Quando
ero un giovane militante avevo inventato un gioco mentale per
mettermi di buon umore. Allora si usava andare quasi tutte le sere
dalla sede centrale del partito verso la periferia, dove erano le
nostre roccaforti elettorali. Lungo il viaggio mantenevo fisso lo
sguardo dal finestrino dell'autobus verso la strada e al susseguirsi
dei palazzi associavo l'aumento degli elettori di sinistra. Oggi, per
avere la stessa sensazione devo fare un'inversione di marcia.
A volte
faticavo a trovare il luogo dell'assemblea. In quelle periferie
diradate era infatti difficile darsi un appuntamento. Gli spazi erano
estesi e senza differenze sia nei quartieri dei palazzoni legali sia
nelle borgate delle casette abusive. Oggi, al contrario le nostre
roccaforti elettorali sono nella città consolidata, dove è proprio
l'alta densità a creare le differenze e le opportunità del
riconoscimento.
Infine,
trovavo in quelle assemblee quasi sempre problemi nuovi da discutere.
La periferia era allora in continua espansione e l'arrivo di nuovi
ceti sociali forniva occasioni per la partecipazione popolare. Oggi,
al contrario, le fortune elettorali della sinistra sono collocate nei
vecchi quartieri, sia quelli di provenienza borghese sia quelli della
periferia storica riscoperti dagli stili di vita della classe
creativa.
1.
Le tre Diseguaglianze: Distanza, Densità, Durata
Questi
tre ricordi di vita da militante disegnano i gradienti spaziali del
consenso politico. Potremmo chiamarli gli assi delle tre D: la
Distanza, la Densità e la Durata. Su di essi si è consumato nelle
grandi città il ribaltamento elettorale tra sinistra e destra degli
ultimi trenta anni. Il consenso della sinistra è passato dai
quartieri più distanti a quelli più vicini al centro, dai luoghi
meno densi a quelli più densi, dalle zone di trasformazione a quelle
di consolidamento (Queste correlazioni sono dimostrate, ad esempio,
dalle analisi di Federico Tomassi sul caso romano - Argomenti
Umani n. 5, 2009). Si può concludere semplicemente che la
sinistra perde dove è più debole il legame sociale, dove i soggetti
sono più isolati, dove gli individui sono privi di identità
collettive e storicizzate. Ma forse dobbiamo andare più avanti
nell'analisi.
La
distanza, la densità e la durata convergono in una dimensione che le
riassume e le contiene, una sorta di grande D, la Diseguaglianza
metropolitana. E non è cosa da poco se la sinistra perde dove cresce
la diseguaglianza. C'è un problema più grande di questo? Eppure,
viene continuamente rimosso nel nostro discorso politico.
Sono
evidenti le cause generali del problema, ma qui ci interessa isolare
le determinanti spaziali e capire come vi rimangono impigliate le
relazioni sociali, economiche e politiche.
La
città si trasforma in periferia e si rappresenta in centro. Questa
diseguaglianza spaziale tra l'essere e l'apparire è strutturale e
produce una tensione politica creativa che assume diverse
configurazioni nella mutazione storica. Nella città del miracolo
economico la sinistra era incardinata nel luogo della trasformazione
e andava alla conquista dei centri di rappresentazione. Al contrario,
nella città postindustriale la sinistra è centrata nei luoghi
dell'immaginario urbano e deve riconquistare i territori della
mutazione socioeconomica. Inoltre, la globalizzazione porta alla
massima intensità questa diseguaglianza, poiché il centro è
attirato nelle reti internazionali del terziario avanzato, mentre la
periferia è impegnata nell'elaborazione sociale dell'immigrazione,
con gli estremi del rifiuto, ma anche con arricchimenti
antropologici.
2.
L'altrove spaziale senza tempo.
