino alla
barbarie del terrorismo. È l'inimicizia assoluta prevista da Schmitt nella Teoria del Partigiano. È forse questo
uno degli esiti estremi della globalizzazione che rinuncia a qualsiasi forma di
contenimento. La guerra perde l'aura di grande decisione e si sviluppa in forma
endemica, sia per chi la subisce in una sequela di sofferenze senza fine, sia
per chi la vede in televisione tutte le sere nella normalità del desco
familiare. È la terza guerra mondiale, di cui parla Papa Francesco, come
presenza immanente dello spirito di annientamento.
La
figura schmittiana del Partigiano
mette il luce il carattere tellurico
del politico contemporaneo, non solo nei livelli estremi della violenza ma in
forma dissimulata perfino nell'ordinario discorso pubblico.[9]
Quanto
ci appare lontano ormai il mondo incantato della globalizzazione anni Novanta.
Era il trionfo del positivo: la crescita della conoscenza che elargisce a tutti
i suoi frutti, la tecnica al servizio della vita quotidiana, i diritti che
rendono sovrano il cittadino elettore-consumatore, la spoliticizzazione che
supera i vecchi conflitti novecenteschi. Questa "pappa del cuore" è
stata spazzata via dalla potenza del negativo, come tratto distintivo di questo
ritardato inizio secolo. Non a caso il problema è colto dalla ricerca
filosofica più sensibile alla ricostruzione di un pensiero politico adeguato al
nostro tempo. Roberto Esposito nell'ultimo libro Politica e negazione. Per una filosofia affermativa, mobilita tutti
i suoi strumenti filosofici per affrontare il negativo senza rimuoverlo, ma con l'intenzione di riconvertirlo
nella differenza, che significa
mondarlo proprio del carattere tellurico. Tuttavia, questi assalti
intellettuali non sembrano in grado da soli di svellere la potenza del negativo
che è solidamente poggiata nella contingenza storica, con un piede nella
politica pratica, ma con l'altro nel pensiero che inconsapevolmente la riflette
e nel contempo la forma.
Nella
pratica l'inimicizia assoluta si sviluppa liberamente perché non trova un potere
in grado di contenerla, né un katechon
spirituale né un nomos della Terra.
Ma il movimento sussultorio che promana dalla globalizzazione ingovernabile
risveglia nel pensiero una potenza del negativo. Nella tradizione filosofica
quella potenza è scaturita dalla necessità di pensare l'essere in relazione al
nulla, ed è stata pensata in forme molto diverse, via via sempre più
irriducibili alla sintesi. Martin Heidegger nella Introduzione alla metafisica la interpreta proprio come una "lotta
per l'annientamento" tra essere e pensiero (Walten e Mitwalten)[10],
come un conflitto (polemos) che
istituisce i combattenti. Ma non era l'unico a pensare con tanta radicalità la
potenza del negativo in quegli anni Trenta del Novecento che mostrano una
diretta connessione intellettuale con il nostro tempo, come se il secondo
Novecento fosse stato solo una parentesi. Si possono rintracciare tanti
percorsi che saltano i Trenta Gloriosi e la globalizzazione irenica e collegano
il clima intellettuale degli anni Trenta del secolo passato all'inizio
ritardato del secolo attuale: lo Stato di
eccezione di Schmitt e l'attuale decisionismo, le Tesi sul concetto di storia di Benjamin e il postmodernismo;
l'inizio del pensiero ordoliberale tedesco e l'odierno mainstream economico europeo[11];
la coscienza di una crisi dell'Europa,
pur tanto diversa in Husserl o Croce[12],
e il ripiegamento politico e culturale del nostro continente, ecc..
Se
la pratica e il pensiero convergono nel rilancio della potenza del negativo
vuol dire che la politica contemporanea ritrova nella propria essenza un nucleo
metafisico. È accaduto il contrario della profezia o speranza di Habermas che
annunciava la liberazione della politica dal retaggio metafisico.
Mare e Terra
Il
volto inquietante del politico contemporaneo scaturisce proprio dal suo essere fuori luogo, inteso come delocalizzazione
dai luoghi della rappresentanza e svelato da come si comporta in società: la
perdita del pudore, l'ossessione narcisistica e lo spirito di annientamento.
Questi
comportamenti convergono nell'azione tellurica che sovverte le certezze morali,
le regole istituzionali e le tradizionali alleanze internazionali. Tutto ciò
trova il campo di applicazione privilegiato nella relativa perdita di egemonia
dell'Occidente, la freccia geopolitica del nostro secolo. La perdita riguarda
tutti i campi, dalle crude percentuali economiche, alle dinamiche culturali
della globalizzazione, alla crescente incapacità di governo delle crisi
internazionali. Ne hanno una confusa consapevolezza le classi dirigenti e di
conseguenza reagiscono in ordine sparso e in modo sempre più conflittuale. Ci
sono però sorprendenti regolarità che distinguono le risposte del mondo
anglosassone e dell'Europa continentale, come se tornasse in tutta la sua
cogenza geopolitica l'antinomia mare-terra di Schmitt.
Il
nomos del mare suscita comportamenti
estremi che ondeggiano da un eccesso all'altro. Così la politica anglosassone
che quaranta anni fa aveva aperto la globalizzazione con Reagan e Thatcher oggi
vorrebbe chiuderla con il First America
e la Brexit. Il paradosso storico comporta
conseguenze devastanti nell'assetto politico-diplomatico dell'Occidente. È
impressionante lo spirito di scissione verso l'Europa da parte degli inglesi,
impegnati a trattare le pratiche di divorzio, e da parte di Trump, ormai lanciato
nella guerra dei dazi. Viene meno l'atlantismo non solo come baluardo della
politica internazionale novecentesca, non solo come sistema di valori comuni, ma
più profondamente come una totalità spinoziana proposta al resto del mondo
nella forma immanente e razionale di natura democratica, contro ogni forma di
fondamentalismo.[13]
La massima espressione è contenuta nel discorso di Obama all'università del
Cairo che proponeva al mondo arabo un Occidente lucidamente convinto di gestire
la propria decadenza con il rafforzamento di un soft-power di cooperazione culturale ed economica. Oggi è diventato
un discorso di parte rifiutato e anzi messo all'indice da tutta la destra
anglosassone, ma proprio per questo potrebbe diventare il manifesto di un nuovo
atlantismo democratico, che unisca
l'eredità obamiana dei democratici americani con le forze disperse dei
socialisti e dei progressisti europei.
