martedì 10 maggio 2016

La rete e il castello, parte I - La libertà della ricerca

Di seguito la prima parte di La rete e il castello, mio saggio in tre puntate sullo stato attuale di università e ricerca in Italia, tra tagli ai finanziamenti e imposizioni dall'alto. La prima parte si concentra sulle difficoltà della ricerca. La seconda parte la trovate qui, mentre la terza verrà pubblicata più avanti.

La ricerca libera è indebolita in Italia. Le risorse sono assegnate dal principe ai conti e ai vassalli che le distribuiscono ai sudditi. il castello si erge sopra la rete scientifica. 
Le cifre parlano chiaro. Il finanziamento in corso dei bandi di ricerca per tutti gli atenei e per l’insieme delle discipline accademiche è ridotto a 30 milioni di euro l’anno. Ma non si dica più che il debito non consente di fare meglio, perché i soldi ci sono quando si tratta di evitare i bandi. Sei volte tanto, oltre 180 milioni di euro (100 ordinari e 80 per il progetto Human Technopole) sono assegnati a un solo ente, la Fondazione IIT, che poi distribuisce finanziamenti agli atenei e ottiene in cambio la firma sulle pubblicazioni scientifiche, migliorando immeritatamente il suo ranking. I rettori hanno smesso di denunciare i privilegi della Fondazione da quando hanno ricevuto le commesse di ricerca. D'altro canto, università ed enti sono costretti ad andare col cappello in mano perché indeboliti dai tagli, dai vincoli del turn over e dall'alluvione burocratica che soffoca le energie vitali. Invece, l'IIT ha potuto assumere senza limiti, derogare alle procedure pubbliche e tenere in banca circa 400 milioni di euro che non riesce ancora a spendere. Gli “economisti di palazzo” cantano le lodi di questa curiosa competizione tra un giocatore legato e l'altro dopato, sentenziando che il pubblico non funziona ed è meglio affidare tutta la ricerca alla Fondazione. È un'operazione ideologica e di potere. Si va imponendo un sistema di regolazione della ricerca mai visto prima in Italia. Vale la pena allora studiarne meglio i caratteri.


venerdì 6 maggio 2016

Il senso di una tutela: in difesa dell'articolo 9


“La Repubblica tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Che bella prosa costituzionale! L’articolo 9 dice l’essenziale con poche parole semplici e solenni. La frase si regge sul verbo “tutelare”, così pregno di civiltà storica e di responsabilità per l’avvenire. Eppure è un verbo mortificato dalle recenti iniziative governative che lo considerano ormai apertamente un ostacolo alla valorizzazione. Anche questa viene malintesa nelle ossessioni mediatiche e nell’economicismo da straccivendoli. Ancora viene propinata l’illusione di fare i soldi con il merchandising e i cocktail nei musei. Per correre dietro ai miti correnti si mette a rischio l’eredità culturale del Paese.


E si perde perfino l’occasione di creare una ricca economia dei beni culturali che può fondarsi invece proprio sulla tutela e il restauro. In queste attività è esplosa la domanda mondiale in seguito ai formidabili investimenti messi in campo dai grandi paesi emergenti, dall’Asia all’America Latina. C’è una richiesta crescente di formazione e di servizi qualificati nella cura del patrimonio. Se l’Italia sapesse organizzare un’offerta di alto livello avrebbe il vantaggio competitivo del brand che viene dalla sua storia. È studiato in tutto il mondo il “metodo italiano” dell’archeologia, dell’archivistica, del restauro e della storia dell’arte, formatosi nell’insegnamento dei Bianchi Bandinelli, Brandi, Longhi e Argan. Per cogliere l’opportunità che viene dal mondo bisogna organizzare prestigiose scuole internazionali sulla tutela e il restauro, e promuovere nuove imprese capaci di esportare il nostro sapere dell’antico. Anche per questo bisogna salvare i giovani dal precariato selvaggio che in questi anni si è diffuso nel settore pubblico e in quello privato fino a forme di intollerabile sfruttamento. Una ricca economia dei beni culturali cresce solo se nel rispetto della dignità e della qualità del lavoro. E soprattutto se si inverte la tendenza attuale rilanciando gli investimenti sul patrimonio culturale, secondo una programmazione di lungo periodo, uscendo dall’improvvisazione mediatica.