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domenica 28 ottobre 2018

A proposito del referendum sui trasporti romani

Molti amici mi segnalano la difficoltà di farsi un'idea dei temi sollevati dal referendum sui trasporti romani. In effetti il dibattito pubblico è reso difficile dalla complessità tecnica della questione e dagli slogan più frequenti che la complicano ulteriormente volendola semplificare. Inoltre, la giunta Raggi, venendo meno a un preciso obbligo di legge, ha fatto mancare ai cittadini le informazioni di base sull'argomento.
Nel tentativo di illustrare le scelte in campo ho scritto testi di diversa lunghezza e complessità per venire incontro alle differenziate esigenze di chiarimento. Sostengo apertamente il Si al referendum perché ritengo che sia la scelta migliore per scongiurare la privatizzazione. Sembra un paradosso solo perché gli slogan hanno creato gravi fraintendimenti.
Pur partendo da una determinata presa di posizione ho cercato comunque di rappresentare il merito del problema e le diverse soluzioni. Spero quindi che la lettura possa essere di qualche utilità anche per chi farà una scelta diversa dalla mia. In ogni caso mi farà piacere ricevere eventuali critiche e osservazioni.

1. Testo breve pubblicato sul sito Strisciarossa

2. Testo medio pubblicato su Internazionale

3. Testo lungo e di una certa complessità tecnica che ho pubblicato su questo blog nel mese di aprile.

Il testo che consiglio di leggere è quello pubblicato su Internazionale, perché è il più completo: contiene infatti le risposte a dubbi e osservazioni che ho ricevuto durante la tante assemblee svolte nei quartieri di Roma; e spiega anche il secondo quesito di cui si è parlato ben poco.

Il testo lungo entra nei dettagli tecnici delle gare e tratta diffusamente della procedura fallimentare in concordato che investe oggi l'Atac

Chi vuole invece una sintesi di una paginetta può leggere il testo che segue:

giovedì 25 ottobre 2018

Solo un'irruzione democratica può salvare il PD

Di seguito si può leggere un capitolo del saggio pubblicato sulla rivista "Appunti di cultura e politica" (n. 4 del 2018), fondata da Pietro Scoppola. 


Gli elettori democratici, anche quelli temporaneamente autosospesi, sono sconcertati per la mancanza di uno strumento politico adeguato a fronteggiare la più marcata svolta a destra della storia repubblicana..

Qui si misura lo scarto: ci sarebbe bisogno di un PD capace di produrre grande politica, ma ci ritroviamo un'organizzazione debole, confusa e isolata. Ci vuole realismo nel descrivere l'esito del decennio: volevamo costruire il partito degli elettori e ci ritroviamo quello degli eletti, volevamo ripensare una grande forza popolare e ci ritroviamo le cordate dei notabili, volevamo creare uno strumento di partecipazione alla vita politica e ci ritroviamo una casamatta con le porte chiuse.

venerdì 7 settembre 2018

Per la cittadinanza onoraria a Mario Tronti

Pubblico di seguito il discorso che ho pronunciato davanti al Consiglio comunale e alla cittadinanza di Ferentillo in occasione del conferimento della cittadinanza onoraria a Mario Tronti, il 3 settembre 2018. 


Grazie per la cittadinanza onoraria a Mario Tronti. La gratitudine al Sindaco e al Consiglio Comunale non è solo dell'interessato, è di tutti noi. Sono un forestiero e immagino sia prima di tutto un motivo di orgoglio per la cittadinanza di Ferentillo. Un ringraziamento caloroso viene dagli amici, dai compagni, da chi studia la sua opera.

A noi amici, però, sembra dissonante l'appellativo "cittadino onorario". Perché Mario non ha mai cercato onori, non ha mai celebrato se stesso, non si è mai messo in prima fila, ma è una persona schiva, austera, mite. Approfondiamo, dunque, il significato di queste due parole: "cittadino" e "onorario". Scovare i significati reconditi delle parole è uno dei suoi insegnamenti peculiari.

Che significa "onorario" per Tronti? Cerchiamone il senso nella Costituzione della Repubblica, dove la parola in forma di sostantivo appare una sola volta, nell'articolo 54: "i cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina e onore". È un articolo quasi dimenticato, ma dice tutto sui politici attuali, così diversi tra coloro che di quella parola fanno la propria linea di condotta - gran parte dei sindaci, come il vostro Paolo Silveri, che rispondono sempre ai cittadini - e altri politici che, invece, offendono tutti i giorni la funzione pubblica.