La
trasformazione ha cambiato paradigma: nel primo trentennio la città
evolveva per espansione dal centro verso la periferia secondo
una logica di sviluppo progressiva e cumulativa. Nel secondo, invece,
il mutamento ha preso la forma della frammentazione, secondo
una logica disseminativa di insediamenti sparsi nella scala sempre
più ampia dell’area metropolitana. La nuova dinamica travolge i
vecchi confini tra interno ed esterno, mettendo in discussione una
funzione delicata dello spazio che costituisce una sorta di
interiorità delle relazioni sociali. Come per una persona la forza
del carattere dipende dalla solidità della propria dimensione
interiore, così l’organizzazione sociale trova il proprio ubi
consistam nella rappresentazione spaziale. Il fenomeno è ben
noto in teoria e trova conferma sia nelle forme di vita improntate
alla solidarietà sia nei leghismi vecchi e nuovi.
Senza
scomodare Kant si può facilmente convenire che il senso interno è
depositario della concezione del tempo. Nella periferia della fase
espansiva la funzione interiorizzante dello spazio era tanto forte da
sostenere le temporalità progressive alla base di diverse utopie
sociali: le lotte popolari di emancipazione, il sogno consumistico
dei ceti medi in fuga dai centri storici verso i quartieri nuovi
delle palazzine; le sperimentazioni del modernismo architettonico dal
Corviale di Roma, alle Vele di Napoli e allo Zen di Palermo; la
politica progressista della casa dal piano Fanfani allo sciopero
generale del 1969.
La
diseguaglianza nella periferia storica veniva rielaborata tramite un
altrove temporale, un’utopia di buona società da
raggiungere attraverso un cammino di progresso. Nella periferia della
frammentazione, invece, venendo a mancare l’interiorità si
atrofizza anche l’immaginario temporale e di conseguenza l’altrove
può essere espresso solo in termini spaziali. La periferia
contemporanea è un insieme eterogeneo di altrove senza tempo.
La sua alterità è immediatamente realizzata nel qui e ora e proprio
per questo i processi identitari non trovano un terreno di
consolidamento. C’è sempre un altro qui e ora che si afferma con
pari legittimità contro il precedente. Per fermare tali
contrapposizioni le relazioni sociali sempre alla ricerca di
stabilità si coagulano intorno a funzioni urbane capaci di
garantirla. L'altrove spaziale, quindi, è sempre legato a una
determinata funzione (M. Magatti, Libertà
immaginaria, Feltrinelli, 2009, pp.
161-166). L'esempio migliore è il mega centro commerciale,
dove proprio la specializzazione funzionale del consumo, cioè il
dominio assoluto del qui e ora, è in grado di tenere insieme le
eterogeneità della periferia frammentata. Il centro commerciale è
il rovescio della piazza. Questa nella periferia storica operava al
contrario proprio come spazio senza alcuna funzione specifica, come
luogo dell'indugio e dell'inutile. La stabilizzazione delle relazioni
sociali nella piazza, infatti, si realizzava tramite la dimensione
temporale o come memoria storica o come utopia dell'integrazione
sociale.
Il
passaggio dall’altrove temporale a quello spaziale spiega
molti cambiamenti dell’immaginario periferico. Se il sociale non ha
più un telos possono convivere nello stesso luogo prospettive
diverse e opposte. Da un lato lo spazio diventa garanzia di chiusura
della comunità, come si vede in quella vera e propria ossessione a
recintare ogni cosa nelle periferie: la casetta con il cartello
attenti al cane, il parco chiuso con i cancelli, il condominio
esclusivo, la zona delimitata per gli immigrati ecc. Da quando il
confine urbano ha perso il segno distintivo delle mura queste sono
diventate immanenti rispetto alle relazioni sociali. D'altro canto,
però, uno spazio senza interiorità è penetrabile da fenomeni che
si sviluppano su scale diverse. Un insediamento metropolitano oggi è
spesso una pluriperiferia, non solo rispetto a vecchio centro
urbano, ma anche in relazione alla cittadina preesistente
nell’hinterland e al mondo che fa sentire la sua presenza tramite
gli immigrati.