È
un ribaltamento di culture politiche. Nei Trenta Gloriosi i valori
euroamericani hanno funzionato come sistema che guidava la politica
internazionale, unificava le classi dirigenti e le aspirazioni popolari,
determinava la coesione politica tra conservatori e progressisti con piena
adesione anche della socialdemocrazia. Anzi, Helmut Schmidt ne divenne protagonista
proprio negli anni Ottanta, quando ormai gli americani cominciavano a
privilegiare lo sguardo verso l'altro oceano, il Pacifico.[14]
Oggi, al contrario, la frattura atlantica è ciò che distingue più aspramente la
Destra della chiusura dei confini e la Sinistra dell'apertura alla
cooperazione.
La
Destra anglosassone ha distrutto il solenne edificio dell'atlantismo. La
categoria politica non funziona più come tutto, ma solo come parte. Gli Usa si
comportano sempre più come potenza di mare che non accetta alcuna forma di
contenimento, non solo perché il loro primato militare è soprattutto navale e
meno di terra o di aria, ma perché rifiutano qualsiasi regola diplomatica o
commerciale.
Molto
diversa è la risposta alla decadenza occidentale da parte del nomos terragno dell'Europa. Le classi
dirigenti europee hanno creato un fortino a difesa della spoliticizzazione
degli anni Ottanta e Novanta, prolungando oltre ogni ragionevolezza proprio quella
tendenza avviata dagli americani, ma da loro stessi pragmaticamente abbandonata
quando la crisi dei subprime ha
richiesto un interventismo politico mai visto prima nell'economia capitalistica.
Solo in Europa la spoliticizzazione si è cristallizzata in forma istituzionale:
gli algoritmi di regolazione della politica economica, la dogmatica distinzione
tra policies virtuose e dannose, la
colpevolizzazione del debito, la normativizzazione estrema delle decisioni, la
delega di ogni controversia alle agenzie, alle authorities e ai tribunali. Aver creato un unicum di statualità debole è stato un vanto negli anni Novanta.
Veniva considerato un primato nel superamento della sovranità statale che
sembrava ormai a portata di mano. Oggi, però, è palese la debolezza dell'UE di
fronte alle macrostatualità che si sono specializzate e rimodellate proprio
come attori della globalizzazione: non solo quelli di sempre, gli Usa e il
Giappone, ma il ritorno della Russia, il ruolo del Canada che offre all'Europa
con il CETA la via d'uscita allo strappo di Trump sull'accordo commerciale TTIP,
l'irresistibile ascesa dell'India, la turbolenza sudamericana, le tigri
asiatiche e soprattutto la Cina che è diventata, pochi anni dopo il suo
ingresso nel WTO, l'unica certezza di stabilità degli scambi internazionali.
Il
malessere europeo viene attribuito all'economia, in particolare
all'incompletezza del sistema euro, e le soluzioni sono cercate sempre nei
nuovi modelli istituzionali. Si tratta certamente di problemi rilevanti, ma la
causa del malessere è squisitamente politica. E riguarda la grave mancanza di
una soggettività nelle relazioni internazionali. Il protagonismo diplomatico
avrebbe tutelato gli interessi dei popoli europei più di quanto si è fatto con
l'integrazione monetaria e normativa. E al contrario proprio la mancanza della
politica estera espone il vecchio continente alle ricadute negative di una
globalizzazione sregolata. Le classi dirigenti sono ripiegate a fare i conti
dei parametri di Maastricht mentre il continente è circondato da una corona di
guerre dall'Ucraina, al Medio Oriente all'Africa. Nell'epoca moderna l'Europa
ha portato nel mondo i suoi conflitti interni, come ci spiega Vincenzo Vitiello.[15]
Oggi, invece, è chiusa in se stessa e viene assediata dai conflitti esterni.
L'ordinamento
europeo ha cacciato fuori sé il carattere tellurico della politica, ma oggi
questo torna indietro più virulento che mai e circonda i suoi confini. E per
affrontarlo l'Unione non possiede poteri politici, ma solo gli insufficienti
strumenti della moneta e delle norme. La spoliticizzazione istituzionalizzata
espone al rischio e frena la salvezza.
Tutte
le tensioni si scaricano nel Mediterraneo che diventa il più importante teatro
geopolitico del secolo appena cominciato. Qui si giocano i grandi dilemmi del
nostro tempo: pace e guerra, il confronto tra le grandi religioni
monoteistiche, le migrazioni, la riconversione energetica, la cooperazione
nord-sud e soprattutto il futuro dell'Africa. La Cina sembra voler prendere la
guida di tali processi con il progetto della Via della Seta e con i massicci
investimenti nel continente africano. La Russia ha ritrovato un ruolo di grande
potenza nel Medio Oriente utilizzando gli errori occidentali nella crisi
siriana. L'Europa, invece, ha voltato le spalle all'antico mare, lo considera
il suo confine, non a caso chiama Frontex la sua spedizione navale. Ha
dimenticato che Mare Nostrum non è il
suo confine, ma la sua origine. È incredibile come le classi politiche europee
siano riuscite a dare il peggio di se stesse: l'indifferenza verso le primavere
arabe, la preminenza degli interessi petroliferi, le sciagure dei bombardamenti
in Libia e in Siria. Il caos attuale è per gran parte riconducibile all'ignavia
europea.
Il
più grave pericolo di rottura dell'Unione oggi viene dalle migrazioni. Ma il
conflitto è per certi versi patetico e per altri drammatico. Paradossalmente
sono tutti d'accordo sull'obiettivo più irrealistico, cioè che si possa creare
una barriera per fermare milioni di uomini e di donne in fuga dalla fame e
dalla guerra; si discute solo se la barriera deve essere al confine libico
oppure più a nord. Ma nessuno in Europa si occupa di rimuovere la cause della
fame e della guerra. Eppure, se gli europei volessero superare lo stato d'animo
sfiduciato e rancoroso dovrebbero prendere esempio proprio dallo sguardo dei
migranti verso l'Europa, dalla speranza di salvezza e dalla fiducia nel futuro
che si leggono sui loro volti quando mettono piede nel continente.