Nell'accezione costituzionale l'onore indica la responsabilità di fronte al popolo. Con l'appellativo di "onorario", quindi, si riconosce Tronti come una persona che ha servito con dignità le istituzioni della Repubblica.

venerdì 25 maggio 2018

Il Termidoro del tecnocapitalismo


Il mio saggio "Il Termidoro del tecnocapitalismo" fa parte di un nuovo ebook rilasciato dalla Fondazione Basso sul tema della riformabilità del capitalismo, che potete scaricare qui. Pubblico di seguito parte del mio saggio, che è disponibile online e per il download nella sua interezza anche a questo indirizzo.

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Da tempo ci poniamo la domanda “quando finisce la crisi?”. Ora i dati del Pil sembrano autorizzare un cauto ottimismo, ma alimentano anche l'illusione di un classico ciclo economico con le sue discese e le sue risalite. Siamo invece di fronte a una Grande Crisi da intendere non già nel linguaggio degli economisti, ma in quello della scienza politica. In questi anni l'affanno della crescita e l'impoverimento di ampi settori sociali sono stati gli epifenomeni di un mutamento più profondo degli assetti di potere nella dimensione geopolitica, nelle relazioni sociali e perfino nelle forme istituzionali. Nella parola crisi occorre espungere il significato meramente ciclico e riscoprire il senso più ricco anche etimologicamente di trasformazione.

Nell'esplosione della bolla finanziaria dei subprime si è esaurita la spinta rivoluzionaria del liberismo iniziata nella crisi degli anni ‘70. Siamo entrati nella fase del Termidoro del turbocapitalismo. La freccia del quarantennio parte da un’esigenza libertaria e approda a un surplus di controllo nel governo dei processi. C’è quindi una tensione forte, irrisolta, tra libertà e controllo, e più in generale tra ordine e disordine; è l’instabilità di cui parlava stamane Giacomo Marramao.

Come sempre la fase termidoriana capovolge la promessa rivoluzionaria. Doveva essere il trionfo dell’Occidente, mentre la crisi ne certifica la perdita di primato, e in particolar modo quello dell’Europa. Doveva essere il trionfo dell’individuo che afferra il futuro nelle proprie mani e invece domina l’incertezza se non l'impossibilità, soprattutto per i giovani, di immaginare un progetto di vita. La precarietà è la condizione esistenziale dell’epoca. Doveva essere l’esportazione della democrazia e invece per la prima volta dopo tanto tempo il capitalismo sembra poterne fare a meno, sia nei livelli alti della crescita con il modello autoritario cinese e sia nella stagnazione europea accompagnata da una crisi del costituzionalismo. Il professor Guarino ha parlato di un colpo di stato; forse è esagerato, ma il Fiscal Compact è un accordo tra Stati che prescinde dall'istituzione dell'Unione Europea. Solo adesso ci si pone il problema di porre fine allo stato di eccezione, assorbendo il trattato nelle regole ordinarie. Anche nelle dimensioni nazionali si evidenzia una tendenza a forzare gli assetti costituzionali in senso antiparlamentare.

Il ribaltamento delle promesse rivoluzionarie riguarda anche la forma politica per eccellenza cioè la sovranità della legge. L’impeto rivoluzionario di quaranta anni fa si manifestò sotto la bandiera della deregulation, e rivelò uno spirito quasi anarchico nel contestare il principio legislativo, non solo in termini giuridici, non solo come regolazione pubblica, ma più profondamente come struttura cognitiva di comprensione della realtà. Il liberismo è stato una rivoluzione intellettuale non a caso covata per tanti anni nei think tank anglosassoni, prima in assoluto isolamento e poi via via con una straordinaria capacità di influenzare il senso comune. Il ripudio della ragione legislativa ha riguardato non solo i rapporti economici e le relazioni sociali, ma ha investito tutti i campi della conoscenza e la forma stessa della razionalità. È stato l'assalto a uno dei castelli della modernità, all'idea della sovranità come si era configurata dall'età barocca in avanti.


sabato 5 maggio 2018

Il futuro della mobilità urbana


Pubblico oggi il mio contributo al libro Green Mobility - Come cambiare la città e la vita, curato da Andrea Poggio per Legambiente. Si tratta di una raccolta di esperienze e progetti che rendono credibile un nuovo scenario per la mobilità urbana nei prossimi anni.

