venerdì 21 marzo 2014

L’eredità di Berlinguer


Ieri sono stato a vedere Quando c'era Berlinguer, film diretto da Veltroni. Per me è stata un'occasione per ricordare, riflettere e anche un po' commuoversi. Al tempo stesso non dobbiamo esagerare con la nostalgia; fare onore alla grande personalità politica di Berlinguer vuol dire anche compiere un'analisi critica della sua opera. Ho provato a farlo nel mio libro, Sulle orme del gambero, nel contesto di una riflessione di lungo periodo sul Pci e sui limiti della mia generazione. Colgo l'occasione per proporvi di seguito un brano del libro (p.50) dedicato a Enrico.

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Mi è capitato di perdere il saluto di cari compagni, solo perché a una festa dell’Unità ho accennato a un’analisi critica dell’opera di Berlinguer. La riprendo qui, cercando di capire perché nei primi dieci anni dopo la morte fu dimenticato e poi via via è cresciuto un ricordo sempre più struggente. Il suo mondo non esiste più, ma la figura si ingigantisce. C’è una pienezza di Berlinguer che trabocca il suo tempo e arriva a noi e ci rinfresca. C’è una penuria nostra che spinge a ricordare, a fare esodo dal nostro tempo, come il nomade che cerca l’acqua nel deserto. È lui che viene a noi o siamo noi che andiamo verso di lui? 

Nel suo stile c’era qualcosa che andava oltre, come nella famosa intervista di Minoli in cui confessa quanto lo disturbi lo stereotipo di uomo triste e nel dirlo prorompe in un sorriso timido e imprevisto, l’immagine più cara che conservano quelli della mia generazione. Nessun altro leader ha suscitato sentimenti tanto delicati.


C’è un di più di Berlinguer, c’è una persona che va oltre la sua opera: «Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Per chi possiede un di più di vita interiore la comprensione è lenta e lunga, e soprattutto postuma». Questo di più è l’alterità di Berlinguer. Sì, la parola appropriata è alterità, l’unica in grado di rompere i luoghi comuni che gli sono stati attribuiti. Alterità è infatti l’opposto di identità. Se la sua memoria fosse ridotta a una statua dell’identità comunista sarebbe travolta dalla storia. Alterità non è neppure da confondersi con diversità. La diversità è una mera contrapposizione all’altro. L’alterità è andare oltre, è trascendere l’altro. Per questo rimane attuale oltre il suo tempo. Infine, l’alterità spiega anche la persona, con il doppio senso della parola che significa anche fierezza, e coglie quel senso di nobiltà del suo tratto umano. L’alterità è la dimensione in cui vibrano come un diapason quei termini apparentemente antitetici che caratterizzano lo stile e gli ideali di Berlinguer: italiano e antitaliano; politico e, si direbbe oggi, antipolitico; aristocratico e popolare; comunista e democratico; utopista e realista; rivoluzionario, forse l’ultimo a dare un senso a questa parola tra gli eredi togliattiani, e conservatore nel senso del katechon, come contrasto al cambiamento maligno. 

Allora la domanda diventa più precisa. Perché proprio oggi ci manca tanto Berlinguer? Nel suo ricordo cerchiamo la politica pulita, alta, utile. La «questione morale» non riguarda solo lo Stato e le sue regole, ma è prima di tutto una condizione di possibilità della politica. Per noi militanti allora fu importante non solo la famosa intervista a Scalfari, ma il saggio del dicembre 1982 su «Rinascita», Rinnovamento della politica e rinnovamento del Pci, nel quale il segretario indicava la questione morale come «la premessa indispensabile per poter riavviare qualcosa di serio, di pulito, di nuovo nella vita politica italiana» e incitava i militanti a rinnovare il partito per farne un’organizzazione «a diretto contatto con la gente per aiutarla e ragionare, a organizzarsi, e a lottare». Poteva sembrare inutile quell’appello rivolto a un partito di massa che si riteneva già possedesse quelle qualità. Perché addirittura usare quella parola gente oggi usurpata dalla destra? Perché la sottolineatura di un partito che aiuta a organizzare e non fa tutto da solo? Berlinguer avvertiva la fine dei partiti come organizzatori della democrazia. Denunciava le distorsioni degli altri, ma si rivolgeva anche all’interno del Pci, dove cominciavano i primi scricchiolii. Presagiva la crisi storica della prima Repubblica con la stessa consapevolezza che sull’altra sponda aveva mostrato Aldo Moro. Entrambi capirono in anticipo che la fine dei vecchi partiti avrebbe creato una frattura tra popolo e classi dirigenti. L’impossibile transizione li ha consegnati alla memoria come personaggi tragici. 

Tutto ciò alimenta l’attuale mito di Berlinguer. Eppure, bisogna ricordarlo sinceramente, entrambe le sue strategie politiche, il compromesso storico e l’alternativa democratica, si rivelarono inadeguate. Per tali esiti qualsiasi uomo politico sarebbe stato dimenticato e invece siamo a parlarne ancora con infinita ammirazione. 
La linea dell’alternativa democratica era un arroccamento irrealistico e sterile, come dimostravano con valide ragioni i miglioristi. Per uscire dall’isolamento, sulla scia delle campagne giornalistiche di «Repubblica», si ricorse alla proposta di governo tecnico, con argomenti che oggi metterebbero in imbarazzo molti critici di sinistra del montismo. Ma non aveva alcun riscontro pratico, perché il paese non si trovava in emergenza, anzi era nel pieno di una crescita economica e di una stabilizzazione politico-elettorale. L’attacco frontale agli altri partiti non consentiva di influire sulle componenti dell’area socialista e democristiana ancora disponibili all’interlocuzione. Vennero sprecate due occasioni, una politica e l’altra culturale. 

