Il bisogno di giustizia nella città che cambia è il titolo del del convegno organizzato a Milano da Urbanpromo. Gli atti sono pubblicati nel sito di Planum. Di seguito si può leggere la mia relazione, in una versione ampliata e rielaborata.
Per preparare uno stato d'animo adatto alla nostra discussione
ascoltiamo un verso di Baudelaire dalla poesia Il Cigno:
La vecchia Parigi non è più;
la
forma di una città muta più rapidamente,
ahimè,
del cuore di un mortale.
In poche e semplici parole il verso esprime lo
sconcerto del poeta di fronte ai cantieri della modernizzazione di Haussmann.
Al di là del riferimento storico, emerge una tensione
più generale tra due dimensioni dell'urbano:
da un lato la logica di sistema che guida la
trasformazione e dall'altro la forma di vita costituita dai bisogni, dai sogni,
dalle relazioni tra le persone e di queste con i luoghi.
La prima è improntata a una razionalità
tecnico-economica, mentre la seconda è segnata dalla sensibilità e
dall'imprevedibilità del cuore di un
mortale.
In altre parole, nel verso si avverte una tensione tra
la potenza di trasformazione e la saggezza della vita.
Il primo grande poeta della modernità urbana, meglio di
qualsiasi saggista, ci parla di uno squilibrio tra il balzo in avanti della
potenza e il ritardo della saggezza che non riesce a tenere il passo. Dopo
quell'inizio travolgente la città industriale riuscì a colmare lo scarto e
gradualmente la potenza fu raggiunta dalla saggezza per merito del riformismo
urbanistico, della costruzione del Welfare e dell'ampliamento della democrazia.
Oggi, nella città postindustriale si ricrea lo scarto e
di nuovo la saggezza non riesce a stare al passo della potenza.
Anzi, questo è lo squilibrio che ricorre nelle grandi
questioni del nostro tempo:
tra lo sviluppo economico e la sostenibilità del
pianeta;
tra la globalizzazione delle merci e della finanza e il
respingimento in mare di bambini, donne e uomini;
tra l'innovazione tecnologica e la mancanza di lavoro,
ecc.
Questi grandi problemi sembrano astratti, irrisolvibili
e lontani dal nostro potere di intervento. Eppure, nella città essi mettono i
piedi per terra, entrano in contatto con la vita e suscitano le forze morali e
sociali per il cambiamento.
Prima di proseguire occorre un chiarimento sul
significato di saggezza. Essa rifiuta le scorciatoie, diffida
dell'illusione neoluddista che vuole risolvere ogni cosa bloccando la potenza,
non di meno critica le facili promesse delle magnifiche sorti e progressive.
La saggezza è l'intelligenza della vita che cerca
l'equilibrio con la potenza del sistema. Nella ricerca dell'equilibrio occorre
superare due difficoltà, una temporale e l'altra sociale.
In riferimento alla prima, la saggezza si forma nell'esperienza
e quindi si alimenta del passato, mentre la potenza, nei suoi balzi in avanti,
demolisce proprio le certezze consolidate. Da qui nasce lo scarto, poiché la
saggezza non riesce in pari tempo a rielaborare su basi nuove i saperi
dell'equilibrio.
Tutto ciò si vede meglio nella città, tanto che ormai è
perfino difficile definirla nella sua essenza, nonostante la ricchezza di
discipline e di saperi maturati nel secolo passato.
Di fronte al dilagare dello sprawl non sappiamo più dire neppure dove comincia e dove finisce.
Nel contempo le statistiche tanto gradite ai media annunciano che oltre la metà
della popolazione mondiale abita già in città e raggiungerà la percentuale di
80% nel 2050, secondo le previsioni più accreditate. Come ha osservato Neil
Brenner il vulnus di queste
statistiche consiste nel quantificare gli abitanti della città contemporanea
proprio mentre non si riesce più a delimitare il suo spazio.
Tutto diventa urbano, ma nulla è più propriamente urbano.
La vicenda della città assomiglia a quella della democrazia, la quale si è
estesa in tutto il mondo ma si è anche banalizzata e ha smarrito le risorse
rigenerative, risvegliando così gli spettri della demagogia e del totalitarismo
da cui sembrava essersi liberata per sempre.
La città industriale in cui Baudelaire aveva cantato il
disincanto del mortale, è stata
superata dalla potenza del nuovo mondo. Tutto sommato non è una perdita
negativa.