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Ai giovani assessori mi sento di dire: siate ottimisti, perché in futuro sarà più facile governare la mobilità urbana. Gli assessori del secolo scorso erano invece pessimisti, fiaccati dalla resistenza dell'uso proprietario dell'automobile. È stato il mito che ha plasmato l'immaginario collettivo, il paesaggio urbano, la produzione industriale. I giovani guardano ormai con ironia all'ossessione dei genitori per lo status symbol delle quattro ruote.

La convergenza tra i nuovi stili di vita e le tecnologie della condivisione rende possibile aggregare la domanda, cioè mettere in relazione in tempo reale le persone che si muovono nella medesima direzione. Era un problema un tempo irrisolvibile, che costringeva a irrigidire l’offerta pubblica nelle forme estreme: la modalità esclusivamente individuale del taxi oppure le linee predefinite del trasporto collettivo. L’ampia fascia intermedia veniva lasciata all’automobile privata, mentre oggi offre grandi potenzialità di crescita per forme di trasporto in condivisione. I nuovi servizi possono raggiungere quote di spostamenti fino a due cifre, prossime a quelle del trasporto pubblico e insieme superiori a quelle dell’automobile privata.

Per il salto di scala servono nuovi imprenditori che gestiscano sistemi di mobilità piuttosto che singoli segmenti di trasporto, che coinvolgano gli utenti attraverso tecnologie collaborative e marketing sociale. C'è chi ha cercato di sfruttare l’innovazione per coartare i diritti del lavoro, sotto forma di prestazioni occasionali e non tutelate, ma non è una scelta obbligata dalla tecnologia, come si vuole far credere. Con i “lavoretti di ripiego” non si modificano i grandi numeri della mobilità; occorrono imprese capaci di rispettare i contratti e la qualità del lavoro.

Due esempi da seguire: il superamento del monopolio telefonico ha creato spazio per le imprese della telefonia mobile, e gli incentivi fiscali hanno promosso le filiere produttive delle energie rinnovabili. Nel nostro caso, purtroppo, il Parlamento ha perso dieci anni a legiferare sulla sciocca guerra tra i taxi e il noleggio. Occorre invece una ambiziosa politica nazionale che superi gli attuali monopoli per creare un moderno mercato della mobilità urbana, con regole semplici e obiettivi di benessere sociale e ambientale. Se c'è una strategia chiara, si troveranno poi le gradualità per aiutare gli attuali operatori pubblici a partecipare all’innovazione. I tassisti hanno una preziosa esperienza del servizio a domanda che può essere riconvertita nel trasporto in condivisione. Le aziende pubbliche possono ristrutturare le reti gestendo le linee deboli mediante servizi a domanda - con le attuali tariffe per garantire l'accessibilità anche nelle periferie più lontane - ottenendo cospicui risparmi da reinvestire nelle infrastrutture. Soprattutto, la politica nazionale deve sostenere le esperienze innovative delle città - car-sharing, bike-sharing, car-pooling, mobility manager - al fine di coltivare l'humus favorevole ai nuovi stili di vita e al superamento del mito automobilistico.

Nella transizione diventa possibile volgere in positivo anche i difetti del passato: la mattina sugli autobus mi capita di ascoltare discussioni tra gli utenti sulle linee da prendere, sulle frequenze e sulla regolarità, e perfino sulla gestione dei turni degli autisti. Nelle altre città europee i passeggeri leggono il giornale senza preoccuparsi dei turni; da noi, si devono ingegnare per resistere alle inefficienze. È maturata così una competenza sociale del trasporto. Forse ne avremmo fatto volentieri a meno, ma ci sarà utilissima nell'avvento della nuova mobilità urbana.



mercoledì 2 maggio 2018

PD, M5S e le intese impossibili


In previsione della riunione della direzione del PD di domani, pubblico qui il mio punto di vista sui possibili scenari di governo condiviso tra i due partiti. L'articolo è stato pubblicato sul Fatto Quotidiano di Martedì 1 Maggio.

