Riporto qui sul blog la premessa introduttiva al mio libro Sulle orme del gambero, in cui volgo lo sguardo alle generazioni del passato e a quelle del futuro, cercando un filo comune e una comune idea di sinistra. A seguire l'indice dei contenuti.
Premessa generazionale
Se avessi vent’anni, oggi, andrei in piazza. Passerei le mie
giornate a organizzare le lotte popolari. Così facevo del resto all’epoca dei
miei vent’anni. Poi, insieme a tanti della mia generazione, ci siamo
imborghesiti e oggi ci sembrerebbe demodé ripercorrere le gesta giovanili.
Eppure non mancherebbero i motivi e le necessità. Il modo in cui il mondo si è
trasformato non piace a molti di noi, di certo a chi non ha venduto l’anima;
eppure non possiamo dirlo con certezza perché in parte ne portiamo la
responsabilità. E lo vediamo negli occhi dei giovani di oggi, in modo ancora
più lancinante in quelli dei nostri figli, quando ci guardano con l’animo
sospeso di chi vorrebbe almeno una spiegazione dell’insuccesso. Ma spiegarlo è
quasi più difficile che viverlo.
Appartengo a una generazione fortunata. Abbiamo fatto in
tempo a conoscere la grande politica, e anzi a succhiarne la linfa vitale
proprio nel momento della formazione, traendone l’insegnamento che si potesse
plasmare contemporaneamente la nostra vita e l’organizzazione sociale. Non è
andata proprio così, ma quella volontà di potenza ci è rimasta dentro per
sempre. E intorno ai quarant’anni abbiamo avuto la grande occasione per
esercitarla. Siamo entrati nella maturità proprio in quel passaggio d’epoca
segnato dal crollo del muro di Berlino e dalla promessa di un mondo nuovo.
Quelli impegnati nella politica di sinistra hanno avuto la possibilità di
cambiare il paese e le sue città. Ancora di più, quelli che erano stati
comunisti – da sempre all’opposizione – hanno avuto la fortuna di poter
dimostrare, prima di tutto a loro stessi e poi agli altri, che avevano le
capacità di governare meglio delle vecchie classi dirigenti. È stata la grande
occasione della nostra vita politica e l’abbiamo mancata. Non solo non siamo
riusciti a indirizzare il paese in un tornante nuovo della sua storia, ma non
abbiamo saputo impedire che un personaggio inaudito ne prendesse la guida e lo
portasse fuori strada. A me è toccato il privilegio di contribuire al governo
della capitale, ed è stata l’impresa più appassionante della mia vita, a cui ho
dedicato ogni energia. Abbiamo tentato davvero di cambiare Roma, ma non
possiamo dire di esserci riusciti. Avremmo dovuto introdurre dei cambiamenti
impossibili da cancellare per qualsiasi malgoverno successivo. Le vere riforme
sono irreversibili.
La mia generazione ha dunque l’obbligo di stilare un
bilancio. Finora lo ha sempre evitato, senza mai spiegare a se stessa e alle
generazioni successive le ragioni dell’insuccesso. Non lo ha fatto perché
avrebbe voluto dire mettere in discussione quella funzione di comando che
ancora presidia, seppure in modo traballante. Una generazione che è stata capace
a suo tempo di conquistare il potere sa bene anche come conservarlo.
Con il Sessantotto abbiamo fatto la rivoluzione dei costumi.
Per la verità volevamo fare anche la rivoluzione sociale, ma non essendoci
riusciti ci siamo accontentati di gestire il potere senza modificarne gli
assetti. E abbiamo avuto modo di prolungare il nostro primato anche a causa
della debolezza delle generazioni successive. Quella degli anni ottanta persa
dietro ai miti del rampantismo; quella degli anni novanta illusa dalla
globalizzazione irenica, e quella degli anni duemila, presto intimidita dalla
repressione e dai silenzi di Genova. Ma i ventenni di oggi sono la prima forte
generazione politica davvero simile a noi. Non nei contenuti, ma nella forma.
Non nel modo di pensare, forse ancor più lontano di quanto dica l’anagrafe, ma
nella forte condivisione di esperienze collettive. Noi figli del miracolo
economico e loro figli della crisi, ci siamo formati durante fasi di
transizione, quando viene meno il vecchio mondo
e il nuovo non si sa come sarà.
Mi incuriosiscono questi ventenni e cerco di capirli.
