venerdì 31 marzo 2017

Ai circoli per votare Orlando


Nel dibattito nel PD non mancano mai i paradossi. Ora si dice che si svolge un "congresso". Però la parola non compare nello Statuto del partito. E non è stata una dimenticanza, i fondatori del Lingotto volevano evitare a tutti i costi un'esplicita discussione sull'indirizzo politico, facendo affidamento solo sulla conta tra i candidati premier. Gli effetti negativi sono sotto gli occhi di tutti, se solo si volesse vederli. Nei primi dieci anni di vita il PD si è occupato solo di scegliere un leader, nell'ipotesi che poi egli sarebbe stato capace di risolvere tutti gli altri problemi sostanziali: la cultura politica, il programma di governo, la forma organizzativa e la selezione dei dirigenti. Proprio la mancata soluzione di questi problemi ha indebolito i leader fino alla sconfitta. Per tre volte abbiamo alzato al cielo un capo e poi l'abbiamo raccolto nella polvere.

Incuranti degli insuccessi ripetiamo sempre lo stesso copione, stavolta però con un'aggravante. Nelle precedenti conte abbiamo sempre avuto una stella calante e un'altra nascente. Veltroni fu scelto perché si erano logorati i segretari DS e Margherita. Bersani fu eletto perché i fuochi di artificio veltroniani non avevano funzionato. Renzi fu acclamato dopo che Bersani aveva tirato in tribuna un rigore a porta vuota alle elezioni del 2013. Oggi invece la stella calante ripropone stancamente se stessa. Per la prima volta dopo dieci anni la procedura della conta si è inceppata e non offre più neppure l'illusione della novità.

Era il momento di mettere in discussione questa liturgia di acclamazione che ci ostiniamo a chiamare "congresso". Se non ora quando si doveva cambiare lo Statuto? Invece, il segretario in carica ha impedito di modificare le regole, nell'affannosa ricerca di una reinvestitura, anche da perdente.


È bastata una battuta di buon senso da parte di Orlando per aprire in una certa misura un vero congresso, quando ha detto se verrò eletto mi occuperò del partito e poi a ridosso delle elezioni faremo le primarie per il leader insieme agli alleati che dobbiamo cercare. Ha presentato una mozione - un testo ambizioso in forma di tesi congressuali - che offre una base di discussione su l'identità, il programma e l'organizzazione. Il voto a Orlando vale doppio, non solo per sostenere la sua piattaforma politica, ma per tenere vivo un confronto sul futuro del PD. Orlando è l'unica novità; se non ci fosse, gli altri due candidati ridurrebbero la discussione al seguente quesito: volete voi Renzi o l'anti Renzi? Anche questo dilemma è vecchio e ci ha fatto molto male negli anni passati. Piace molto al protagonista che ne ha fatto il suo storytelling - una narrazione solipsistica di cui è ormai prigioniero - ma è stata anche la trappola dell'opposizione interna che non è mai riuscita in tre anni a preparare un'alternativa, fino al punto di celebrare tale incapacità con una scissione. Lo scontro tra due debolezze di maggioranza e di minoranza ha portato il PD alla crisi attuale.

C’è il rischio che i problemi veri rimangano insoluti dopo questa ennesima conta. Se anche prevalesse Renzi sarebbe la vittoria di Pirro. Poi si vedrebbe - già in estate e in autunno – che non è in grado di vincere le elezioni perché ormai ha perso il suo momento. Allora si riaprirà la vera discussione sulla leadership, le alleanze e il programma. A quel punto la svolta sarà tanto più forte quanto più alto sarà stato il voto per Orlando. Ecco perché bisogna sostenere il suo programma, che già anticipa in molte parti una riflessione critica e le necessarie correzioni.

Occorre una valutazione sincera sui tre anni di governo. Prima di tutto valorizzando i buoni risultati, ad esempio: 80 euro come primo passo della redistribuzione del reddito, le unioni civili dopo venti anni di discussioni, le proposte in Europa sull'accoglienza dei migranti. Ci si deve però domandare perché alcune cose sono state realizzate con superficialità e altre non hanno dato i risultati sperati.