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Ha fatto bene Martina a proporre una trattativa con i 5Stelle impegnandosi a sottoporre i risultati al referendum tra gli elettori del Pd. In un sistema proporzionale nessun partito è collocato automaticamente all'opposizione. La Spd si era presentata agli elettori dicendo “mai più” al governo con la Merkel, ma dopo la sconfitta l'esigenza di dare un governo al Paese ha riaperto la trattativa. I cui risultati hanno ottenuto la maggioranza nel referendum tra gli iscritti socialdemocratici.

Una parte del PD, invece, vorrebbe stabilire una pregiudiziale assoluta contro i 5Stelle, pur non avendo mai fatto lo stesso verso Forza Italia. I dirigenti che oggi sollecitano la rivolta della base contro l'ipotesi di accordo con Di Maio sono gli stessi che non hanno mai sentito l'esigenza di ascoltare gli iscritti prima di stipulare con Berlusconi accordi di governo, patti del Nazareno e sostegni informali nelle votazioni critiche al Senato.


Perché tale diversità di trattamento? Il programma di governo dei 5Stelle non è più distante dal PD di quanto non lo sia quello della destra. L'affidabilità di Di Maio è un'incognita, ma è un fatto che tutti i leader della sinistra - D'Alema, Veltroni, Bersani e Renzi - abbiano provato a fare accordi con il Cavaliere rimanendo sempre con il cerino in mano. Infine, il berlusconismo non è stato solo un fenomeno politico: per un quarto di secolo il suo leader, dai vertici delle istituzioni, ha incoraggiato la gente a non rispettare le leggi, a far vincere l'egoismo contro il bene comune, a trattare le donne come una merce. Di questi veleni iniettati nel corpo sociale ancora si sentono le conseguenze.

All'inizio di questo decennio, però, il fenomeno ha perso la sua spinta sotto i colpi della crisi economica. Il PD ebbe la possibilità di batterlo in campo aperto, ma evitò la competizione elettorale per andarsi a impantanare nel governo Monti, creando le condizioni per il trionfo di Grillo. Il sistema politico è diventato tripolare perché il bipolarismo non ha fornito l'alternativa. Da quasi dieci anni siamo costretti alle larghe intese perché il PD non ha assolto il compito fondativo, cioè costruire l'alternativa al berlusconismo. Ciò non significa che il movimento 5Stelle sia una costola della sinistra; è piuttosto una forza di centro che esprime l'inedita radicalizzazione di questo luogo politico pur decisivo per l'equilibrio del sistema. I democratici e i pentastellati sono quindi molto diversi e tuttavia connessi: sono insieme la causa e l'effetto del fallimento del breve bipolarismo italiano.

Questo intreccio rende molto difficile ma anche suggestivo il confronto. In un certo senso, avrebbero bisogno l'uno dell'altro. Il nuovo corso dei 5Stelle, di responsabilità europea e di credibilità di governo, sarebbe corroborato dall'intesa col PD, il quale di rimando avrebbe l'occasione per ripensare le sue politiche migliori, domandandosi perché non abbiano ottenuto il consenso popolare.

Il reddito di inclusione si poteva approvare due anni prima - nella versione del governo Letta, senza dover ricominciare daccapo in nome dell'ossessione renziana per l’anno zero - e soprattutto sostenendo tutte le persone aventi diritto, utilizzando i soldi che sono stati sprecati per togliere l'Imu ai più ricchi. Il PD si sarebbe presentato alle elezioni con il risultato storico della lotta alla povertà, e avrebbe svuotato la propaganda 5Stelle che parlava di reddito di cittadinanza pur avendo scritto un disegno di legge più simile al reddito di inclusione.

Bene ha fatto Renzi a lottare in Europa per ampliare i margini di manovra del bilancio. Peccato che abbia poi speso decine di miliardi per incentivi alle imprese illudendosi che avrebbero creato lavoro stabile, ripetendo lo stesso errore del famoso cuneo fiscale di Prodi. I nuovi posti di lavoro, sempre più precari, sono venuti dalle politiche europee di Draghi. Invece di sprecare soldi per incentivi si potevano rilanciare gli investimenti nell'ambiente, nella scuola, nella ricerca scientifica, nella sanità, nei trasporti. Sarebbe aumentata molto di più l'occupazione e ne avrebbe avuto un grande beneficio la produttività del sistema paese.