In
questo contesto di instabilità l'Italia torna a svolgere un ruolo cruciale,
come lo fu nella stabilità della guerra fredda, seppure con caratteri diversi.
Non ne ha avuto alcuna consapevolezza la classe politica italiana, troppo
impegnata nelle sue ossessioni mediatiche. Oggi però il ruolo geopolitico
dell'Italia, almeno nella versione negativa, viene svelato dall'entusiasmo di
Putin e di Trump verso il governo giallo verde. Si rafforzano le diverse ma
convergenti intenzioni russe e americane di indebolire l'Europa picchiando nel
punto fragile della penisola meridionale.
L'Italia
non solo paga il prezzo più alto, ma costituisce anche il pericolo maggiore per
una precipitazione della crisi europea. Da noi dovrebbe venire il più forte
contributo a una svolta per rafforzare l'Europa. Non servono i pugni sul tavolo
e sono spregevoli le minacce dei porti chiusi. Dalla politica italiana dovrebbe
venire un ambizioso progetto per girare l'Europa verso il Mediterraneo. Almeno
con lo stesso impegno profuso a suo tempo verso i paesi che si liberavano dalle
dittature comuniste. D'altro canto, solo in una grande politica
euromediterranea si può riprendere il discorso sul nostro Mezzogiorno; solo in
un ambito geopolitico più vasto si può ripensare l'unità della nazione italiana.[16]
Come
nelle relazioni internazionali anche nella politica interna la
spoliticizzazione risveglia il carattere tellurico e non sa come gestirlo. La
macroeconomia è guidata dal pilota automatico ed è quindi sottratta al libero
conflitto politico. Comunque vadano le elezioni l'indirizzo economico rimane lo
stesso. Le tensioni sociali che non trovano rappresentazione nella dialettica
sinistra-destra si coagulano nella frattura tra establishment e popolo. Il maldestro tentativo di sterilizzare la
politica, non solo non è riuscito ma ha fatto emergere le forme più aggressive
e più ostili alla mediazione. La grande illusione di ridurre a un algoritmo il
problema del governo ha reso ingovernabile il vecchio continente. Le elites europee sono rimaste vittime delle
proprie macchinazioni.
C'è
da domandarsi quale demone negli ultimi trent'anni abbia convinto le classi
dirigenti e cancellare la politica, proprio quando si ponevano la massima
ambizione della graduale unificazione europea. Il demone ha assunto diverse
sembianze: pratiche, storiche e capitalistiche.
Dal
punto di vista pratico la spoliticizzazione, seguendo i dettami di un
funzionalismo già invecchiato a quel tempo, offriva un campo neutro di
decisioni che sembrava potesse rassicurare le volontà nazionali impegnate
nell'integrazione. È accaduto esattamente il contrario: proprio la mancanza di
una guida politica del processo ha fatto riemergere le pretese degli Stati
nazionali, i quali nel frattempo, con l'allargamento a Est, costituivano un
organo quasi assembleare come il Consiglio Europeo. Il percorso decisionale che
ha portato all'euro è stato esaminato dal punto di vista della scienza
economica e politica con valutazioni sempre più critiche a distanza di tempo. È
ancora da approfondire la critica epistemologica della razionalità impiegata
dai decisori in quel passaggio cruciale. Pensarono che bastasse fissare un
vincolo esterno per creare a posteriori le condizioni strutturali che dovevano
costituire invece il presupposto del processo. I decisori si affidarono a una
razionalità autosufficiente, che proprio in quegli anni veniva destrutturata
dal pensiero critico europeo.
Dal
punto di vista storico ha pesato quel carattere impolitico dello spirito
tedesco che è stato rilevato in forme diverse dai grandi pensatori, da Max Weber
a Carl Schmitt a Thomas Mann[17].
È una postura antimachiavelliana che ha sempre confuso l'inventiva politica con
l'intrigo di palazzo. Certo, questa mancanza è stata compensata
dall'aspirazione all'assoluto della grande cultura tedesca. Tuttavia non è un
segnale trascurabile che oggi nelle università la filosofia classica tedesca
sia molto trascurata, anzi ormai quasi soppiantata dalla filosofia analitica e
da uno scientismo dilagante. L'universale non è più il compito della ricerca
filosofica, è diventato l'obiettivo dell'economia delle esportazioni.
Il
governo tedesco si è trovato a prendere la guida di fatto, pur essendo un ruolo
non formalizzato nell'ordinamento dell'Unione e soprattutto non accettato dalla
stessa Germania. La sua tendenza spoliticizzante è scivolata dalla dimensione
intellettuale alla pratica dell'economia. Paradossalmente si è espressa una
leadership riluttante, per utilizzare
la definizione introdotta da Carlo Galli[18]
per il caso italiano, ma valida anche per il caso europeo. La riluttanza in
futuro sarà aggravata dalla crisi interna della leadership tedesca, ormai
insidiata dalla politica tellurica della nuova destra, anch'essa mossa dal
principio "prima la Germania".
Non
a caso oggi, tra i tanti prodotti del pensiero tedesco, quello che presenta una
penetrante espansione europea e internazionale è proprio la teoria economica
ordoliberale, elaborata da Wilhelm Röpke e altri negli anni Trenta come
alternativa allo spirito di annientamento del nazismo. L'austriaco von Hayek
sottolineava il carattere tipicamente tedesco dell'ordoliberalismo.[19]
Nel dopoguerra quella teoria si affermò come indirizzo di governo proprio
perché prometteva un ordine economico-sociale che non aveva più bisogno delle
grandi decisioni sovrane, ormai associate nella memoria alle lugubri decisioni
hitleriane. Tutto ciò ha conferito all'ordoliberalismo un'aura spoliticizzante,
ma in realtà progettava un nuovo ordine politico, come osservò Leo Strauss in
colloquio con Carl Schmitt già negli anni Cinquanta.[20]
Il Termidoro del
capitalismo
La
spoliticizzazione che promana dalla storia tedesca si è potuta affermare in
Europa perché corrisponde pienamente a un bisogno d'ordine del capitalismo
contemporaneo. La ricetta ordoliberale che assicurò la ricostruzione nel
dopoguerra oggi appare alle classi dirigenti come la più valida per contenere
le forze telluriche della globalizzazione.
