Per cambiare il
Paese abbiamo bisogno di prestigiose Istituzioni universitarie e di forti Enti
di ricerca. Può farne a meno
solo chi vuole conservare l'esistente.
Lo dimostra la destra che ha mortificato il sapere provocando un impoverimento produttivo, sociale e civile. I conservatori hanno aiutato per la discesa il Paese assecondando la debolezza dell'attuale struttura economica che domanda poca conoscenza e proprio per questo motivo perde posizioni nella competitività internazionale. Purtroppo il governo tecnico ha addirittura aggravato i tagli alla ricerca. Il ministro Profumo è caduto dal pero dicendo che essi condurranno "in default più di metà degli atenei".
Colpisce anche la pochezza dell'agenda Monti che riserva all'argomento solo frasi retoriche, non indica alcun provvedimento concreto e scivola anche su imprecisioni tecniche (cita le facoltà ormai cancellate dalla legge). Sono sintomi di uno scarso interesse riformatore.
Questi atteggiamenti negativi o superficiali in Germania avrebbero sollevato la critica del mondo produttivo e dell'intera classe dirigente ben consapevole di quanto la fortuna del loro paese dipenda dall'investimento in conoscenza.
Solo in Italia è potuto accadere che le istituzioni di studio e ricerca venissero denigrate dai governi, dai media e da settori rilevanti dell'establishment. Sono state prese a pretesto le malefatte di pochi per riversare fango su tutti con l'unico scopo di giustificare tagli lineari e nuove leggi che, sotto la retorica del merito, hanno solo appesantito la burocrazia. Tutto ciò ha finito per avvantaggiare chi fa peggio e ha messo i bastoni fra le ruote ai migliori professori e ai ricercatori più appassionati.
Gli effetti sono devastanti e cominciano a convincere la gioventù italiana ad abbandonare il sapere. Mai prima di oggi si era verificato contemporaneamente un calo delle immatricolazioni all'università e un vero e proprio esodo di ricercatori verso l'estero. Molti giovani ormai perdono la fiducia nella laurea perché sembra non offrire più prospettive sicure, altri sono costretti a rinunciare alla passione per la ricerca, altri ancora per conservare quella passione lasciano il Paese e molti abbandonano le terre del Meridione più avare di opportunità.
Fermiamo questo spreco di intelligenza! L'Italia ha bisogno dell'ingegno e del saper fare della gioventù per preparare l'avvenire. Ne ha bisogno per girare la testa verso il futuro, per accrescere la produttività della sua economia, per portare il Sud unito al Nord in Europa.
Solo chi stima le istituzioni del sapere può davvero riformarle. Chi le denigra può solo aggravarne i difetti. Questa è la differenza tra sinistra e destra nella politica della ricerca. Il PD sa bene che studenti, ricercatori e professori costituiscono una risorsa preziosa non ancora messa a frutto per il progresso civile ed economico. A tal fine intende definire che cosa il Paese può fare per le Istituzioni del sapere e che cosa queste Istituzioni possono fare per il Paese. La nostra stima, infatti, riguarda sia i meriti degli studiosi italiani sia i frutti che i loro studi possono portare alla prosperità nazionale.
Tutte le riforme più importanti per l'Italia implicano un forte impegno delle Università e degli Enti di ricerca. Ecco la prima domanda che si porrà il nostro governo: che cosa può fare la conoscenza per il Paese?
Qualità del lavoro
Invertire la tendenza
al calo della produttività sarà possibile solo se verranno messe a frutto le
capacità di milioni di giovani nativi digitali, colmi di lauree e di
specializzazioni, che parlano le lingue e hanno in mente il nuovo mondo. Le
idee camminano con le teste dei ricercatori. Abbiamo speso tanti soldi per
formare migliaia dottori di ricerca che sono ancora in parte disoccupati.
Bisogna incentivarne l'impiego nelle imprese e nei progetti di riqualificazione
della spesa pubblica con una vera spending review, stavolta non per i
tagli, ma per aumentare la domanda di innovazione.
