giovedì 25 ottobre 2018

Solo un'irruzione democratica può salvare il PD

Di seguito si può leggere un capitolo del saggio pubblicato sulla rivista "Appunti di cultura e politica" (n. 4 del 2018), fondata da Pietro Scoppola. 


Gli elettori democratici, anche quelli temporaneamente autosospesi, sono sconcertati per la mancanza di uno strumento politico adeguato a fronteggiare la più marcata svolta a destra della storia repubblicana..

Qui si misura lo scarto: ci sarebbe bisogno di un PD capace di produrre grande politica, ma ci ritroviamo un'organizzazione debole, confusa e isolata. Ci vuole realismo nel descrivere l'esito del decennio: volevamo costruire il partito degli elettori e ci ritroviamo quello degli eletti, volevamo ripensare una grande forza popolare e ci ritroviamo le cordate dei notabili, volevamo creare uno strumento di partecipazione alla vita politica e ci ritroviamo una casamatta con le porte chiuse.
Nessun leader si è mai occupato dell'organizzazione, ma le cose non sono rimaste ferme, anzi i processi spontanei hanno determinato un modello in una certa misura originale: il partito in franchising . Esso unisce un carattere antecedente al partito di massa - il notabile giolittiano che gestisce il sistema di potere locale - e un carattere post partito di massa - il leader mediatico che cerca il rapporto immediato con il popolo. Il leader non risponde dei comportamenti disinvolti dei notabili, e questi non discutono le giravolte dell'indirizzo politico, poiché sono sempre pronti a cambiare il brand per continuare a fare le stesse cose. Quanti esponenti locali hanno conservato il potere dichiarandosi prima veltroniani, poi bersaniani e infine renziani.

Questa forma non conquista voti per il partito, ma solo preferenze per il notabile; non si appassiona alle grandi riforme, ma vive di gestione del potere; non mobilita i cittadini e le competenze, anzi li avverte come un fastidio; non educa i giovani alla libertà, ma chiede solo fedeltà.

È una forma politica verticale che duplica il dominio dall'alto, a livello mediatico e a livello locale. I sostenitori non hanno occasione di partecipare attivamente, perché sono spettatori della recitazione di un leader indiscutibile - almeno finché è sulla cresta dell'onda - e sono vincolati dalle cordate che gestiscono il territorio. Eppure la novità delle primarie voleva imprimere una forma marcatamente orizzontale basata sulla partecipazione diretta degli elettori. Ne è venuto fuori un partito ortogonale e quindi strutturalmente instabile, perché non in grado di coniugare le due divergenti direttrici.

In un'inconsapevole inversione tra causa ed effetto, oggi si tende a dare la colpa di tutto alle primarie e alla molteplicità culturale. È colpa, invece, del partito in franchising se le primarie sono degenerate in una resa di conti tra i notabili sostenuti dai brand dei leader mediatici. Potevano funzionare solo in un partito veramente basato sul potere degli elettori.

La molteplicità culturale è una risorsa preziosa. Non ha funzionato perché è diventata la copertura di filiere che si sono ammantate di idealità per conservare il proprio potere. Ma sarebbe un disastro ritornare alla separazione tra centro e sinistra, come viene suggerito da diversi fondatori pentiti. La sinistra da sola si fa prendere la mano dalla nostalgia del passato e dal massimalismo. Il centro da solo inasprisce le sue pregiudiziali e finisce per rendere impossibile perfino l'alleanza elettorale.

Lo stravolgimento delle innovazioni del PD dipende dal primato assoluto del ceto politico sopra ogni altra dimensione della vita di partito. Ecco perché l'inaridimento delle radici sociali, l'indifferenza verso la cittadinanza attiva, l'estraneità verso i centri di produzione culturale, la selezione dei dirigenti senza meriti, ecc. C'è stata una polemica da destra sulla Casta che ha inteso mortificare la politica, ma ora ci sarebbe bisogno di una critica da sinistra al ceto politico che ha soffocato sul nascere il sogno di un partito democratico e popolare.

Come è potuto accadere? Oggi forse è più chiara la causa storico-politica che riguarda le due componenti fondative. Il cattolicesimo democratico e la sinistra postcomunista hanno esaurito la capacità generativa con il crollo del muro di Berlino. Più di quanto ammettessero erano infatti legate alle condizioni della guerra fredda. Nei decenni successivi hanno svolto un ruolo importante, ma più per il patrimonio accumulato che per una rielaborazione delle rispettive idealità. Da qui l'atteggiamento conservatore delle classi politiche, entrambe di ottimo livello, che si sono trasformate in ceti politici per poter gestire l'eredità rinunciando a vivificarla. Hanno fatto fallire l'Ulivo perché minacciava il loro primato, implicava una rielaborazione culturale e l'invenzione di nuove forme di partecipazione politica. Poi ne hanno ripreso l'ispirazione fondando il PD, ma sotto la loro supremazia. Da questo peccato originale viene la contraddizione fondamentale: una guida oligarchica per un progetto che voleva arricchire la partecipazione politica.

Nell'ipostasi del ceto politico si sono espressi i vizi e smarrite le virtù delle rispettive tradizioni. La generazione postcomunista - lo dico con dolore perché è la mia - porta le maggiori responsabilità del fallimento del progetto. Per il semplice motivo che ne ha sempre tenuto saldamente in mano la guida e, pur essendo attraversata da lacerazioni e perfino da odi personali, ha impedito che esponenti di altre culture insidiassero il comando. Una sorta di "centralismo democratico" del ceto politico postcomunista. La mancata elezione di Romano Prodi al Quirinale è la data che conclude la tradizione comunista in Italia, ben oltre la Bolognina. Che poi alcuni eredi del partito di massa abbiano concluso la carriera con una scissione del 3% aggiunge solo una nota di tristezza alla storia. Al contrario, la generazione postcomunista non ha saputo portare in dote al PD la virtù della propria tradizione, la quale, al di là della sua ideologia, costituiva un'infrastruttura democratica del Paese.