Il
capitalismo ha esaurito il momento rivoluzionario innescato dalla crisi
economica degli anni Settanta. Con l'esplosione della crisi finanziaria dei subprime è entrato nella fase del
Termidoro. Tra le due grandi crisi si inverte la freccia politica: lo spirito
libertario e anarchico lascia il campo a nuove esigenze di ordine e di comando.
E soprattutto si ribaltano le promesse rivoluzionarie. Doveva essere il trionfo dell’Occidente, mentre la crisi certifica
la de-occidentalizzazione del mondo. Doveva essere il trionfo dell’individuo
che afferra il futuro nelle proprie mani e invece domina l’incertezza se non
l'impossibilità, soprattutto per i giovani, di immaginare un progetto di vita.
Doveva essere l’esportazione della democrazia e invece per la prima volta dopo
tanto tempo il capitalismo sembra funzionare meglio in forme autoritarie, dalla
Cina, alla Russia, all'America di Trump. E perfino in Europa si è arrivati a
stigmatizzare, come risulta dal famoso paper
della Morgan Stanley, l'eccedenza di diritti delle carte costituzionali del
dopoguerra.
La necessità di proteggere il mercato
dalle scelte discrezionali comporta il ricorso esasperato alla regola come
strumento di governo dei processi. Le diverse opzioni politiche sono
neutralizzate da procedure che hanno la pretesa di oggettività e spesso si
esprimono mediante algoritmi matematici.[21]
Non c'è niente di più mistificatorio di un numero, se non è appropriato e
trasparente il processo di calcolo di cui è il risultato. La Commissione UE
stima il deficit strutturale dei paesi secondo criteri molto discutibili, che
tuttavia danno luogo a sanzioni indiscutibili. Quanto più le scelte sono
depoliticizzate, tanto più hanno bisogno di essere codificate. E alla fine
emerge il paradosso di un capitalismo che chiede stabilità agli Stati per poter
dispiegare più liberamente le sue crisi.
Il termine liberismo andrebbe revocato. Se all'inizio fu il grido di battaglia
dello spirito libertario che si affermava nella rottura dei legami sociali e
dei vincoli istituzionali, oggi è in evidente contrasto con la tendenza
termidoriana verso i controlli e le regolamentazioni.
L’enfasi normativa scaturisce
dall'esigenza di espandere i mercati in campi vitali ancora vergini. Le
relazioni umane informali, le sensazioni private e gli immaginari collettivi
sono colonizzati dal principio di utilità economica. Tutto ciò richiede
procedure, contratti, accordi interstatali, standard tecnici, certificazioni,
agenzie, account, profili, cioè un apparato normativo nella frontiera
pubblico-privato.
La nostra vita quotidiana è certamente più
regolamentata di quaranta anni fa, tra PIN, card, permessi,
certificazioni, tracce digitali e biologiche così intricate da rendere
necessaria un'Authority sulla privacy. Il recente scandalo dei
dati Facebook ha rivelato quanto possa essere pervasivo il controllo sul
cittadino elettore e consumatore.
Tutto
ciò crea una separazione sempre più marcata tra la logica di sistema e i mondi
vitali. Aveva ragione Habermas nell'individuare la frattura, anche se era
illusoria la previsione di ricomporla con un'etica discorsiva. La tensione era
già presente nella società industriale, ma il capitalismo termidoriano la porta
all'estremo di una mutazione antropologica. La pervasività delle tecnoscienze
della vita, dell'informazione e della materia aprono alla competizione
economica le dimensioni più intime dell'umano. La logica di sistema penetra nel
cuore dei mondi vitali, ma cozza anche contro la loro irriducibilità
all'eteronomia del mercato e del potere. Il conflitto rimane aperto e alimenta
l'energia tellurica che si manifesta nella politica contemporanea.
Il
mondo nuovo apre i vecchi contenitori - nazione, famiglia, classe - che
regolavano i comportamenti collettivi. Tutto ciò rende l'individuo più libero
di scegliere la propria linea di condotta. D'altro canto questa libertà è
potenziata dalla possibilità di utilizzare le cose mirabili messe a
disposizione dalle tecnoscienze. Ogni oggetto porta con sé un contributo
intellettuale sempre maggiore per merito della tecnica che viene incorporata,
fino al così detto "internet delle cose" che connette gli oggetti con
l'intelligenza della rete. L'individuo è in grado di scegliere tanti e diversi
modi di vita con una libertà che un tempo era possibile solo alla persona più
anticonformista, il bohémien.
Tuttavia, per gestire quella libertà il bohémien
disponeva di una competenza che non sempre si riscontra nel cittadino
globalizzato. Si crea quindi uno scarto tra la potenza dell'individuo e la
cultura che dovrebbe sostenerla. La sociologia ne ha avuto consapevolezza e ha
espresso diverse valutazioni. All'inizio del secolo, quando il fenomeno era
ancora allo stato embrionale, il genio di Simmel comprese pienamente il
pericolo di una diversa dinamica di crescita tra la potenza e la cultura, che
avrebbe potuto portare a "un regresso degli individui in termini di
spiritualità, delicatezza e idealismo"[22].
Sembra una descrizione precisa dei fenomeni irrazionali, rancorosi e
distruttivi che animano il carattere tellurico della politica di oggi. Al
contrario, alla fine del secolo, nel pieno della globalizzazione irenica Antony
Giddens diede un'interpretazione ottimistica di quello scarto, postulando una "modernità
riflessiva"[23]
che avrebbe consentito agli individui di acquisire gli strumenti cognitivi
indispensabili per gestire le nuove opportunità. Si supponeva che la società
della conoscenza avrebbe fornito a tutti i saperi necessari per gestire le
nuove libertà. Era il sogno del cittadino razionale che sceglie nel mercato,
decide in politica ed è in grado di progettare la propria vita. La
modernizzazione era come passeggiare su un prato raccogliendo i fiori della
conoscenza. Purtroppo non è andata così.