La
compresenza di chiusura e apertura sfuma la distinzione
interno-esterno che è proprio la frontiera decisiva dell’identità
sociale e politica. Tutto ciò determina uno sbilanciamento verso
l’esteriorità e questa caratteristica viene esaltata dai
mass-media che contribuiscono a dare notizia della periferia solo per
espressioni estreme, dalle banlieu parigine, alle rivolte
antinomadi, ai progetti di demolizione proposti da amministratori in
cerca di celebrità. Ma lo sbilanciamento esteriore si può vedere
anche in certi aspetti della vita quotidiana, ad esempio la
proliferazione di hair stylist, solarium e nail shop
nelle vie di borgata. La povertà estetica dei luoghi trova una
compensazione o una purificazione nel trucco eccessivo della ragazze,
come osserva Christian Raimo.
Le
politiche e i linguaggi della sinistra sono rimasti legati alla fase
dell'espansione e non sono più applicabili ai nuovi codici della
periferia della frammentazione. Da qui viene un'incomprensione della
realtà e tanto più un'incapacità a rappresentarla. Non so
immaginare un borgataro riformista, dice con formula icastica
Walter Siti, narratore neopasoliniano della periferia romana. Il
politico di sinistra si presenta in borgata parlando di regole, di
assetti istituzionali, di soluzioni amministrative da realizzare in
futuro, cioè di un altrove temporale. Quello di destra,
invece, gioca la carta dell'irregolarità, del rancore verso l'altro
e del desiderio consumistico, secondo un radicale altrove
spaziale. Per ribaltare i rapporti di forza la sinistra avrebbe
dovuto trovare una connessione tra le riforme e la vita quotidiana
della periferia, un linguaggio nuovo per parlare al popolo meglio di
quanto faccia il populismo. Ciò avrebbe comportato calarsi nei
luoghi della trasformazione rielaborando i propri codici culturali.
E' stato più facile conservare i vecchi e applicarli dove ancora
potevano funzionare, cioè nei quartieri borghesi e della periferia
consolidata.
Lungo
gli assi della Distanza, Densità e Durata la politica di sinistra si
è semplicemente spostata da un estremo all'altro per poter
conservare se stessa. Così, le cinture rosse sono diventate le
roccaforti delle destre e i quartieri borghesi sono diventate le
casematte della sinistra.
3.
La rendita urbana
Tuttavia,
queste modifiche dell'immaginario non sono sufficienti a rendere
conto di un ribaltamento politico tanto marcato. E anzi spesso si è
sbagliato ad assumerle come unico strumento di analisi, fino a
dimenticare le componenti più strutturali delle diseguaglianze
metropolitane. Questo approccio unilaterale ha portato un certo
sociologismo giornalistico a sostenere che la periferia non esiste
più o perlomeno non corrisponde a un disagio sociale. In realtà, la
distanza tra le diverse parti della città sono aumentate proprio
seguendo l'inasprimento delle diseguaglianze economiche che ha
portato l'Italia negli ultimi venti anni verso una gerarchia sociale
di tipo americano.
La
periferia è ancora il luogo della povertà urbana. Innanzitutto, in
termini economici. Tante analisi territoriali della distribuzione dei
redditi, nonostante una certa diffusione di insediamenti di ceto
medio nelle fasce più esterne della città, mostrano una forte
polarizzazione territoriale. E, anzi, questa viene rafforzata dalle
specifiche dinamiche sociali dell'economia della conoscenza. Al di là
delle ireniche narrazioni sulla città creativa, lo sviluppo del
terziario avanzato accentua le differenze tra i knowledge workers
globalizzati e i poor workers delle periferie, come per prima
ha evidenziato Saskia Sassen nell'analisi delle global cities.
La trappola della diseguaglianza è ulteriormente accentuata dalla
disparità nell'accesso all'istruzione, dai tassi di abbandono
scolastico e in generale dalle opportunità di formazione del
capitale umano. Il livello del titolo di studio segue un inesorabile
andamento negativo dal centro verso la periferia.
