Azzardando una
stima di massima, ci saranno almeno cinquantamila giovani ricercatori che non
trovano collocazione nel mondo produttivo e rimangono abbarbicati
all'università, premendo per entrare nelle carriere accademiche. Si dovranno
riaprire le porte della ricerca pubblica ai giovani ricercatori, ma nella
migliore delle ipotesi si risolverà solo in parte il problema.
E gli altri
giovani studiosi? Ha senso tenere nell'inedia la parte più colta della nostra
gioventù? Sarebbe un tema da affrontare con politiche pubbliche mirate. Tutto
ciò avviene spontaneamente nelle università che funzionano. Per rimanere
all'Europa, l'università di Cambridge ha creato una filiera di piccole imprese
di rango internazionale nel settore delle biotecnologie, quasi tutte nate da spin-off della ricerca
universitaria.
Occorrono,
quindi, progetti di ricerca universitaria mirati alla creazione di imprese
innovative e di lavoro qualificato. Possono riguardare i campi più diversi: la realizzazione di nuovi
servizi per il terziario avanzato, la produzione di contenuti culturali nella
rete, l'invenzione di nuovi servizi professionali, la cura delle risorse
culturali nazionali, le opportunità della green
economy, le nuove politiche urbane, la creatività artistica e della
comunicazione, lo sviluppo dell'educazione permanente verso standard europei
ecc..
Su questi progetti andrebbero messe alla prova le nuove generazioni,
offrendo opportunità di espressione e di lavoro a quei bravi dottori di ricerca
che non sono interessati alle carriere universitarie e nel contempo non trovano
ancora occupazione nel mondo del lavoro. Questo ampliamento del campo e del
concetto stesso di ricerca universitaria dovrebbe consentire di impegnare
quell’eccedenza formativa con cui dovremo fare i conti per un periodo non
breve. Oggi questi giovani sono abbandonati a loro stessi, spesso illusi con
improbabili contrattini e a volte addirittura sfruttati come manovalanza
intellettuale. Il rapporto tra giovani e università è oggi il massimo
dell’ambiguità, si fa vedere una remota possibilità di accesso in cambio di un
lavoro sottopagato o non pagato affatto. Non c’è cosa più grave per
un’istituzione della conoscenza che mandare messaggi ambigui ai suoi allievi.
Al contrario,
la relazione deve diventare cristallina: molto presto, certo prima dei
quarant’anni, l’istituzione deve dire al giovane studioso se ha i meriti e le
possibilità per intraprendere la carriera accademica. Altrimenti quel giovane, invece di
rimanere parcheggiato inutilmente nei corridoi del dipartimento, può essere
impegnato in seri programmi di ricerca finalizzati a creare nuove opportunità
di lavoro.
Inoltre, si possono
attivare filiere di lavoro aperte alla globalizzazione. Si presenta, ad
esempio, una formidabile occasione nei beni culturali perché è in forte
crescita la domanda mondiale di restauro e di tutela, frutto
di una nuova sensibilità e di accresciute
disponibilità finanziarie nei paesi emergenti. Asia, America del sud, Africa
del Nord, paesi dell'Est sono grandi aree dove crescono gli investimenti nei
beni culturali. L'Italia avrebbe un vantaggio competitivo se fosse in grado di
far crescere una filiera di aziende specializzate nel settore. Chi compra
tulipani probabilmente si rivolge a ditte olandesi; così chi deve fare un
restauro potrebbe essere bendisposto verso un'impresa che opera nel Bel paese.
La tradizione italiana potrebbe costituire un brand molto qualificato
per piccole e medie imprese.
Ma tutto ciò non avviene per caso. Occorre una
politica capace di coordinare diversi soggetti pubblici – dai ministeri
competenti agli enti locali – e di aiutare la crescita di imprese solide –
evitando ad esempio gare al massimo ribasso negli appalti di restauro -
stimolando la qualità delle risorse umane e proiettando il sistema formativo
nell’ottica internazionale. La teoria del
restauro di Cesare Brandi è un libro tradotto in tutto il mondo; il nostro
paese ha i titoli per diventare un centro di formazione di livello mondiale per
i beni culturali. Certo diventa tutto molto più difficile se, come è accaduto
negli ultimi anni, la scuola di formazione del prestigioso Istituto Centrale
del Restauro rimane chiusa per disaccordi burocratici tra il ministero dei Beni
Culturali e quello dell'Università sul riconoscimento legale del titolo di
studio.
Qualche dubbio viene anche dall'accordo del
ministero dei beni culturali con Google per mettere in rete i libri della
Biblioteca Nazionale. Si può fare molto di più e meglio. Siamo il paese degli
archivi e della custodia di grande parte della cultura occidentale. Il nostro
compito non può essere solo quello di fare le fotocopie. Le competenze italiane
nelle humanities possono essere organizzate per produrre i servizi che
nasceranno dalla digitalizzazione. Se vanno in rete i testi della civiltà
romana ci sarà pure bisogno di filologi, archivisti e paleografi che ne
sappiano curare la fruizione. Questi esempi danno una misura del salto
culturale che le strutture pubbliche devono compiere per utilizzare le
opportunità del lavoro italiano all'estero.
Più in generale, bisogna colmare lo scarto
tra la potenza del sapere contemporaneo e la mancanza di lavoro. Di tale
squilibrio la misura più evidente è lo scarto tra l'aumento della produttività
e le diminuzione dei salari reali. A questo si aggiunge la perdita di forza
sindacale, di rappresentanza politica e perfino di presenza nell'immaginario
collettivo. C'è uno squilibrio tra i prodigi delle “moderne cattedrali” e
l'impoverimento dell'homo faber. Colmarlo è un compito non meramente
rivendicativo, ma è il riconoscimento del merito sociale del lavoro da parte
della collettività.
Come è potuto succedere che un'economia
prodigiosa potesse impoverire tanta gente? Eppure abbiamo vissuto un ventennio
formidabile nella crescita della conoscenza, un vero balzo in avanti nella
storia dell'umanità. Non solo per la compresenza di rivoluzioni scientifiche –
la scienza della vita, della materia e dell'informazione – ma per l'opportunità
mai vista prima di rendere accessibili a miliardi di persone i risultati di tali
saperi. Chi si è appropriato degli enormi guadagni di produttività creati da
queste conoscenze? La finanza ha succhiato valore dall'ingegno e dal lavoro di
uomini e donne per accumularlo nelle rendite dell'economia di carta e di
mattone.
Una propaganda martellante vuole convincerci che questo modello
economico è il più favorevole alla crescita della conoscenza. Ma quando gli
storici racconteranno il passaggio di millennio dovranno constatare che una
straordinaria crescita della conoscenza fu intrappolata da un'economia
finanziaria che impedì alla società di cogliere tutti i frutti e di
distribuirli per il bene comune. Agli storici non sfuggirà la contraddizione
principale che a noi contemporanei è resa invisibile dalle ideologie dominanti: aumenta la potenza di trasformazione del
lavoro e diminuisce il suo potere nella ripartizione delle risorse, nella
formazione delle decisioni e nelle finalità della crescita.
Aver impedito al lavoro di raccogliere i
frutti della sua forza ha portato danno all'interesse generale. Dal
ribaltamento della causa della crisi viene l'occasione per rimettere in asse
l'interesse dei lavoratori con il benessere collettivo: la dignità della
persona, il bene comune della conoscenza e la cura dell'ambiente naturale.
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