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il simbolo di quella stagione fu la battaglia a difesa della scala mobile. Berlinguer la giocò con una determinazione che andava al di là del pur importante merito del problema. Aveva capito, con l’acuta sensibilità per le mutazioni internazionali, che in quella vicenda si affermava in Italia il nuovo ciclo liberista mondiale. Vide con molta chiarezza l’attacco ideologico contro i lavoratori e il tentativo di cancellare quella costituzione materiale che li aveva visti protagonisti della democratizzazione italiana. Organizzò una battaglia difensiva, ma non riuscì o non ebbe il tempo per impostare una controffensiva. Sarebbe tornato da quella campagna elettorale, in cui trovò la morte, con l’intenzione di aprire in Direzione un confronto decisivo sulla strategia del Pci, ma forse non sapremo mai cosa avesse in mente di fare. 

In quegli anni quasi tutta la sinistra mondiale finì sulla difensiva, ma in Italia non si poteva evitare di mettere in gioco lo stesso partito comunista per passare all’offensiva. Questo rimane il nucleo di verità della svolta occhettiana. Nell’89 era già troppo tardi per superare il Pci, ma dieci anni prima, nel passaggio d’epoca della rivoluzione liberista, in occasione dell’ultimo fallimento del socialismo reale in Polonia, di fronte a un sistema politico italiano sempre più bloccato c’erano già tutte le condizioni necessarie per qualcosa che assomigliasse a una Svolta...

Dopo il compromesso storico

La generazione berlingueriana, benché di altissimo livello, negli anni ottanta non era in grado di compiere nessuna svolta, perché rimase prigioniera culturalmente dell’unica grande politica che aveva pensato e attuato, quella del compromesso storico. Non c’è paragone tra la profondità di analisi e la lunga preparazione che Berlinguer dedica a questa strategia e il carattere brusco e difensivo col quale imposta la successiva alternativa democratica. 

Alla base c’era una lettura pessimistica della situazione italiana, evidente già nei saggi scritti nel 1973 per «Rinascita», fino al punto di ritenere pericolosa una normale dialettica tra destra e sinistra. Quello che è successo dopo con il sovversivismo berlusconiano sembra dare ragione a quei timori. Ma si può anche ribaltare l’argomento, forse fu proprio quel fallimento a depositare i grumi che hanno alimentato il populismo della seconda Repubblica. 

4 commenti:

  1. caro walter il problema e' che berlinguer e' stato l'incarnazione dell'uomo che rappresenta fino alla morte, lui che non credeva nell'aldila', l'eroe comunista, quello che pensa che e' in questo mondo che dobbiamo salvare gli altri. carlo

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  2. Massimo Prasca 25 marzo 2014 07,10
    Sono d'accordo con Tocci : i piagnoni, cioè quelli che per commuovere tengono 8minuti8 lo spettatore ad osservare il malore di Berlinguer sul palco al fine di provocarne ulteriormente la partecipazione,dovrebbero essere più coerenti e magari illustrare, a noi che abbiamo di Berlinguer un ricordo molto più "laico"i motivi per i quali la sua linea politica, così esaltata e così presto dimenticata e mai praticata,non ha avuto eredi nei suoi lacrimosi successori. Fa bene Tocci a ricordare anche gli errori (certo umani, ma pur sempre errori politici gravi) che hanno contraddistinto l'ultimo Berlinguer. Sarebbe opportuno ripartire da lì per organizzare una politica nuova per questo scassato PD. Ci sono compagni che riflettono: uno di questi sicuramente è Tocci; un'altro è Barca. Costoro riflettono con serietà. I frutti saranno a lungo termine, ma ci saranno.

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  3. La ragione per cui c'è oggi nostalgia di Berlinguer, ma non una riattualizzazione effettiva del suo pensiero, è che tale riattualizzazione non interessa. Il mito di Berlinguer oggi è solamente la ricerca di un padre nobile, e lui è l'ultimo utilizzabile. Serve a perpetuare la pochezza della seconda repubblica.
    Diceva cose bellissime sul partito. Non è un caso che quelli che a lui si rifanno con tanta nostalgia, quando hanno avuto in mano le leve del partito, non ha fatto niente. Sia che fossero sostenitori del partito leggero che del partito pesante. Berlinguer non c'entra niente. A chi era un minimo fuori da quel circuito dirigente, la cosa sembra evidente.

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  4. Mi pare un giudizio piuttosto perentorio e non sufficientemente argomentato. Ho comunque già acquistato il Suo libro ed avró modo di approfondire la Sua
    critica. Mi lasci comunque dire che, seppure con una certa alterità, Berlinguer era capace di analizzare la politica con pensiero profondo, mentre la pochezza culturale di oggi, riduce la politica a pura organizzazione del consenso realizzata a colpi di slogan populisti e rappresentazione televisiva di un leaderimo demenziale.

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