Esprimono una forte intensità generazionale poiché si trovano a vivere
cambiamenti quasi antropologici. Intanto sono i primi autentici nativi digitali
che hanno conosciuto la rete quasi mentre apprendevano il linguaggio verbale. E
poi sono cresciuti in un mondo già pienamente globalizzato. Ma ne hanno
conosciuto subito il lato oscuro appena si sono affacciati al mondo del lavoro,
senza diritti e spesso senza qualità. Non sono novità: anche i fratelli
maggiori, quelli di trenta o quarant’anni che ancora vengono chiamati giovani,
hanno vissuto queste esperienze, ma indorate dall’ideologia liberista che le
rendeva affascinanti o perlomeno inevitabili. I ventenni sono più disincantati
e non credono agli annunciatori di magnifiche
sorti. Proprio l’esperienza dei fratelli maggiori li rende più consapevoli
che non vale la pena aspettare lo schiudersi del guscio, sono più determinati
nel romperlo. Sono una generazione più combattiva, non in forza di un’ideologia,
ma proprio perché privi di un’ideologia. In questa carenza c’è il realismo che
li salva dalle bugie raccontate dall’establishment.
Spero ardentemente che tra questi ventenni sorga anche una
nuova leva di militanti politici. Non so se è una speranza fondata o se è solo
un’illusoria proiezione a conclusione della mia lunga esperienza. In ogni caso,
in politica la volontà deve essere sempre un passo avanti alla certezza.
La nostra è una generazione fortunata, ma - qui bisogna aggiungere
- anche massimamente ingenerosa. Molto abbiamo ricevuto dalla
generazione precedente, e ben poco abbiamo consegnato a quella successiva. Ci
siamo nutriti in gioventù degli insegnamenti di grandi personalità incontrate
nei partiti, nei sindacati, nelle organizzazioni culturali. Quando ripenso alla
mia esperienza, alla fortuna di aver conosciuto uomini come Berlinguer, Ingrao,
Petroselli, Trentin, alle riflessioni provocate dai loro discorsi e alla scuola
di rigore che veniva dalla loro autorità, provo un senso di colpa per la sterilità educativa della mia generazione. Ben poco
abbiamo saputo restituire del privilegio ricevuto. Certo, si possono addurre
molte attenuanti, essendo venuti a mancare i luoghi e le culture adatte ad
alimentare una paideia politica, ma c’è
stata anche una deliberata rinuncia da parte della mia generazione. La
comunicazione ha sopraffatto la formazione. Non c’è da stupirsi, poi, se i
criteri di valutazione di un giovane politico che si affaccia al mestiere
diventano la bella presenza e la battuta facile. Il Beruf weberiano è stato scarnificato, immiserito e tecnicizzato
fino a ridursi a un mero prolungamento della comunicazione con altri mezzi. Se
l’obiettivo è il titolo sul giornale di domani, non rimane tempo per formare i
giovani.
Non pretendo certo di risolvere il problema con le mie
forze, ma sento almeno come obbligo di risarcimento quello di dedicare tutto il
mio impegno al dialogo con i giovani militanti di sinistra. Penso oltretutto di
aver molto da imparare dai ventenni, e anzi proprio dal confronto tra noi e
loro possono venire non solo rielaborazioni
del passato ma soprattutto invenzioni per il futuro. A questo dialogo
immaginario con un giovane militante sono dedicate le pagine che seguono.
Esse evitano accuratamente i temi d’attualità. La
concretezza degli argomenti viene dall’esperienza militante – sia nei ricordi
di ieri sia nei dilemmi di oggi – e si cerca di metterla a confronto diretto
con la ricerca teorica. Sono pensieri
militanti, ma solo nella postfazione vengono confessati rivelandone l'intima tensione tra la civetta hegeliana che si alza in volo per comprendere ciò che è stato e la sentinella di Isaia che deve ancora annunciare la fine della notte. Sono pensieri che cercano una relazione inattuale tra teoria e
pratica. Qui se ne discute, ma le soluzioni si trovano solo nell’esperienza
collettiva.
Il Politico è il proprio tempo appreso nell’azione. Chi meglio di un militante
può saperlo?
Nel
torrente della storia bisogna andare indietro sulle orme del gambero per scovare sotto le pietre le cause delle
sconfitte. Solo così si prendono le decisioni
che ribaltano le pietre, che lasciano nella sabbia il lato inciso dalle delusioni e che portano alla luce invece
il lato delle ambizioni, perché
possano farsi accarezzare dal flusso del cambiamento. C’è un riconoscimento da
elaborare, prima di tornare a vincere.