Nonostante i suoi mirabili i frutti, la società della
conoscenza contiene anche il lato oscuro di un'età dell'ignoranza.[24]
La vita da moderno bohémien ha
riguardato nel migliore dei casi i ceti medi riflessivi, come si vede nella
spettacolarizzazione della cultura, nel culto del viaggio, nell'economia
borghigiana del buon vivere, nella gentrification
dei quartieri storici. Ma per i ceti popolari lo scarto si è ampliato facendo
mancare le risorse cognitive necessarie per gestire la formidabile molteplicità
dei ruoli sociali. La diseguaglianza di riflessività ha separato l'immaginario
dei ceti colti dalla vita popolare, creando quella frattura che si esprime nei
comportamenti elettorali, nell'incomprensione tra élite e masse, nella divisione tra alto e basso. Lo scarto
cognitivo espone i ceti popolari alla mobilitazione identitaria promossa dalle
agenzie politiche della xenofobia, del fondamentalismo e della propaganda
bugiarda. Come negli anni Trenta la manipolazione delle masse, addirittura con
maggiore pervasività sociale e raffinatezza tecnologica, alimenta la potenza
del negativo.
Potenza e saggezza
Lo
scarto non riguarda solo i mondi vitali, ma anche la logica di sistema. È
sempre più evidente la differenza tra la straordinaria potenza di
trasformazione del mondo e la capacità di regolarne gli esiti. Tra lo sviluppo
economico e la sostenibilità del pianeta. Tra la produzione tecnologica della
vita e la responsabilità dell'umano. Tra l'apertura delle relazioni
internazionali e la guerra permanente. Tra la diffusione dell'informazione e la
tutela della privacy. Tra la
democrazia della rete e i nuovi monopoli cognitivi. Tra la crescita della produttività
tecnologica e la mancanza di lavoro.
La
forza produttiva della conoscenza consentirebbe di fare molto più di prima con
meno sforzo. Dovremmo essere tutti più ricchi pur dedicando più tempo all'ozio
individuale e alle relazioni umane. Dovrebbero essere disponibili le risorse
per una "società signorile di massa".[25]
E invece aumentano le diseguaglianze. Sorgono domande ingenue: chi se li prende
i frutti di questa irresistibile trasformazione? Perché aumenta la conoscenza
della produzione e diminuisce il sapere della giustizia?
C'è
una divaricazione tra la potenza e la saggezza. Per certi versi ritorna il tema
originario della filosofia come ricerca del contenimento della potenza
illimitata della natura e del divino.[26]
Si ripresenta con particolare intensità
il problema antico di Prometeo, che dona agli uomini la potenza ma non il
sapere necessario per governarla. La mitologia greca ne forniva due
interpretazioni di segno opposto. Quella pessimistica della tragedia eschilea
raccontava le infinite sofferenze che avevano colpito Prometeo per aver rubato
il fuoco agli Dei. Quella ottimistica del dialogo platonico Protagora (322) svelava la cura degli
Dei nel donare agli uomini le conoscenze del rispetto (Aidos) e della giustizia (Dike)
al fine di compensare gli eccessi della forza del fuoco. Le due versioni del
mito indicano il pericolo e la salvezza della potenza. Sono due possibilità
inseparabili che si manifestano nello stesso luogo, come annuncia il famoso
verso hölderliniano: Laddove è il rischio
è anche ciò che salva. Il poeta rassicura sull'esistenza di un terreno
comune, un laddove, tra il pericolo e
la salvezza, tra la potenza e la saggezza, tra la volontà e la grazia. È il
luogo originario del politico. Non esiste nessun altro luogo più autenticamente
politico di questo.
Qui
si conclude e si riassume l'intero percorso. All'inizio il politico si era
trovato fuori luogo, in fuga dalle
istituzioni della polis. Lo
spaesamento lo ha inselvatichito fino a un lasciarsi andare nella sua tendenza
tellurica. Ma proprio la lotta primordiale lo ha ricondotto nel luogo
originario dove la potenza si misura con la saggezza. Solo nella modalità
eccentrica il politico ritrova il suo centro.
E
qui si chiarisce anche il contributo dei diversi generi letterari: è
inservibile la certezza dell'orazione periclea ed è illuminante l'antinomia
della potenza nella tragedia eschilea, ma solo il dialogo platonico svela i
doni della saggezza.
Un
discorso costruttivo del politico potrà ricominciare solo a partire dal suo
luogo originario. Tutti i conflitti contemporanei convergono sul problema di
come si governa la potenza. E la saggezza viene dai doni che innalzano le
capacità di governo del mondo: Aidos e
Dike. "Non c'è polis senza un sistema di norme di
giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica,
infine senza un'educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli
comunitari", così Mario Vegetti commenta il mito di Protagora nella sua ultima
conferenza.[27]
Prevalgono
nella pubblicistica gli argomenti dell'economia, del diritto, della sociologia,
ma la ricostruzione del politico può venire solo da una rielaborazione dei temi
originari dell'educazione e della città.
L'educazione
L'educazione
non solo come policy, ma come
fondamento della politica, nel senso sviluppato dalle rivoluzioni moderne, cioè
come l'unica risorsa che può innalzare la saggezza all'altezza della potenza.
Thomas Jefferson riteneva decisivo che i cittadini fossero in grado di leggere
gli atti del governo, anticipando i problemi della democrazia digitale. Nicolas
de Condorcet proponeva di "dare istruzione a tutti perché la suddivisione
dei mestieri e delle professioni non renda stupido il popolo"[28],
prevedendo gli attuali deliri della tecnocrazia. Alla base di ogni problema
politico c'è sempre una penuria di istruzione. Dieci anni prima della Brexit il governo britannico aveva
cancellato la seconda lingua nei programmi scolastici.
Il
senso politico dell'educazione è oggi oscurato o represso dal normativismo
termidoriano. È sempre più accentuata la tendenza a uniformare il mondo vitale
della scuola alla logica di sistema.
