mercoledì 26 marzo 2014

Servire, non servirsi


Articolo pubblicato su L'Unità del 26 Marzo 2014.

Il nesso tra legge elettorale e nuovo Senato è discusso con preoccupante superficialità. Se ne fa una questione di calendario, senza badare alla sostanza. L'Italicum consente a una minoranza sostenuta dal 20% degli aventi diritto al voto di arrivare al governo, potendo contare su deputati non scelti dagli elettori e non avendo risolto il conflitto di interessi, con la strada aperta al Quirinale e a modifiche più gravi della Costituzione. 
Si tratta di un worst case scenario, certo, che potrebbe diventare un presidenzialismo selvaggio senza bilanciamenti se si indebolisse anche la funzione politica del Senato facendone il dopolavoro degli amministratori locali. Il capo del governo non avrebbe difficoltà a concedere qualcosa agli interessi locali per ottenere il consenso dei nuovi senatori non eletti direttamente dal popolo e quindi sprovvisti delle garanzie dell'articolo 67 della Carta. Non avrebbero, infatti, la libertà di mandato e non rappresenterebbero la nazione intera, poiché sarebbero obbligati all'indirizzo di governo dell'Ente di provenienza, come ammette in parte il testo del governo.

Se si insiste con l’Italicum – si spera con qualche miglioramento - ci serve un forte Senato delle garanzie che, in regime bicamerale, si occupi di alta legislazione, della Costituzione, dei Codici dei diritti fondamentali, dell'ordinamento istituzionale e del controllo dell'attività statale. Funzioni tanto delicate richiedono l'elezione da parte dei cittadini con un’apposita legge elettorale non finalizzata alla governabilità, perché in questa assemblea mancherebbe il voto di fiducia; sarebbero inoltre dimezzati il numero di senatori e le rispettive indennità. Si passerebbe dal bicameralismo perfetto al bicameralismo delle garanzie con una chiara distinzione di compiti, alla Camera il governo del Paese e al Senato l'attuazione dei principi costituzionali.

venerdì 21 marzo 2014

L’eredità di Berlinguer


Ieri sono stato a vedere Quando c'era Berlinguer, film diretto da Veltroni. Per me è stata un'occasione per ricordare, riflettere e anche un po' commuoversi. Al tempo stesso non dobbiamo esagerare con la nostalgia; fare onore alla grande personalità politica di Berlinguer vuol dire anche compiere un'analisi critica della sua opera. Ho provato a farlo nel mio libro, Sulle orme del gambero, nel contesto di una riflessione di lungo periodo sul Pci e sui limiti della mia generazione. Colgo l'occasione per proporvi di seguito un brano del libro (p.50) dedicato a Enrico.

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Mi è capitato di perdere il saluto di cari compagni, solo perché a una festa dell’Unità ho accennato a un’analisi critica dell’opera di Berlinguer. La riprendo qui, cercando di capire perché nei primi dieci anni dopo la morte fu dimenticato e poi via via è cresciuto un ricordo sempre più struggente. Il suo mondo non esiste più, ma la figura si ingigantisce. C’è una pienezza di Berlinguer che trabocca il suo tempo e arriva a noi e ci rinfresca. C’è una penuria nostra che spinge a ricordare, a fare esodo dal nostro tempo, come il nomade che cerca l’acqua nel deserto. È lui che viene a noi o siamo noi che andiamo verso di lui? 

Nel suo stile c’era qualcosa che andava oltre, come nella famosa intervista di Minoli in cui confessa quanto lo disturbi lo stereotipo di uomo triste e nel dirlo prorompe in un sorriso timido e imprevisto, l’immagine più cara che conservano quelli della mia generazione. Nessun altro leader ha suscitato sentimenti tanto delicati.


venerdì 14 marzo 2014

Vita politica e robotica istituzionale


Tramite le astensioni e i voti per Grillo, la metà del popolo italiano ha manifestato il suo disprezzo nei confronti del sistema politico. Eppure la legge elettorale appena approvata alla Camera non solo trascura questa grave frattura, ma addirittura la allarga. 