Si poteva evitare che la Corte bocciasse la legge elettorale e il popolo rifiutasse la revisione costituzionale. Bastava ascoltare le obiezioni all'Italicum che venivano dall'interno del Pd e dalla cultura giuridica, senza cadere nella vanagloria della legge elettorale più bella del mondo. Non ho condiviso la legge Boschi ma forse sarebbe passata se non si fosse posta la fiducia sul governo, facendone una legge di maggioranza e non autenticamente costituzionale, e ancor di più se non ci fosse stata la personalizzazione del referendum; Renzi sarebbe ancora a Palazzo Chigi con buone chance di vittoria alle prossime elezioni. Invece, si è proseguito personalizzando anche la sconfitta, riducendo tutto all'atto sacrificale delle dimissioni, senza prendere alcuna iniziativa sulle riforme istituzionali che sono possibili anche a Costituzione vigente. Potrei dimostrare - non lo faccio qui per brevità - che almeno una parte degli obiettivi del SI - il miglioramento del bicameralismo e il regionalismo efficiente - si possono ottenere operando sui regolamenti parlamentari e con leggi ordinarie. La rimozione della questione istituzionale rischia di dare l'impressione sgradevole che il cambiamento della Costituzione serviva solo a legittimare la leadership, ma non era animato da un'autentica passione riformatrice.

La ripresa europea sostenuta da Draghi è stata agganciata più debolmente dall’Italia rispetto a tutti gli altri paesi. Eppure è merito del governo Renzi aver forzato le regole per mettere in movimento circa 60 miliardi di euro. Se non fossero stati spesi solo per gli incentivi a singoli e a imprese, se almeno una quota fosse stata impegnata per finanziare investimenti pubblici e privati la crescita economica oggi sarebbe al passo con l’Europa. Tutte le comparazioni economiche dimostrano che la vera anomalia italiana è il crollo degli investimenti. Solo invertendo questa tendenza si sviluppa nuova occupazione. Non si crea lavoro scrivendo leggi sul lavoro, tanto meno se abbassano l’asticella dei diritti. Dalle leggi Treu a oggi la sinistra è sempre caduta in questo tranello; era già capitato al governo D’Alema, è curioso che Renzi abbia ripetuto gli errori del suo antagonista, rivelandosi - non solo per questo - un conservatore e non un innovatore della Seconda Repubblica.

È molto positiva l’approvazione della legge contro la povertà che istituisce un reddito minimo di inclusione, ma i finanziamenti sono sufficienti a soddisfare solo una parte dei bisogni. Se non si fossero regalati miliardi di euro ai proprietari più ricchi con l’abolizione totale dell’Imu, oggi saremmo in grado di assicurare un reddito di inclusione a tutte le famiglie povere. Sarebbe la nostra bandiera per vincere le prossime elezioni.

Sulla scuola non c'era bisogno mettere le dita negli occhi ai sindacati proprio mentre si tornava ad assumere gli insegnanti. E oggi sarebbe un errore tornare al consociativismo sindacale che certo non ha fatto bene alla scuola. Si rischia di passare da un eccesso all'altro perché manca un progetto per la scuola del XXI secolo. Si annunciano riforme, ma in realtà si tratta di leggi farraginose e ripetitive che aumentano solo la burocrazia: la legge della Buona scuola è dieci volte più lunga di quella della media unificata del '62 che aprì all'istruzione di massa in Italia. Oggi, ci vorrebbe un altro balzo in avanti per innalzare anche le competenze degli adulti, purtroppo inadeguate per il 70% della popolazione. Nel mondo nuovo occorre un sistema educativo integrato che consenta una formazione continua per arricchire la cittadinanza e affrontare le mutazioni del mondo del lavoro. Ecco la nuova idea di riforma: la scuola dei bambini e dei ragazzi deve prima di tutto insegnare ad apprendere per tutta la vita, dedicandosi a coltivare la creatività e le conoscenze fondamentali, senza perdersi nei mille rivoli disciplinari. Tutto ciò richiede un ripensamento radicale di come e di che cosa si insegna, l'apertura al contesto sociale e territoriale, e anche la riduzione dei cicli, consentendo ai giovani di uscire a 18 anni come accade per i coetanei europei. Sono tutte innovazioni neppure sfiorate dalla Buona scuola, ma è la prospettiva per il futuro.