La vecchia industria aveva un rapporto strumentale con la
città, la usava come luogo di abitazione della forza lavoro e come centro di
consumo delle merci prodotte.
La civiltà della fabbrica non si è mai veramente
innamorata della vita urbana, anzi l'ha sfigurata con i suoi impianti, l'ha ammorbata con i suoi inquinamenti e le ha imposto i suoi modelli organizzativi, il
fordismo come paradigma delle amministrazioni, dei servizi e delle
infrastrutture, e perfino la gerarchia territoriale dello zoning del tutto isomorfa con la parcellizzazione professionale del
lavoro.
Da tutto ciò deriva quel senso di inadeguatezza che
avvertiamo tutti - amministratori, tecnici e cittadini - quando utilizziamo la
vecchia cassetta degli attrezzi delle politiche urbane.
E la causa profonda è da ricercare proprio nel mutamento
del paradigma produttivo imposto dalla potenza dei tempi nuovi. La produzione
non è più confinata nelle zone industriali, non è più separata dalla residenza
né dal consumo, anzi la città stessa diventa la fabbrica del lavoro immateriale.
La città è sempre più soggetto e oggetto della
conoscenza.
È soggetto nella misura in cui la sua fortuna oppure la
sua decadenza dipendono in gran parte dalla capacità o meno di aggregare
intelligenze, competenze e saperi.
È anche oggetto in quanto organismo complesso che deve
essere studiato, compreso e organizzato con saperi evoluti, interdipendenti e
generativi.
Il governo della città contemporanea diventa sempre più
un problema cognitivo.
E per questo la sovranità pubblica non può rimanere
chiusa nella dimensione normativa, sempre più incapace di regolare i processi,
ma deve ampliarsi nelle inedite dimensioni della conoscenza dei fenomeni. A
Barcellona la sindaca Colau ha chiamato una giovane ricercatrice italiana,
Francesca Bria, come assessore all'innovazione con l'obiettivo di affermare
addirittura la sovranità comunale nella gestione dei big data prodotti dai servizi pubblici e dai cittadini, in una
sfida cruciale contro i nuovi monopoli delle piattaforme digitali.
Negli anni Novanta ci siamo illusi che la nuova potenza
del mondo avrebbe risolto i vecchi problemi senza crearne di nuovi. Abbiamo
immaginato che vivere nella città della conoscenza fosse come camminare in un
prato raccogliendo i fiori delle nuove tecnologie.
Poi abbiamo scoperto il lato oscuro della
globalizzazione, gli imprevedibili conflitti e le emergenti diseguaglianze.
Ora è più chiaro che la crescita della conoscenza
aumenta la potenza della trasformazione, ma non alimenta nella stessa misura i
saperi della saggezza.
Anzi, per certi versi sembra di vivere nell'età
dell'ignoranza, se solo si volge lo sguardo alle nuove forme di irrazionalismo,
all'irragionevolezza di tante politiche pubbliche, alle leggende metropolitane
propagate nella rete, al riaffacciarsi di tecniche di manipolazione dell'opinione
pubblica perfino più inquietanti del passato.
Si accentua lo squilibrio cognitivo tra la crescita
della conoscenza e la messa a frutto dei suoi risultati. Ed esso interagisce
con l'altro lato oscuro della globalizzazione, cioè la crescita delle
diseguaglianze determinata dal capitalismo finanziario.
Come ha dimostrato una copiosa letteratura a partire
dagli studi di Saskia Sassen degli anni Novanta, la città si spacca tra la
parte abitata dai ceti che godono pienamente dell'apertura al mondo e il
margine fisico e cognitivo vissuto dai gruppi sociali esclusi dai vantaggi
della globalizzazione.
La vita popolare è inondata dagli effetti tecnologici
ma non è alimentata dall'apprendimento dei saperi che sarebbero necessari per vivere
e lavorare nel nuovo mondo. Essa avverte questa mancanza in termini di
insicurezza, di spaesamento e di solitudine e di conseguenza viene orientata dalle
agenzie politico-ideologiche che offrono la risposta del rancore, del
fondamentalismo e della xenofobia.
La diseguaglianza non è solo sociale ma diventa
cognitiva, come squilibrio tra chi utilizza e chi subisce la crescita della
conoscenza.
La città viene a rappresentare la distanza materiale e
simbolica tra ceti aperti alla globalizzazione e ceti popolari chiusi a difesa
delle nicchie territoriali.
I cittadini si dividono sui diversi modi di stare al
mondo.