lunedì 16 aprile 2018

La crisi dell'Atac, le scelte sbagliate e le soluzioni possibili


Quello che pubblico oggi è un lungo saggio sulla crisi dell'Atac, l'azienda dei traporti di Roma. L'ho scritto nel tentativo di approfondire le cause e i possibili rimedi di una crisi che dura da tanto, troppo tempo. Due sono i fattori da cui prende le mosse il testo. Il primo è che l'avvio della procedura fallimentare dell'azienda ha già mostrato quali siano i gravi rischi per i lavoratori e per i cittadini. Qui si propone una strada alternativa per mettere in sicurezza l'azienda e riformarla radicalmente. Il secondo fattore è l'indizione per il prossimo 3 giugno del referendum consultivo sul ricorso alla concorrenza, che aprirà un dibattito popolare e sarà certamente un bene per la politica del trasporto. Ci sarà però anche il rischio di una mera contrapposizione ideologica tra pubblico e privato, mentre è fondamentale entrare nel merito delle scelte per valutarne i vantaggi collettivi. Qui si propone una via contro la privatizzazione selvaggia e a favore di una liberalizzazione che migliori l'efficienza mediante le gare europee e mantenga saldamente in mano pubblica il servizio.

Nel tentativo di chiarire le diverse opzioni il testo si è dovuto misurare con il linguaggio tecnico, in un difficile equilibrio tra rigore analitico e immediata comprensibilità. Comunque, ho incluso un riassunto iniziale che indica gli argomenti fondamentali del saggio.


Potete leggere e scaricare il saggio La crisi dell'Atac, le scelte sbagliate e le soluzioni possibili a questo indirizzo.

mercoledì 11 aprile 2018

Vedere e pensare la città


Pubblico oggi la mia prefazione al libro del giovane amico Michele Grimaldi, La macchia urbana - la vittoria della disuguaglianza, la speranza dei commons

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Questo libro è da leggere, conservare e diffondere.

Da leggere come un romanzo di viaggio nelle città. Un viaggio nel tempo, dalle misteriose origini fino agli esiti contemporanei, e nello spazio globale, inseguendo le invarianti e le differenze nei diversi continenti.

Da conservare, poiché al lettore non mancherà l'occasione di riprenderlo in mano per approfondire un caso di città o uno dei tanti pensatori che l'autore chiama a testimoniare. Utile per chi voglia farsi un'idea della letteratura critica che sull'asse interpretativo di Lefebvre, Berman e Harvey ha saputo connettere i processi strutturali, le trasformazioni sociali e i codici dell'immaginario urbano.

Da diffondere perché, dietro il rigore dell'analisi, prorompe un pensiero militante desideroso di affiancare i movimenti popolari e di contribuire alla ripresa di una politica democratica della città. Per le tante battaglie comuni, non ci sarebbe bisogno di chiarire con Michele il significato che attribuisco alla parola "militante", ma forse è bene evitare fraintendimenti con il lettore. Non gli attribuisco significato ideologico né meramente attivistico; piuttosto lo trovo un urlare in faccia al conformismo del nostro tempo un orgoglioso "non mi avrai". Significa rimanere in piedi senza farsi travolgere dal vento delle ideologie dominanti e andare alla ricerca delle faglie che sprigionano le promesse mancate della democrazia.

Il libro è prima di tutto un appassionato esercizio di critica del fenomeno urbano. In queste pagine il fare teoria della città riscopre la radice originaria del theorein - etimologicamente il vedere la città - che però non è un'attività ingenua o passiva, quanto una lotta per squarciare i paraventi del mainstream, per conquistare uno sguardo sapiente sulle strutture del potere, e per lasciarsi incantare dalla molteplicità della vita urbana. Michele ci offre un rischiaramento della questione, un Aufklärung post-illuministico, non solo oltre il sonno della ragione, ma per un risveglio della vita cittadina.


sabato 7 aprile 2018

Che ne facciamo del PD?

Intervento all'assemblea promossa da Peppe Provenzano al centro congressi Cavour di Roma, il 7 aprile 2018, dal titolo Sinistra Anno Zero.

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Quando si perde bisogna riuscire a guardare con amicizia al Paese. Per capire i fenomeni profondi del terremoto elettorale. I nostri avversari hanno saputo utilizzarli a loro favore. Noi li abbiamo sentiti ostili e siamo stati sconfitti. Raniero La Valle si domanda se quei fenomeni possano ottenere un'inedita risposta di sinistra. Oggi bisogna leggere i novantenni per scorgere il futuro. Poco fa abbiamo ascoltato anche il lucido discorso di Emanuele Macaluso.