Il futuro dei giovani italiani è legato al destino dell'Europa. Non si può accettare passivamente il declino del sogno europeo. Certo, ha fatto bene Renzi a chiedere un cambiamento della politica economica, ma bisogna tenere anche un equilibrio nella polemica, l'atteggiamento rivendicativo non si attaglia a un paese fondatore, e soprattutto non dobbiamo accarezzare il pelo alla tendenza antieuropea, non saremmo neppure credibili se volessimo rubare il mestiere ai populisti, gli elettori sceglierebbero l'originale invece della copia.

La critica deve sempre accompagnarsi alla proposta di una nuova idea di Europa, come ha voluto sottolineare Orlando partecipando alla marcia per l'Europa a Roma. La crisi attuale non dipende solo dall'indirizzo economico e dal faticoso sistema decisionale, ma innanzitutto dalla rinuncia a svolgere un ruolo nella politica internazionale. Questo era il compito che giustificò la delega di sovranità: si diceva nei primi anni Novanta che i singoli paesi europei rischiavano di scomparire come attori nella globalizzazione, e che potevano contare nel mondo solo unendosi in una potenza continentale. Ma proprio qui si è fatto sentire il silenzio della politica europea.

L'Europa si è chiusa in se stessa a fare i conti di Maastricht, ha voltato le spalle al Mediterraneo e oggi non ha gli strumenti per affrontare i problemi che provengono dall'antico mare. In questo spazio si giocano tutte le questioni geopolitiche del secolo che viene: pace e guerra, religione e politica, migrazioni e accoglienza, riconversione energetica e ambiente, crescita economica e cooperazione nord-sud.

Tutto diventerà più difficile a causa dell'incredibile frattura atlantica che rischia di intaccare una relazione secolare tra le due sponde. La destra anglosassone chiude la globalizzazione con Trump e la Brexit dopo averla aperta trent'anni fa con Reagan e Thatcher. Si apre una faglia nella cultura occidentale tra chi vuole innalzare i muri e chi cerca il dialogo con il mondo. A questa sfida deve rispondere un nuovo atlantismo della cooperazione promosso dai socialisti europei e dai democratici americani. È il compito storico del Partito democratico italiano, perché si è dato questo nome alludendo all'esempio obamiano, perché è piantato nel Mediterraneo e perché costituisce la forza più grande del partito socialista europeo. Renzi è stato bravo a collocare il Pd nel Pse, ha indovinato il tema ma lo svolgimento è stato superficiale come spesso gli capita, e tutto si è ridotto alla bella foto dei cinque leader socialisti scamiciati alla festa dell'Unità.

Il Pd trova la sua ragione storica se diventa un protagonista della politica internazionale, niente di più e niente di meno. Per questo ha bisogno di cambiare profondamente, deve dotarsi di una classe dirigente autorevole, colta e popolare, deve conquistare consensi attraverso la convinzione senza ricorrere agli artifici elettorali, deve ritrovare l'amicizia con tutte le forze culturali, sociali, economiche del progressismo italiano ed europeo.

Fondare un partito mai visto prima in Italia, un moderno partito popolare e riformatore, questo era il sogno che nel 2007 suscitò tante speranze e adesioni di giovani che non avevano mai partecipato alla politica. Dopo dieci anni dovremmo domandarci perché abbiamo deluso quelle speranze, scopriremmo che le responsabilità riguardano tutti e sono equamente distribuite tra le attuali maggioranze e minoranze. Questo riconoscimento sincero e insieme l'impegno a voltare pagina già sarebbero un vero congresso di ricostruzione del PD, come propone la mozione Orlando.