Anche questo propone l'Europa. Molte funzioni pubbliche, infatti, possono
essere espletate con minori costi e maggiore efficacia introducendo i saperi
moderni, ad esempio e-government, telemedicina, controllo ambientale del
territorio, tecnologie per i beni culturali e formazione permanente ecc. La
quota di spesa pubblica per i beni e servizi è del 15% del Pil; se una
riqualificazione aumentasse la domanda di innovazione solo per un centesimo di
quella quota si otterrebbe un aumento del dieci per cento dell'intensità di
spesa in ricerca sul Pil, che già sarebbe un passo verso la soglia europea. In
secondo luogo, per non aumentare le importazioni hi-tech, bisogna innalzare il rango tecnologico del
sistema produttivo con progetti mirati di politica industriale su settori
strategici: energia, mobilità, made in Italy, bioetecnologie, come si era
cominciato a fare col progetto Industria 2015, poi bloccato dalla destra. In
terzo luogo, tutto ciò deve essere alimentato dal trasferimento tecnologico.
Quando un'impresa e un ateneo o ente di ricerca si stringono la mano per
lavorare insieme lo Stato deve essere generoso con loro.
Apertura al mondo
Le istituzioni
della ricerca aprono il Paese verso il mondo mediante le reti lunghe della
conoscenza. E i nostri ricercatori sono di ottimo livello in tutti i campi.
Costituiscono uno degli esempi migliori dell'Italia che vale a livello
internazionale. L'opinione pubblica nazionale lo aveva dimenticato a causa
della campagna di denigrazione dell'Università e degli Enti, ma lo ha
riscoperto improvvisamente con il successo del bosone di Higgs. Per merito dei
nostri fisici che guidano gli esperimenti al CERN, ma anche perché in passato
l'Italia ha saputo essere protagonista nella realizzazione delle grandi infrastrutture di ricerca in Europa.
Dobbiamo tornare a svolgere questo ruolo nei grandi investimenti continentali
nelle scienze della vita, nelle reti intelligenti, nelle tecnologie
aerospaziali, nella digitalizzazione degli archivi, ecc.
Occorre una grande politica estera della ricerca. In particolare nella tutela dei beni culturali c'è un mercato mondiale in espansione che possiamo attrarre realizzando un polo di formazione mondiale nel restauro e nelle sue tecnologie. I restauratori di ogni Paese si sono formati al metodo italiano di Cesare Brandi e su questo si può elaborare un brand nazionale per le imprese che esportano tali competenze.
Le competenze italiane nelle humanities possono essere organizzate per produrre i servizi che nasceranno dalla digitalizzazione. Il nostro compito non può ridursi a fare le fotocopie per i grandi motori di ricerca. Se vanno in rete i testi della civiltà romana e italiana ci sarà pure bisogno di filologi, storici, archivisti e paleografi che ne sappiano curare la fruizione.
I sistemi universitari sono in grande trasformazione e riscoprono paradossalmente l'origine prestatale nella forma medioevale di istituzione legata ad una città e al mondo intero. Su queste due dimensioni si valuterà in futuro la fortuna dei nostri atenei: cosa possono fare per il proprio territorio e quale peculiarità sanno esprimere nelle reti internazionali.
Non viviamo un tempo normale, siamo ormai dentro una vera e propria transizione cognitiva. Molti saperi trasformano i propri paradigmi, grandi innovazioni nascono dall'attraversamento delle vecchie discipline, miliardi di persone hanno per la prima volta la possibilità di accedere ai risultati della ricerca e diverse rivoluzioni tecnologiche cambiano l'organizzazione sociale. In questa mutazione, però, aumenta anche il pericolo di nuove forme di condizionamento del sapere da parte di interessi economici e politici. Inoltre, cresce anche la tendenza a burocratizzare la ricerca costringendola dentro i confini delle vecchie discipline e nella stantia distinzione tra cultura scientifica e umanistica, come è accaduto con le leggi approvate negli ultimi anni. Si riapre in forme nuove una grande questione di libertà della conoscenza. Bisogna sostenere in tutti i campi la ricerca libera, guidata dalla curiosità degli studiosi e valutata solo da criteri scientifici, senza alcuna interferenza politica o economica. E soprattutto un grande paese come l'Italia non deve mai perdere il contatto con le frontiere mondiali della conoscenza.