È qualcosa di più della vecchia gerarchia
centro-periferia che in fin dei conti era determinata solo da carenze
infrastrutturali, di servizi e di reddito.
Ora, ai vecchi squilibri si aggiunge una frattura che
riguarda il carattere più profondo e originario della città: la relazione tra
apertura e contenimento.
Queste due forze hanno sempre interagito creativamente
nel formare lo spirito urbano. Non a caso l'archetipo più potente è costituito
dalle mura, che nella città antica definivano l'identità, ma si aprivano nelle
porte allo scambio delle merci, alla ricezione delle informazioni e
all'incontro con lo straniero.
Nella città postmoderna svanisce il confine e di
conseguenza si divaricano le due forze di apertura e contenimento: tra glamour dell'innovazione e precarietà
del lavoro, tra fantasmagoria della comunicazione e deprivazione culturale, tra
cittadini del mondo e poveri cristi attaccati al suolo.
Le mura non esistono più come architetture rassicuranti,
ma vengono introiettate e smaterializzate nell'organismo sociale, diventando
perfino più laceranti nelle varie forme di gentrification,
di vecchi e nuovi ghetti, di edge-cities,
di ossessioni securitarie nelle gated-communities,
fino al Truman-show del new-urbanism.
La diseguaglianza, quindi, non è solo sociale, non dipende
solo da carenze di servizi e infrastrutture, e neppure solo dalla dotazione di
conoscenza, ma viene alimentata dalla crisi di un carattere peculiare e
originario della città che riguarda il suo essere in relazione con il mondo e il
suo essere per se stessa un mondo.
Si comprende meglio, allora, perché torna di attualità
il bisogno di giustizia nella città che cambia.
A prima vista l'argomento della diseguaglianza può
sembrare aggiuntivo rispetto alla specificità disciplinare della regolazione
spaziale. E, invece, esso riguarda propriamente l'essenza dell'urbano, apertura
e contenimento, eschaton e katechon
La giustizia non è più solo un'azione redistributiva,
come veniva considerata, insieme a tante altre variabili, nella città
industriale.
Nella città postindustriale il bisogno di giustizia si
appella al carattere originario della vita urbana, come equilibrio tra potenza
e saggezza.
Paradossalmente nella postmodernità ritorna l'esigenza
di questa che è un'idea premoderna della giustizia, non più solo come insieme
di diritti tutelati dalla legge, ma come idea omnicomprensiva di armonia ed
equilibrio tra le parti.
Diremmo con parole moderne, come equilibrio tra logica
di sistema e forma di vita, tra potenza e saggezza.
È la Dike del Protagora
di Platone che avete messo in esergo all'invito del convegno. È la Dike che gli
Dei donano agli uomini perché siano capaci di utilizzare la potenza del fuoco
senza rimanerne soggiogati.
Così commenta il passo platonico, nella sua ultima
conferenza, Mario Vegetti, un maestro di filosofia recentemente scomparso, che
mi preme ricordare qui nella sua terra lombarda: "Non c'è polis senza un sistema di norme di
giustizia condivise, senza le istanze decisionali proprie della politica,
infine senza un'educazione pubblica intesa a consolidare i vincoli
comunitari".
Dopo la lunga divergenza occorre riconciliare la logica
di sistema e la forma di vita. Questa è la sfida che si presenta oggi nelle
politiche urbane.
Se il cambiamento è tanto profondo da mettere in
discussione i caratteri originari dell'urbano, le politiche pubbliche
dovrebbero essere originali, ambiziose. Eppure, oggi non sarebbero sufficienti
neppure buone politiche riformiste, come diceva stamane Rino Genovese. Magari
ci fossero, ma comunque avrebbero bisogno di alimentarsi di una nuova
generatività sociale. Ai tempi Rino partecipò al grande sciopero generale per
la casa, incredibile a pensarci oggi la più grande mobilitazione popolare avviò
alcuni elementi di riforma urbanistica. Oggi la generatività sociale agirebbe
in modo più capillare e sorgivo.
Quella stagione di riforma fu brevissima, solo un
decennio, mentre il altri paesi europei era cominciato nel dopoguerra. Neppure
il tempo di conquistare alcuni principi che venne alla fine degli anni settanta
la controffensiva liberista. I servizi sociali nella sanità, nella casa e nei
trasporti sono arrivati tardi e quindi si sono trovati ancora deboli e
impreparati, offrendo una breccia alla controffensiva. Abbiamo avuto il
paradosso di un welfare tardivo e un liberismo precoce.