Nessuno dei tre leader che abbiamo acclamato alle primarie si è mai occupato del partito, tutti lo hanno utilizzato come veicolo per Palazzo Chigi, con esiti fallimentari o almeno deludenti. Così fu per Veltroni e per Bersani e da ultimo Renzi è stato quello che aveva promesso il cambiamento più radicale, la rottamazione addirittura il lanciafiamme. Eppure, basta guardare a Roma dopo tre anni la situazione è solo peggiorata: i notabili comandano come prima, nel frattempo si è data tutta la colpa ai circoli, scambiando gli effetti con le cause e soprattutto scoraggiando ciò che abbiamo di più prezioso, la militanza volontaria e appassionata di migliaia di donne e di uomini. 
La gestione del partito a Roma è stata devastante: la vergogna del notaio che dimette il sindaco eletto dal popolo, l'umiliante risultato elettorale ottenuto con la sicumera di fare tutto da soli - senza neppure prendere in considerazione una lista civica per ampliare le alleanze -, il commissariamento senza fine che ha spento le luci del PD in città. La nostra opposizione si riduce a un continuo litigio via Twitter con i grillini, in una rissa che avvantaggia solo loro. Non si ha notizia di proposte e di iniziative del PD sulla riforma istituzionale della Città Metropolitana e della trasformazione dei Municipi in Comune, sulla realizzazione delle metropolitane e dei tram in periferia, sulle promozione delle produzioni culturali dell'antico e del contemporaneo.

Eppure, vado in giro e incontro tante associazioni di cittadinanza attiva, esperienze di innovazione sociale e culturale, proposte dei settori economici e sindacali. Spesso ad animarle sono sinceri democratici, nostri militanti che si sono allontanati, elettori rimasti delusi. Ma sono convinto che molti di loro si aspettano ancora che il Pd torni a fare politica, a emendare se stesso, ad ascoltare umilmente le critiche e le proposte, a mobilitare le forze del cambiamento, ad aprire le porte ai giovani che vogliono innovare la politca.

Il Pd è un progetto ancora da realizzare; il primo decennio è stato sprecato nell'acclamazione di leader perdenti; il secondo decennio deve mettere a frutto le sue risorse migliori, le passioni civili, le competenze di governo, le rappresentanze sociali. C'è un popolo democratico di militanti ed elettori che si è sempre mobilitato generosamente nei momenti decisivi della democrazia italiana. Quel popolo diventerà imbattibile quando il Pd metterà a disposizione una classe dirigente autorevole e popolare.

3 commenti:

  1. Walter, tu che , con grande impegno personale e senza aiuti, hai (molto giustamente) ritenuto utile prendere due lauree, una umanistica ed una scientifica, suggerisci di votare chi non ne ha neanche una ? Mi spiace, no. Da Internet: Andrea Orlando laurea: il ministro della Giustizia, come altri ministri tra cui la Fedeli, Poletti, Lorenzin, non sono laureati. Andrea Orlando, infatti, si è iscritto all'Università di Pisa alla facoltà di Giurisprudenza senza concluderla.
    PS l'intero governo Iraniano, e buona parte del Parlamento di quel nobile e mal compreso Paese, è costituito da persone con il Dottorato di Ricerca (conseguibile in 4 anni e mezzo dopo i 5 anni di laurea).

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    1. Sono anni che ho stracciato la tessera del PD, ma andrò a votare Orlando quando ne avrò diritto. La prima volta che ho visto ed ascoltato Orlando è stato in occasione di un incontro promosso da Italiani Europei. Nel suo intervento ha affrontato il problema della riforma della giustizia, pur non essendo laureato in legge. Mi è, oltretutto, sembrato assolutamente privo di carisma. Onestamente ho pensato: ecco un altro uomo di D'Alema.
      Quando è diventato ministro ero assolutamente orripilata.... Eppure, l'ho ascoltato recentemente e mi è sembrato maturato da diversi punti di vista. Continua purtroppo a non possedere carisma (a quanto pare nel PD continuano ad avere fortuna gli uomini "ombra" che non intaccano le varie leadership), ma saremo costretti a votarlo per bloccare Renzi e la deriva democristiana del partito. Veltroni parlava di partito liquido e alla fine è riuscito a liquidarlo del tutto grazie al suo pupillo.Speriamo che alle primarie vinca il meno peggio.... ossia Orlando. Nikita Russka

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  2. cambierei la frase finale :
    C'è un popolo democratico ....... Quel popolo diventerà imbattibile quando il Movimento 5 Stelle metterà a disposizione una classe dirigente autorevole e popolare. Sono ancora lontani ma ci arriveranno.

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