Giustizia sociale
La transizione
cognitiva riapre il problema dell'alfabetizzazione di massa nei linguaggi
contemporanei. L'Italia ha raggiunto a fatica lo standard dello "scrivere
e far di conto" e ancora porta i segni del ritardo. Deve quindi compiere
uno sforzo maggiore per dotare la popolazione delle competenze e delle capacità
che sono necessarie nel mondo di oggi. Altrimenti la crescita della conoscenza
rischia di aggravare la vecchia disuguaglianza tra chi sa e chi non sa. La formazione lungo tutto l'arco della vita
è quindi una politica necessaria per la crescita dell'economia e del grado di
civiltà. E questa è una missione che richiede un generale innalzamento della
qualità del sistema formativo, dalla scuola dell'infanzia fino agli studi
superiori. E bisogna rimuovere gli ostacoli che oggi impediscono ai figli delle
famiglie più povere l'accesso all'università. Questa è l'emergenza che il
governo di centro sinistra affronterà nei primi cento giorni. Oggi in Italia la soglia di reddito per ottenere la borsa è più
restrittiva che in Europa e ciò nonostante neppure tutti gli aventi diritto la
ottengono effettivamente. Il diritto
allo studio è garantito solo al 9% della popolazione studentesca - ben
lontano dal 25% della Francia e della Germania. E c'è bisogno non solo di
borse, ma di residenze studentesche, di servizi didattici, culturali, sportivi
e di trasporto, per realizzare un vero Welfare giovanile.
In passato l'università italiana ha consentito l'emancipazione sociale dei figli dei lavoratori. E' entrata la laurea in milioni di famiglie che ne erano sprovviste. Oggi, l'aumento della diseguaglianza ripropone vecchie gerarchie professionali e sociali. Rischia di tornare l'antico regime che consentiva solo ai figli di papà di andare avanti. Rimane ancora da attuare il principio costituzionale del sostegno ai "meritevoli anche se privi di mezzi".
La politica della conoscenza è poi la leva decisiva per rafforzare l'unità nazionale e offrire una prospettiva credibile al nostro Mezzogiorno. Occorre cogliere l'occasione della politica europea verso il Mediterraneo per dare nuova centralità al Sud come piattaforma di formazione e di ricerca rivolta alla cooperazione con i paesi rivieraschi. La rete di atenei e centri di ricerca può offrire gli strumenti per alimentare il dialogo interculturale, per migliorare le opportunità dei giovani e per creare nuova occupazione.
Ma il governo si
chiederà anche che cosa può fare il
Paese per la conoscenza. E' molto semplice,
bisogna innanzitutto aiutare il sistema a svolgere le proprie missioni di
formazione e di ricerca e chiedere conto dei risultati ottenuti. La politica
universitaria e della ricerca sono state complicate inutilmente negli ultimi
anni, ma in fin dei conti si tratta solo di assecondare la crescita e la
diffusione della conoscenza, senza imporre stupide bardature burocratiche.
Valutazione indipendente dal potere politico e accademico
E' necessario uno strumento di valutazione dei risultati
che sia davvero indipendente dal potere politico e accademico al fine di
garantire la libertà della ricerca e l'efficacia dei finanziamenti. Il governo
Prodi lo aveva predisposto e poteva essere prontamente attuato, ma il governo
Berlusconi ha voluto ricominciare da capo. Si sono persi cinque anni a fare
retorica sul merito senza fornire neppure un numero che consentisse una valutazione
aggiornata della produzione scientifica degli atenei, infatti si utilizzano
ancora i dati sulla produttività scientifica di dieci anni fa. Solo di recente
è stata istituita l'agenzia di valutazione Anvur, ma è partita col piede
sbagliato perché, nel tentativo di recuperare il ritardo, è stata caricata in
breve tempo di troppe funzioni. E soprattutto ha manifestato scarsa autonomia
dal governo che voleva farne una clava contro l'università per giustificarne il
ridimensionamento. Al contrario, la valutazione deve essere uno strumento
neutrale che aiuta la crescita e la qualità del sistema formativo e di ricerca,
come accade nelle migliori esperienze internazionali dalle quali si dovrebbe
prendere esempio. Se arriviamo in ritardo dobbiamo almeno utilizzare il
vantaggio di non ripetere gli errori già fatti da altri paesi e anzi possiamo
compiere un balzo in avanti verso i
migliori modelli internazionali.