Avendo
assunto questa postura, l’andamento del testo è risultato anomalo. Comincia con
una storia a ritroso per capire le cause vicine e lontane dell’insuccesso della
nostra generazione. Per poi mettere sotto osservazione il suo contributo a quel
ciclo politico italiano che ha deluso le aspettative di una seconda Repubblica. E tuttavia non sono
stati solo limiti soggettivi, ci si è messo contro un ciclo più ampio della
storia mondiale che è generoso chiamare liberista, poiché la crisi lo svela
come grande Inganno. Per ripartire bisogna provare a vedere il mondo a rovescio,
esercitandosi a ribaltare le politiche dominanti, ad esempio per i paesaggi, i
lavori e i saperi. Ma tutto ciò sarà possibile solo riscoprendo la dignità della
politica, afferrando le occasioni che il tempo attuale ci offre, con la
speranza di superare la penuria di una sinistra senza popolo.
Roma,
settembre 2013
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Indice
I. Una storia a ritroso
1. Collasso
2. Il bilancio di una generazione
3. Due dissolvenze dall’Ulivo
4. La fede nuda
5. Identità per sottrazione
6. Il «populismo» comunista
7. L’obsolescenza del «partito nuovo»
8. La svolta e le sue alternative
9. L’eredità di Berlinguer
10. Dopo il compromesso storico
11. Le aspettative dei moderati
12. Innovazione e conformismo
13. Mille rivoli o modello di sviluppo
II. La divagazione della seconda Repubblica
1. La prima Repubblica non è mai finita
2. Le lunghe macerie dell’89
3. Partiti in franchising
4. Riformatore ottimista o pessimista
5. Troppe norme, nessuna decisione
6. Umiltà costituzionale
III. Teoria e pratica dell’Inganno
1. Il destino dell’Occidente
2. Il discorso capitalistico
3. La decisione perduta
IV. Alla rovescia del mondo
1. Paesaggi italiani
2. Le chiamiamo ancora città
3. Utopie-eterotopie
4. Le mura e la piazza
5. Luoghi del saper fare
6. C’eravamo dimenticati della rendita
7. Capitalisti no-global e postcomunisti anglosassoni
8. Potenza e potere del lavoro
9. Breve storia dell’ingegno italiano
10. Le disuguaglianze della conoscenza
11. Salvare il merito dalla meritocrazia
12. Le istituzioni della conoscenza
V. Sulla dignità del Politico
1. Oltre l’irrequietezza
2. La dignità costituente
3. Non è un tempo senza politica
4. Fino a quando sinistra senza popolo?
Postfazione. La civetta e la sentinella
inserisco subito la premessa in eddyburg. Grazie, Walter
RispondiEliminaSono un post-post-sessantottino, uno di quelli che è nato appena dopo i "sessantottini", uno di quelli che è vissuto bene (almeno finora...) senza decider nulla.
RispondiEliminaTanto decidevano tutto loro. Decidono ancora tutto loro. Erano i più grandi ed i più bravi. Dicevano di sapere dove si doveva andare.
Ma la sorte, maligna e beffarda, gli ha dato il Potere, togliendogli l'ideologia, il sogno. Si sono ritrovati baldanzosi ed arroganti a gestire il Potere con tante parole ma poca morale e poche idee. A dichiarare e fare, quasi contemporaneamente, guerre e marce per la pace, a contrastare e favorire sistemi capitalistico-finanziari, a ricevere soldi contemporaneamente dagli odiati padroni e dagli operai di questi, a predicare il merito e a favorire i "compagni". Furbamente confusi.
Dei grandi Padri non hanno mai avuto l'umiltà di star ziti e ritirarsi quando non avessero avuto più nulla da dire o proporre.
Solo ora capiscono che o si è profondamente onesti (non solo intellettualmente) o qualcuno più disonesto e abile di loro avrà sempre la meglio.
Sarà una lettura interessante.
Allora aspetto il seguito, dopo la lettura...
RispondiEliminaLa sinistra, e quella italiana in particolare (tutta la sinistra, anche senza voler entrare nelle numerose - forse troppe - connotazioni che essa assume), da tempo non dà segni di buona salute, quando non appare addirittura assente; e sono in molti a cercare di capire da un lato come questo sia avvenuto, quali ne siano le cause e dove affondino le radici del male, e dall'altro cosa si possa fare per ridare a quello che un tempo nemmeno troppo lontano è stato un corpo robusto e vigoroso almeno una parte della sua vitalità, sì che essa possa tornare a svolgere nella società italiana, come ha fatto in passato, l'influenza che le compete. A tale prospettiva è volto il testo di Walter Tocci.
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