Per compensare i voti mancanti, ricorre infatti a curvature maggioritarie che deformano la rappresentanza fino ai limiti della legittimità costituzionale, e alla lunga riducono ulteriormente il consenso verso il sistema politico. Le soglie del 4,5% e dell'8% possono impedire la rappresentanza parlamentare a 5-10 milioni di elettori pur disposti – ancora - a votare per i partiti. Oppure, proprio perché sono soglie molto alte, possono dissuadere la presentazione di liste che otterrebbero milioni di voti. In entrambi i casi il sistema prescelto peggiora le cose perché riduce la parte attiva degli elettori, accrescendo invece quella del rifiuto anche oltre il 50%. 
Una democrazia più che dimezzata è esposta agli assalti dei suoi nemici. La maggioranza assoluta viene regalata alla coalizione che arriva al 37% utilizzando anche i voti di piccoli partiti non rappresentati in Parlamento. Il partito principale potrà vincere con una percentuale ancora più bassa, ad esempio del 25%. Tenendo conto dei non votanti, stiamo parlando di meno del 20% del corpo elettorale effettivo.


giovedì 6 marzo 2014

Se Roma fosse una Regione


Articolo pubblicato sul quotidiano L'Unità del 6 Marzo 2014. 
È capitale la crisi della capitale. La reputazione di Roma si è consumata, le istituzioni sono state commissariate e la cittadinanza è rimasta attonita. Un decreto che mette una pezza sui conti serve a poco se manca un progetto per il futuro. Occorre una scossa, una coraggiosa riforma.
Il punto di partenza sarebbe l’eliminazione del Comune di Roma. Alemanno ne ha demolito le strutture portanti mentre all’esterno sostituiva le insegne con quelle di Roma Capitale. Ma già da tempo l’amministrazione capitolina è obsoleta, perché troppo grande e insieme troppo piccola. È troppo grande per il governo di prossimità dei servizi ai cittadini e della vita di quartiere, ed è troppo piccola per il governo dei processi ormai dilagati a scala regionale, nella demografia, nell'economia, nei trasporti, nell'ambiente e nell'urbanistica. La dimensione locale dovrebbe essere affidata agli attuali Municipi, trasformandoli in Comuni in grado di rispondere direttamente ai cittadini senza perdersi in rimpalli di competenze. L’area più vasta dovrebbe essere governata esclusivamente dalla Città Metropolitana, cancellando anche l’attuale Provincia. È una riforma attesa da vent’anni che si può fare in venti giorni, con un semplice emendamento al disegno di legge Del Rio sugli Enti Locali in approvazione al Senato. 

Un passo ancora più ambizioso potrebbe venire dalla revisione del Titolo V della Costituzione, indicata come priorità da Renzi. Se si vuole una riforma davvero incisiva bisognerà ridurre il numero delle attuali venti Regioni, condizione essenziale per un serio federalismo alla tedesca. Le Regioni più grandi ritaglierebbero lo spazio per una più piccola Regione romana, che svolge le funzioni di capitale e assorbe la Città Metropolitana. Proprio come avviene a Berlino, che è insieme un Land, una capitale e un’amministrazione cittadina.
Verrebbe superata l’attuale Regione Lazio, che è un'invenzione amministrativa. La pianura Pontina, gli Appennini Sabini e Volsci e l’Etruria meridionale hanno ben poco in comune in senso storico e geografico. Questi territori potranno confluire nelle macro-regioni dell’Italia centrale oppure partecipare alla nuova Regione di Roma, che in tal caso si allargherebbe oltre l’attuale confine provinciale. Le quattro istituzioni esistenti - Regione Lazio, Provincia, Comune e Municipi di Roma – sarebbero sostituite da due semplici livelli: la Regione di Roma più i Comuni, sia quelli dell’hinterland che i nuovi all’interno della città.