In
tutti i paesi c'è un attivismo legislativo dei governi che impone standard
sempre più pervasivi. In Italia ovviamente l'attitudine leguleia si esprime al
massimo grado: la legge della Buona scuola ha prodotto un Corpus normativo di
circa centomila parole che soffoca la didattica senza risolvere i problemi
fondamentali. Al contrario, la riforma della scuola media degli anni Sessanta
conteneva solo tremila parole ma ottenne un risultato storico nel progresso
dell'alfabetizzazione.
L'impeto
normativo separa dalla didattica la valutazione, per farne un'attività esterna
misurabile con parametri standard. Si perde in tal modo la feconda dimensione
informale della valutazione da sempre connessa all'esperienza educativa. La
brava maestra regola naturalmente l'insegnamento sulla base dei risultati
dell'apprendimento dell'alunno. Più originariamente già nel dialogo platonico
la conoscenza cresce attraverso la consapevolezza degli insuccessi del
ragionamento.
È
insensata la richiesta ossessiva alla scuola di insegnare un mestiere, poiché
sarà solo il primo di tanti altri che seguiranno. Solo nell'arco della vita con
una molteplicità di strumenti formativi si potranno acquisire le competenze
lavorative che muteranno velocemente e imprevedibilmente. Si dovrebbero invece
curare i fondamentali educativi, formando le menti capaci di apprendere
continuamente. In conseguenza delle tecnologie che sostituiscono il lavoro
bisognerà insegnare le attitudini che non potranno mai essere svolte dalle
macchine: l'empatia, la creatività, la resilienza, ecc.
Ecco
il bivio tra la tecnicizzazione termidoriana dell'apprendimento e la
riconciliazione dell'educazione con la vita. Occorre una nuova fase di
scolarizzazione integrale, non basta più la didattica confinata negli spazi
scolastici e nelle brevi stagioni dell'infanzia, dell'adolescenza e della
giovinezza. Deve essere integrale nello spazio e nel tempo. Nello spazio la
scuola si apre alla città e al mondo: si impara attraversando i luoghi della
socialità, della cittadinanza, del paesaggio, del patrimonio storico, del
lavoro, del consumo, della creatività; si insegna non solo per "formare
gli italiani" - come era nei vecchi programmi - ma per aprire le menti al
mondo e accogliere le mille lingue nella "Pentecoste quotidiana"[29]
dell'istruzione multietnica.
È
integrale nel tempo perché riguarda l'intero arco della vita dall'inizio alla
fine. Solo in questa dimensione si possono innalzare le abilità cognitive
dell'intera popolazione, come è necessario per adeguarle alla potenza di
trasformazione del mondo nuovo. Solo riportando alla formazione anche gli
adulti, in certe periferie si può contrastare l'abbandono scolastico e
rimuovere le cause della diseguaglianza degli esiti educativi che purtroppo
oggi tende a crescere.
Superando
i vecchi limiti spazio-temporali l'educazione integrale cambia metodi e
obiettivi. È finita la scuola scandita dal calendario scolastico, organizzata
per classi di studenti, suddivisa per discipline di insegnamento e soprattutto
basata sul monopolio educativo. Si esaurisce l'autorevolezza del Codice moderno
del sapere. Nell'immensa rete digitale della conoscenza si sciolgono le vecchie
antinomie tra teoria e pratica, tra umanistico e scientifico, tra aulico e
popolare. Il testo perde l'univocità che dava certezza alla comunicazione, fino
a conferire autorità alla legge, e riscopre la molteplicità delle glosse
medioevali arricchite da interpolazioni, immagini e icone.[30]
I vecchi confini tra le discipline del sapere sono attraversate e riformulate
da nuovi paradigmi cognitivi.
La
crescita impetuosa della conoscenza rende molto più problematica la selezione
dei contenuti da consegnare ai posteri. Chi può sapere che cosa sarà davvero
importante insegnare tra venti o trenta anni? Come osserva Howard Gardner "in futuro saranno estremamente rare
le persone (o gli agenti dotati di intelligenza) capaci.. di stabilire che cosa
meriti di essere conosciuto. Merce ancora più preziosa saranno gli individui (o
i browsers) capaci di sintetizzare
fronti di conoscenza in espansione esponenziale.[31]
Elaborare
la saggezza a misura della potenza è un'impresa dirimente. È la paideia di questo secolo. È certo un
compito educativo. Ma non esiste un tema più politico di questo. L'educazione è
il centro che la politica non ha ancora trovato.
La città
Nello spazio urbano la logica di sistema
si manifesta nella sua materialità e svela la pretesa di modellare la forma di
vita. Il contrasto diventa più visibile e nel contempo suscita le energie che
ne mettono in discussione l'origine.
La
città è la potenza di trasformazione che si rivela direttamente nella
dimensione dell'umano e invoca la sua saggezza. È il verso di Baudelaire di
fronte alle opere di Haussmann: "La vecchia Parigi non è più (la forma di
una città ahimè! muta più rapidamente del cuore di un mortale".[32]
I
grandi problemi del nostro tempo - finanziarizzazione e globalizzazione,
mutazioni delle produzioni e dei consumi, migrazioni, sostenibilità del pianeta
- che in generale appaiono sfuggenti e irrisolvibili, nella città diventano
visibili e materiali, mettono i piedi per terra ed entrano in contatto con la
vita delle persone e con le forze morali e sociali del cambiamento.
La
pretesa di imporre la logica di sistema trova la resistenza nella vita
collettiva. Il capitalismo termidoriano ama più del profitto la rendita; la finanza
estrae dalla città il valore immobiliare e lo colloca nelle transazioni
internazionali. La rendita urbana si comporta come un derivato nell'intreccio
di economia di carta e di mattone. D'altro canto, il valore urbano si esprime
nei mondi vitali come insopprimibile diritto
alla città, nel senso indicato da Henri Lefebvre durante il sommovimento
del Sessantotto.[33]
Nella metropoli post-urbana lo spazio accentua sia l'esteriorità sia
l'interiorità delle forme sociali. Gli archetipi della città vengono
mistificati o rielaborati nella trasformazione contemporanea. Le mura sono
scomparse come architettura fisica - preservate non sempre con cura come
reperto archeologico - ma la loro potenza simbolica dispiega una presenza
immanente nell'organizzazione sociale.