Nel voto si è fatto sentire un grido antioligarchico: la politica è di tutti. È ritenuto un populismo da chi comanda, ma è avvertito come un principio democratico da chi non ha né poteri né diritti, soprattutto i giovani in cerca di lavoro. Si è espressa una buona partecipazione elettorale e nel Mezzogiorno per la prima volta il voto si è liberato dall'oppressione dei notabili di destra e di sinistra.

È cambiata l'agenda di governo. Sono scomparsi i temi che hanno tenuto banco nei decenni passati: le riforme istituzionali, la retorica del "ce lo chiede l'Europa", l'eterna illusione di creare lavoro impoverendo i diritti. Sono emersi i problemi più sentiti dai ceti popolari: le povertà e i privilegi, i giovani che se ne vanno e i migranti che vengono, ciò che chiede e ciò che offre lo Stato.

È stata rifiutata la classe politica dell'ultimo decennio: Berlusconi e Monti, i cui elettori hanno votato per i 5Stelle, ma anche i nuovi dirigenti del PD e la vecchia generazione postcomunista. Non si può dire che mancassero le ragioni: è stato un decennio di stagnazione politica, che ha bruciato tante illusioni, senza preparare progetti credibili per l'avvenire.
Nuove domande, quindi, hanno mobilitato gli elettori: la politica di tutti, le riforme popolari, la credibilità della classe politica. Almeno in teoria, erano esigenze coerenti con il compito, starei per dire con l'ideologia, di un partito autenticamente democratico.

giovedì 25 gennaio 2018

In memoria di Tullio De Mauro. La lingua e le lingue nella Costituzione.



In memoria di Tullio De Mauro, a un anno dalla scomparsa, si è tenuto oggi in Senato un convegno di studio su "I diritti linguistici nella Costituzione". Di seguito potete leggere il mio intervento introduttivo, mentre a questo indirizzo trovate il video dell'intero evento.

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È passato un anno senza Tullio De Mauro. Quanto ci manca? Come ci manca? È sempre presente nel ricordo l'opera intellettuale, l'impegno civile e la generosa umanità. Il suo insegnamento consegna alla nostra responsabilità il cercare ancora nuove vie di pensiero e di azione.
Così, ci è sembrato appropriato ricordarlo in questo convegno che riprende punti essenziali della sua attività: la lingua, la Costituzione e la scuola qui rappresentata dagli studenti del liceo Augusto, che saluto e ringrazio per la presenza.

Nella prima sessione sono previsti tre contributi. In primis, abbiamo l'onore della prolusione del prof. Sabino Cassese, giudice emerito della Corte Costituzionale e maestro della scienza dello Stato per diverse generazioni di studiosi, di amministratori e di cittadini.
Poi Giuseppe Bagni, presidente del CIDI, protagonista nell'autentica riforma, quella che viene dall'esperienza riflessiva di chi opera nel mondo della scuola. Infine, il contributo degli studenti visibile nella Rassegna dei progetti vincitori del Premio "A scuola di Costituzione".

Questa sessione ha un titolo apparentemente semplice ma denso di questioni: "La lingua e le lingue nella Costituzione". Nella congiunzione del singolare e del plurale si avverte la tensione tra la funzione e la natura della lingua: nell'uso assicura l'unità tra i parlanti, ma in sé alimenta l'infinita differenza degli idiomi nella storia e nella geografia. De Mauro ci ha insegnato a scrutare questo doppio movimento - l'aspirazione all'unità e il riconoscimento della molteplicità - che ritroviamo anche nella Costituzione, nella stessa forma ma con significato diverso. La legge fondamentale promuove l'eguaglianza nella società e garantisce la differenza nella libertà. La Carta è il discorso tra i cittadini e la Repubblica, è la lingua giuridica che consente a persone diverse di riconoscersi e di realizzare opere comuni. Nel titolo della nostra sessione, quindi, sono preziose proprio le parole più piccole e meno appariscenti: la e congiunge singolare e plurale della lingua, mentre la preposizione nella ci svela che tra lingua e Costituzione esiste un'intima relazione, il cui significato dipende in gran parte dal ruolo che in essa svolge la lingua.