L'unico
ammortizzatore delle diseguaglianze è il patrimonio immobiliare. La
proprietà della casa è stata l'obiettivo perseguito da sempre con
insolita coerenza dalla politica italiana. La diseguaglianza del
reddito disponibile, quindi, risulta attenuata se si considera una
componente che tiene conto dell'affitto risparmiato da chi possiede
l'alloggio. Paradossalmente si potrebbe dire che la diffusione di
rendita verso i piccoli proprietari è stato uno dei pochi interventi
riusciti del welfare italiano, anche se a prezzo del degrado
dei beni comuni. Infatti, per consentire l'acquisto della casa ai
ceti medio bassi si sono dovuti ridurre i costi di realizzazione
scaricando il peso sulla bassa dotazione di servizi e di trasporti.
Questo è stato il tipico modo di produzione dell'edilizia
speculativa, talvolta anche dell'edilizia pubblica e in modo estremo
delle costruzioni abusive. Soprattutto nel centro sud tramite
illegalità e condoni è stato possibile realizzare intere periferie
costituite da ammassi di case senza città. Ricchezza proprietaria
creata tramite la povertà pubblica. L'attenuazione delle
diseguaglianze di reddito in questo caso è stato ottenuto a prezzo
di più forti diseguaglianze nella qualità urbana.
Negli
ultimi anni poi la rendita immobiliare si è agganciata a quella
finanziaria mediante l'istituzione di appositi fondi di investimento.
Il mattone ha preso a funzionare come un derivato, condividendo con
la dinamica della finanza sia i vorticosi aumenti di valore sia le
tempeste perfette. Nelle grandi città italiane la crescita dei
prezzi degli immobili e degli affitti, in assenza di qualsiasi
politica pubblica dell'abitazione, ha costretto giovani coppie e ceti
popolari a trasferirsi negli hinterland per poi tornare nei centri
storici a lavorare, determinando un pesante aggravamento di traffico
a causa della penuria di trasporti su ferro. In questo caso la
diseguaglianza spaziale si è manifestata nella forma più estrema,
quella cioè dell'espulsione, come una sorta di ripresa contemporanea
della pratica antica di bandire gli indesiderati dalla città.
4.
Oltre il leaderismo e il notabilato.
Tutto
ciò ha influito sui comportamenti politici. Si sono accumulati nelle
periferie della frammentazione grandi depositi di rancore, utilizzati
istintivamente dalla destra e subiti ingenuamente dalla sinistra.
Laddove questa era al governo ha dato una rappresentazione luccicante
dello sviluppo urbano che ha provocato un rifiuto soprattutto da
parte di quei cittadini messi al bando.
Inoltre,
i ceti sociali che nella fase dell'espansione, sotto le bandiere
della sinistra, hanno realizzato il sogno della casa, soprattutto
nelle zone abusive, hanno preso a ragionare come proprietari di una
rendita sentendosi quindi più vicini alla destra. Non solo, la
carenza di servizi che aveva abbassato i costi di costruzione
dell'alloggio, viene avvertita oggi, in particolare dalle nuove
generazioni, come un'ingiustizia localizzativa, senza considerare che
quella povertà urbana è in parte responsabilità anche dei padri
che hanno compiuto l'abuso. Ad aggravare la situazione c'è poi la
presenza degli immigrati che vengono avvertiti da questi ceti
proprietari come la possibilità di tornare alla povertà da cui si
sono liberati. E il diverso diventa l'occasione per dare un simbolo a
tutte le paure e i rancori accumulati nella trasformazione urbana.
Tutto
ciò produce per la destra un vantaggio diretto in termini di
orientamento politico, ma soprattutto un vantaggio indiretto a causa
di una perdita di fiducia verso la politica, che è una condizione
sempre sfavorevole per il progetto politico della sinistra. Proprio
nelle estreme periferie si determina l'astensionismo più forte. E
dove si perde fiducia aumentano anche i comportamenti utilitaristici
verso la politica. Non solo la partecipazione elettorale diminuisce,
ma viene fortemente condizionata da promesse clientelari e da forme
notabilari di consenso.