Quando costituivano una presenza esteriore erano rassicuranti, quando si
interiorizzano nei gruppi sociali diventano inquietanti. I confini si
smaterializzano ma si ricompongono nelle diversità di etnia, di ceto sociale,
di stili di vita, di generazioni e assumono le varie forme di gentrification,
di vecchi e nuovi ghetti, di edge city, delle ossessioni
securitarie nelle gated community. In senso inverso, l'archetipo
della piazza offre una materialità utile a sedimentare la carica simbolica
accumulata nella comunicazione immateriale. Tutti i grandi movimenti politici nati
nella rete negli ultimi anni hanno sentito il bisogno di rappresentarsi in
luoghi urbani, trasformandoli in vere e proprie piazze del mondo: Occupy Wall Street, le tende degli Indignados a Madrid, piazza Tahrir del
Cairo, Gezi park di Istanbul.
Nelle metropoli
globalizzate la piazza svolge una funzione
rappresentativa ma non esplicativa. È molto più
penetrante il simbolo delle mura. È il carattere originario della città come macchina spazio-temporale, come
luogo che limita lo spazio per rendere commensurabili le relazioni temporali tra le
persone. Oggi queste due dimensioni
tendono a separarsi e a irrigidirsi reciprocamente. Da un lato il tempo si
accelera nelle reti lunghe della conoscenza e della comunicazione globalizzata,
il mondo a portata di mano non solo in internet, ma negli stili di vita, nella
finanziarizzazione dell'economia, nell'azione criminale, nella sensibilità
artistica, perfino nei sapori. D'altro canto, lo spazio si confina e risucchia
la sfera morale, riportando l'etica al significato originario di ethos,
che è appunto nicchia, perfino tana. Da qui la forza
irrefrenabile dei tanti leghismi che picchettano la superficie liscia della
globalizzazione.
Si formano così
due grandi famiglie di conflitti, quelli temporali e quelli spaziali. I primi
seguono il verso del globale e i secondi agiscono come suo contrasto; i primi
liberano energie e i secondi le trattengono; i primi sono escatologici e
i secondi katechontici. Le diverse forme e gradazioni che assume questa
scissione spazio-temporale modellano l'organizzazione sociale, i rapporti tra
gli individui e la stessa condizione esistenziale delle persone. Alle estremità
si trovano da un lato le élite
sovranazionali che vivono quotidianamente con la testa nel mondo e dall'altro i
poveri cristi sempre più attaccati al
suolo come ad una zattera spersa nell'oceano.
La città è fatta di pietre e di persone, porta con
sé una materialità e una corporeità che fa scendere in terra il pensiero. La
questione urbana è una limitazione
creativa per il pensiero politico. La cultura
democratica ha sempre ricondotto la politica alla polis e alla rappresentazione
architettonica dell'agorà. Tutto ciò discende da una poderosa tradizione
intellettuale che ha elaborato un'interpretazione romantica della grecità. Ma
la cultura antica aveva una visione molto più problematica del nesso polis-politeia,
meno rotonda e più spigolosa, meno univoca e più controversa, meno pacificata e
più conflittuale.
Il mito fondante
del politico non è solo la piazza della polis periclea, ma è il dramma
tra nomos e ghenos che si svolge ai piedi delle mura di Tebe
quando Antigone esce dalla polis per seppellire il corpo di Polinice. E
ancora più esplicitamente le mura si contrappongono all'agorà come simbolo del politico nel potente frammento eracliteo:
“il popolo deve combattere per il nomos come per le mura della città”.
Bisogna attingere a questa grecità del polemos, liberarsi dall'idealizzazione liberale dell'antico,
per elaborare i paradigmi politici adatti al
nostro tempo.
Nella città antica il simbolo delle mura
costituivano un simbolo ambivalente: l'identità e la relazione, il rifiuto e
l'accoglienza, la chiusura e lo scambio. Nella porta delle mura si scambiavano
le merci, arrivavano le notizie, si accoglieva lo straniero. Il conflitto
politico contemporaneo torna a scuotere l'archetipo urbano. È la sfida tra chi
vuole chiudere la città e chi vuole aprire le sue porte.
A livello degli Stati è possibile che prevalga la
chiusura, ma nelle città è indomabile l'apertura. Londra non farà mai la sua Brexit. Il fuori della politica può
ritrovare il suo centro nella città.
Entrambe le nuove centralità della politica -
l'educazione e la città - richiamano il genere letterario del dialogo
platonico, come paideia della polis.
[1]
Sul fare i conti con la grandezza del Novecento, si veda M. Tronti, Dello spirito libero. Frammenti di vita e di
pensiero, Il Saggiatore, Milano 2015.
[2]
Sulle tendenze del capitalismo si vedano gli atti del Seminario del CRS, a cura
di Alessandro Montebugnoli, "Cerchiamo ancora: capitalismo e società
all'inizio del XXI secolo", 2017-8, in rete.
[3]
L. De Fiore, Risposte pratiche, risposte
sante. Pasolini, il tempo e la politica, Castelvecchi, Roma 2018, p. 53.
Con la realtà si instaura un rapporto ambivalente: "Pasolini comprende che
l'efficacia del nuovo Potere consiste nella sua capacità di farsi Vuoto,
rinunciando alla conoscenza della realtà, ma non abdicando affatto al dominio
su di essa", p. 13. L'idea del fuori
come traccia simbolica della realtà è sottolineata dalla recensione di Alex
Pagliardini, Sulle tracce del reale.
Linee di fuga del godimento in Lacan e Pasolini, in "Operaviva"
del 22 giugno 2018. L'autore, inoltre,
discute la tesi di Michael Hardt che presenta "la proposta pasoliniana
fino al finire degli anni Sessanta come una strategia del fuori",
pp. 82-4.
[4]
Un buona rassegna delle teorie: M. Anselmi, Populismo.
Teorie e problemi, Mondadori, Milano 2017. Sull'uso politico del termine:
I. Diamanti, M. Lazar, Popolocrazia. La
metamorfosi delle nostre democrazie, Laterza, Roma 2018.