Perciò le politiche urbane si trovano però in Italia in
un crinale difficile: debbono nel contempo recuperare i ritardi del passato e
cogliere le opportunità del futuro.
Nei trasporti si va concludendo il programma dell'Alta
Velocità, la più importante politica infrastrutturale italiana dell'ultimo
trentennio. Se si riduce a migliorare i tempi di percorrenza tra Roma e Milano
è ben poca cosa rispetto all'impegno profuso. Per utilizzare al meglio il
possente investimento pubblico occorre un altro programma, della stessa portata
finanziaria, volto a trasformare le vecchie ferrovie, che sono state liberate
dal traffico nazionale, per realizzare moderne reti regionali, come hanno fatto
i tedeschi e i francesi mezzo secolo prima con le S-Bahn e la RER. Si
realizzerebbero le reti infrastrutturali capaci di innervare la paccottiglia
edilizia dello sprawl, creando le
occasioni per riprogettare le Città Metropolitane.
Mentre si affronta il ritardo, però, incombono le sfide
di una vera e propria rivoluzione della mobilità urbana. Le tecnologie digitali
e i connessi nuovi stili di vita porteranno al superamento del mito
novecentesco dell'automobile in proprietà. Potranno nascere nuovi servizi di
mobilità che modificheranno radicalmente l'organizzazione urbana, come è
accaduto venti anni fa con la telefonia mobile.
L'abbandono della politica della casa ha lasciato i
ceti popolari in balia del gioco della rendita costringendoli a un disordinato
esodo negli hinterland. Con l'esplosione della bolla tutto si è fermato in
attesa di ricominciare come prima, mentre sarebbe l'occasione propizia per
attivare progetti e convenienze del tutto nuovi, ridisegnando la regia
pubblica.
Invece di dismettere patrimoni pubblici, proprio adesso
che valgono di meno sul mercato, sarebbe meglio utilizzarli per riportare le
residenze nella città consolidata: nella caserma dove i giovani passavano la naja potrebbero mettere su casa le
giovani coppie. Invece di aspettare che le rendite tornino ai livelli passati,
si potrebbero attivare capitali pazienti in grado di offrire canoni calmierati.
Gli immobiliaristi più lungimiranti cominciano a capire
che certi manufatti in zone degradate non hanno alcun valore e che possono
essere recuperati solo se si riattiva il metabolismo sociale e si apre il
quartiere alle culture giovanili.
Quando si dice rigenerazione
urbana stupisce sempre lo scarto semantico tra il significato impegnativo
di dare nuova vita e i poveri strumenti normativi e immobiliari con i quali si
intende cogliere l'obiettivo.
La rigenerazione è tale solo se attiva una produzione
sociale e culturale della città nuova. La partecipazione popolare non è
un'attività accessoria o peggio ancora un imbellettamento retorico, ma una via
essenziale per l'efficacia dei progetti.
La scuola è l'istituzione decisiva per la trasformazione
urbana. Perché la diseguaglianza è prima di tutto cognitiva.
In alcune borgate di Roma i livelli di istruzione sono
dieci volte inferiori rispetto a quelli dei quartieri centrali e da qui
discendono tutte le altre marginalità, di lavoro, di salute e dello spazio
pubblico.
Se vogliamo rigenerare la città abbiamo bisogno di
scuole aperte giorno e sera, non solo per istruire i bambini e i ragazzi, ma
per riportare anche gli adulti alla formazione permanente.
L'edificio scolastico dovrebbe diventare il centro
civico del quartiere, il laboratorio della trasformazione urbana, il luogo di
educazione alla cura dei beni comuni, di organizzazione dell'alternanza
scuola-lavoro, di relazione tra saperi tecnici ed esperienze vitali, di
diffusione della consapevolezza ecologica, di cooperazione tra le forze della
cittadinanza attiva, di libera espressione dei linguaggi giovanili. E tutto ciò
offrirebbe nuove opportunità alla stessa didattica, come dimostrano le
esperienze migliori.
Se vogliamo che "città della conoscenza" non
rimanga un'espressione retorica o una riedizione di un vecchio economicismo
o peggio ancora una mera illusione
tecnologica, deve qualificarsi come politica dell'apprendimento sociale. E solo
per questa via si può alimentare la saggezza, fino a condurla all'equilibrio
con la potenza nuova del nostro tempo.
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