Meno norme, più qualità
La buona valutazione
deve servire soprattutto a fermare l'ossessione legislativa che ha soffocato la
ricerca e la didattica in una cappa di piombo burocratica. Gli scienziati sono
pagati per insegnare e ricercare non per perdere tempo con le scartoffie. Occorre
una svolta non solo nei contenuti, ma perfino nel modo di concepire la politica
universitaria: non scrivere più editti normativi, ma creare le istituzioni
della conoscenza. Non è un passaggio da poco. Finora è prevalso il legislatore
pessimista che, avendo lo sguardo fisso sui difetti dell'università, sa
intervenire solo con i divieti e i tagli. Questi, però, mobilitano la parte
peggiore dell'accademia, quella più capace di eludere le regole per continuare
a fare le cose di sempre, e di conseguenza producono effetti negativi che poi
richiedono nuove norme, innescando così un circolo vizioso e burocratico.
E' tempo del riformatore ottimista capace di aiutare i riformatori che dall'interno già stanno migliorando l'Università e gli Enti, partendo dalle buone esperienze per farle crescere e per diffonderle: il professore che rimane nella memoria dello studente per tutta la vita, lo studioso che nonostante tutto continua a fare ricerca di livello internazionale, l'ateneo che si apre al mondo e sostiene la crescita della sua città, l'Ente di ricerca che opera con successo a livello internazionale. Non essendoci più vincoli da aggirare, ma solo risultati da cogliere il sistema dovrà cercare aiuto nelle sue forze migliori. Trovandosi improvvisamente in mare aperto, senza le sicurezze degli attracchi normativi, l'equipaggio sarà costretto ad affidarsi ai comandanti capaci di seguire nuove rotte, non a quelli che prosperano con i traffici del porto.
Riaprire le porte ai giovani ricercatori
Bisogna restituire il
mal tolto. La ricerca e la formazione non faranno più da salvadanaio, come è
accaduto negli anni scorsi, per pagare la promessa elettorale dell'eliminazione dell'Ici e l'avventura
dell'Alitalia. Almeno le risorse che si liberano dai
pensionamenti devono rimanere interamente nella disponibilità degli atenei e
degli enti per fare i concorsi e finanziare la ricerca. Bisogna rimuovere l'assurdo blocco del turn over. L'età media nelle
strutture di ricerca tende ad alzarsi pericolosamente e i giovani non sono
posti in condizione di dimostrare sul campo le proprie capacità, sono
sottoutilizzati in forme precarie e non vengono chiamati a compiti di
responsabilità e autonomia. In tal modo viene a mancare una forza generativa
delle istituzioni di ricerca che scaturisce proprio dalla relazione
maestro-allievo. Tra
le relazioni umane è forse la più misteriosa perché fondata su una sottile
dialettica tra fedeltà e tradimento. Il maestro coinvolge nelle sua ricerca
l'allievo e gli consegna un'eredità di metodi e di saperi, ma poi a un certo
punto l'allievo va oltre quel lascito e cerca nuove strade. Da qui scaturisce
la crescita della conoscenza. Aver indebolito questo processo chiudendo le
porte ad un'intera generazione di giovani ricercatori è stato il fattore più
grave della crisi. Diversi campi del sapere rischiano la sterilità perché ormai
da troppo tempo i maestri non possono coltivare nuove generazioni di studiosi.
Per molti di questi il tradimento non è più un atto conoscitivo, ma è diventato
una fuga dal paese. I laboratori di ricerca in Europa sono pieni di giovani
italiani di talento, mentre quasi nessuno viene a
lavorare in Italia. Una grande politica per il sapere è l’ultima
possibilità per ridare fiducia ai giovani, per convincerli che questo è il loro
paese, che ci sono le minime condizioni affinché essi possano trasformarlo. Al
governo Bersani tocca questo compito.
Walter Tocci
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