[5]
Sul populismo come forma intrinseca del politico il riferimento obbligato è E.
Laclau, La ragione populista, Laterza,
Roma 2018.
[6]
Il berlusconismo ha anticipato e sviluppato la nuova tendenza narcisistica,
come dimostra l'analisi di Ida Dominijanni: "In un mondo che non è più
teatro ma mercato, la rappresentazione cede il passo all'esposizione,
l'interpretazione all'eccesso di informazione, la seduzione alla prestazione,
la relazione con l'altro al consumo dell'altro: col sacrificio congiunto
dell'eros .. e della politica, uccisa dalla trasformazione della sfera pubblica
in un mercato del narcisismo, in Il Trucco.
Sessualità e biopolitica nella fine di Berlusconi, Ediesse, Roma 2014, p. 238.
[7]
Sulla questione rinvio al mio saggio: Dal
troppo al niente della mediazione politica, in
"Costituzionalismo.it" n.2 del 2017.
[8]
Pietro Ingrao nella sua autobiografia - Memoria,
Ediesse, Roma 2017 - descrive il contrasto tra la sua formazione letteraria e
le parole della guerra che si trova a usare nel linguaggio quotidiano della
politica, pp. 55-6.
[9]
Anche se Carlo Galli in questo volume invita alla cautela nell'attualizzazione
del Partigiano, che non è l'ultima figura del nemico ma è il nemico senza
figura.
[10]
"Nella contrapposizione tra essente predominante nella sua totalità ed
esserci violentante dell'uomo, si realizza la possibilità della caduta in ciò
che è senza uscita e senza luogo, nella rovina", M. Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia,
Milano 1986, p. 169.
[11]
M. De Carolis, Il rovescio della libertà.
Tramonto del neoliberalismo e disagio della civiltà, Quodlibet, Macerata
2017, pp. 35-47.
[12]
Biagio De Giovanni, "La crisi del pensiero eurocentrico", Conferenza
del 9 gennaio 2018 presso l'Istituto Italiano per gli Studi Storici,
Napoli.
[13]
La singolare lettura dell'atlantismo come forma di spinozismo in Epimeteo, Finis Europae. Una catastrofe
teologico-politica, Bibliopolis, Napoli 2008, pp. 283-4.
[14]
L'analisi della politica della socialdemocrazia tedesca con riferimento agli
effetti indotti nel nostro Paese, in G. Vacca, L'Italia contesa, Marsilio, Venezia 2018, p. 291.
[15]
"Tutte le guerre che l'Europa moderna intraprende, quale che sia il
continente, quale che sia l'oceano, sono guerre interne", V. Vitiello, Europa. Topologia di un naufragio,
Mimesis, Milano 2017, p. 215 Europa. In questo volume Carlo Galli chiarisce
come il tentativo spoliticizzante abbia alimentato i conflitti politici interni
all'Europa, non più come espansione, bensì come implosione.
[16]
F. Cassano, Tre modi di vedere il Sud,
Il Mulino, Bologna 2009.
[17]
Un mese dopo la fine della guerra, Thomas Mann nella conferenza americana La Germania e i tedeschi - Manifestolibri,
Roma 1998 - sostiene che il tedesco
"considera la politica null'altro che menzogna e delitto, inganno e
violenza, qualcosa insomma di pienamente e assolutamente lurido, e, quando vi
si dedica per ambizione internazionale, la esercita in base a questa
filosofia", p. 46.
[18]
C. Galli, I Riluttanti, Laterza, Roma
2012.
[19]
M. De Carolis, op. cit., p. 49.
[20]
Ivi, p. 46.
[21]
M. Mezza, Algoritmi di libertà. La
potenza del calcolo tra dominio e conflitto, Donzelli, Roma 2018.
[22]
G. Simmel, Le metropoli e la vita dello
spirito, Armando editore, Roma 1995, p. 54.
[23]
Questa
espressione si affermò nel 1994 in un importante dibattito tra Ulrich Beck,
Scott Lash e Anthony Giddens (Modernizzazione
riflessiva, Asterios, Trieste 1999) che in embrione conteneva le diverse
tendenze culturali degli anni successivi. Nei primi due l'espressione denotava
un concetto critico addirittura legato al non
sapere, che poi Beck ha sviluppato come società
del rischio - ponendo l'accento proprio sulla necessità di cooperazione dei
saperi - e Lash in un'ermeneutica postmodernista. Ad avere maggiore fortuna
politica è stata invece la riflessività acritica di Giddens che ha egemonizzato
la sinistra europea e più in generale la cultura progressista.
[25]
È l'espressione che usava Lucio Magri nel dibattito interno del partito
comunista italiano, in Il sarto di Ulm.
Una possibile storia del PCI, Il Saggiatore, Milano 2009, p. 405.
[26]
V. Vitiello, op. cit., p. 209.
[27]
M. Vegetti, Il dono di Prometeo non basta
all'uomo. La potenza è veleno se manca la giustizia, in "La
Lettura" del 18 marzo 2018. È il testo pubblicato postumo che l'autore non
riuscì a leggere alla conferenza alla Casa della Cultura di Milano pochi giorni
prima della sua scomparsa.
[28]
Nella quarta delle Cinque memorie
sull'istruzione pubblica, in J. A. Condorcet, Elogio dell'istruzione pubblica, Manifestolibri, Roma 2002.
[29]
Gli Atti degli apostoli (At 2, 5-13) raccontano che nel giorno di Pentecoste si
trovarono a Gerusalemme i Parti, i Medi e gli Elamiti e tanti altri, e tutti
parlavano la propria lingua, eppure si intendevano.
[30]
R. Simone, Presi nella rete. La mente ai
tempi del web, Garzanti, Milano 2012, p. 115.
[31]
H. Gardner, Sapere per comprendere,
Feltrinelli, Milano 2009, p. 52.
[32]
Nella poesia Il Cigno; C. Baudelaire,
I fiori del male, Fratelli Fabbri,
Milano 1970, p. 113.
[33]
H. Lefebvre, Il diritto alla città,
Ombre Corte, Verona 2014.
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