Nella
periferia della frammentazione viene a mancare la rappresentanza. Non
solo la società periferica non si esprime in politica ma ne subisce
le logiche di potere. I processi di formazione del consenso dal basso
verso l'alto sono stati completamente sostituiti dalle macchine di
controllo elettorale organizzate dal ceto politico. Tutto ciò
comporta una perdita di potere della periferia. I suoi problemi
passano in secondo piano rispetto alle altre parti della città.
E'
l'esito politico dei fenomeni sociali ed economici descritti sopra.
L'altrove spaziale è una relazione sociale senza
rappresentanza proprio perché viene a mancare quella interiorità
che è alla base di una comune consapevolezza dei bisogni. Le
diseguaglianze economiche sono frutto di processi a larga scala –
perfino, come si è visto, della finanza globalizzata - che sfuggono
ad una consapevolezza sociale maturata nel territorio.
La
politica ha risposto adeguando perfettamente le sue forme a tali
trasformazioni. Altro che distacco dalla società! Il sindaco eletto
dai cittadini e il notabile che raccoglie preferenze sono ormai le
uniche forme di presenza politica nella periferia. Entrambe
rafforzano la verticalizzazione del consenso dall'alto verso il basso
e quindi contribuiscono ad indebolire ulteriormente il potere
politico della periferia. Nel passaggio dall'altrove temporale
a quello spaziale si consuma la perdita di autonomia politica e si
afferma l'eterodirezione dei gruppi sociali. Ma soprattutto quelle
forme politiche tendono a mantenere lo status quo. Il
notabilato è per sua natura la più conservativa, non a caso
inventata dalla borghesia liberale prima del suffragio universale.
Meno evidente è il carattere conservativo del sindaco, perché
l'elezione diretta aveva promesso una forte capacità decisionale. A
distanza di quasi venti anni da quella riforma elettorale -
unanimemente giudicata come la migliore - è forse giunto il momento
di farne un bilancio veritiero. A fare difetto nei sindaci è proprio
la decisione, per diversi motivi. Innanzitutto, il secondo mandato è
quasi sempre inutile, poiché la forte personalizzazione spinge il
sindaco a pensare al suo futuro politico più che
all'amministrazione, come si può constatare nella vicende politiche
delle principali città italiane. Inoltre, la totale dipendenza dal
circuito mediatico e la rafforzata rappresentazione del centro-città
spinge il sindaco ad azioni di breve termine e di carattere
fortemente simbolico. Queste in modo particolare parlano anche al
popolo delle periferie, utilizzando proprio quella tendenza
all'esteriorità di cui si è detto, ma in ogni caso sono tutte
espressioni di leaderismo senza decisione. Il mandato decennale
doveva assicurare la realizzazione di progetti di lungo periodo, ma
la promessa non è stata mantenuta, anzi il sistema politico comunale
è ormai malato di short-termism. Tutto ciò impedisce di
affrontare i problemi strutturali della periferia, la quale quindi
non solo non è rappresentata, ma non è neppure governata. In
nessuna città italiana si ha notizia di importanti realizzazioni
capaci di modificare la vita quotidiana delle periferie. Non si
tratta però di mettere in discussione l'elezione diretta del
sindaco, che è una delle poche certezze istituzionali del nostro
paese, ma di guardare con realismo ai problemi che lascia insoluti
l'attuale sistema politico comunale.
C'è da
domandarsi se sia proprio inevitabile lasciare al leaderismo e al
notabilato l'esclusiva del rapporto con la periferie. Se sia, invece,
quanto mai necessaria un'organizzazione politica capace di produrre
rappresentanza e decisioni. Se democrazia debba significare prima di
tutto dare il potere a chi non ce l'ha. Anche ai cittadini delle
periferie metropolitane.
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