Il ceto politico del cattolicesimo democratico si è acquattato nella posizione minoritaria, specializzandosi nella manovra interna e difendendo le postazioni con un rilancio della forma notabilare. Questa poi si è estesa all'intero PD, perché è stata assunta con entusiasmo anche dai dirigenti postcomunisti, ormai liberati dai freni inibitori che avevano sempre impedito la personalizzazione. Però nella versione del ceto politico la forma notabilare si è rinsecchita e ha perduto quel radicamento sociale che alimentava le grandi correnti democristiane.

Al contrario, gli esponenti cattolici non hanno mai avuto la forza o l'intenzione di contaminare l'organizzazione del PD con i fermenti culturali, la generosità del volontariato e il rigore etico, cioè con le virtù del proprio mondo.

Per uno scherzo della storia, proprio un giovane erede di quella tradizione, Matteo Renzi, che poteva finalmente portare il cattolicesimo democratico fuori dalla lunga minorità, né ha invece sancito la fine, come dichiarò esplicitamente in uno dei suoi rari articoli di ambizione teorica.

Quindi, le due tradizioni fondative non solo non hanno regalato i loro frutti migliori al PD, ma ne hanno giustificato la riduzione a ceto politico. Eppure, i momenti germinali delle due tradizioni tornano di attualità, i principi fondamentali trovano nuove occasioni nei conflitti contemporanei, le motivazioni etiche sono interpellate dai problemi del nostro tempo. La crescita delle diseguaglianze e le ineffabili forme di dominio suscitano in tanti giovani nuove lotte per la giustizia sociale, con gli stessi valori ma con linguaggi diversi dalla tradizione socialista. Il magistero di Papa Francesco sembra ricreare l'occasione attesa da Giuseppe Dossetti - tanto desiderata da indurlo ad abbandonare la politica per il convento - che cioè solo la riforma della Chiesa possa davvero suscitare un rinnovamento autentico dell'agire politico.

Oggi le due tradizioni fondative sono una zavorra se assunte nei loro esiti, ma costituiscono ancora una generatività se reinterpretate nelle loro origini. Tuttavia, per invertire la fine con l'inizio occorre rompere la cappa di piombo che ha impedito al partito democratico di esprimere le sue migliori energie. Si può salvare il PD solo liberandolo dal suo ceto politico.

È possibile? È realistico? Credo di sì, ma occorre una forte volontà di superamento di ciò che siamo diventati, una capacità di diventare alternativi a noi stessi, come diceva Aldo Moro.

Nonostante tutto le risorse per la rigenerazione esistono ancora. Anzi, è come se convivessero come separati in casa due partiti: il "piccolo PD" del ceto politico che perde tutte le elezioni, che chiude le porte, che fallisce le prove di governo; ma poi esiste almeno in potenza il "grande PD" costituito da un elettorato esigente e pronto alla mobilitazione quando è convinto dalla buona politica, da una leva di giovani amministratori che inventa nuove esperienze di governo, dal mondo della cultura e delle competenze che sarebbe disponibile a dare una mano, dalle organizzazioni della cittadinanza attiva che cerca un dialogo, dalle forze sociali che vorrebbero confrontarsi sulle riforme, da una nuova generazione di militanti alleggerita di retaggi ideologici ma desiderosa di cambiare il Paese.

Finora il piccolo ha dominato il grande, ma non può durare così. La sconfitta elettorale, la delegittimazione degli attuali dirigenti e le sfide terribili aperte dal governo di destra, tutto ciò chiama a un impegno straordinario. Non si può rimanere a guardare, non basta più recriminare sugli errori, non si può attendere un altro salvatore della patria, bisogna rafforzare l'unico strumento che abbiamo per rinnovare la politica in Italia e in Europa.

Mettiamola così, il "grande Pd" deve fare irruzione nel "piccolo PD", gettare via le suppellettili dei mercanti del Tempio, aprire le porte alla partecipazione dei cittadini e aiutare la formazione di nuovi dirigenti all'altezza del compito.

Può sembrare un programma ardito, ma l'irruzione è ormai un movimento ordinario della politica contemporanea. I partiti sono sempre più fluidi e cambiano in modo vorticoso, senza i tempi e le liturgie dei vecchi congressi. Perfino i partiti di tradizione secolare sono cambiati all'improvviso: il movimento del Tea Party ha mutato in pochi anni la natura del partito repubblicano americano fino a portare Trump alla vittoria; Sanders ha guidato una nuova generazione a sostenere una piattaforma socialista dentro il partito democratico e i giovani candidati come Alexandria Ocasio-Cortez battono consumati notabili nelle ultime primarie; Corbyn ha condotto il Labour molto lontano dalla politica blairiana; Macron ha assorbito il partito socialista francese con un'irruzione fin troppo distruttiva. Ma lo stesso PD ha già conosciuto un'irruzione con Renzi che, dopo la sconfitta di Bersani, alimentò nuove energie e aspettative, purtroppo ampiamente deluse.

Non si possono definire i tempi e i modi dell'irruzione, proprio perché è per sua natura un movimento caotico e imprevedibile. Però è già utile parlarne apertamente.

Ciascun elettore democratico oggi deve contribuire alla salvezza del PD, con i mezzi di cui dispone o è capace, pratici o intellettuali, sociali o individuali, di testimonianza o di attivismo. Solo un fermento di partecipazione politica può creare l'humus fertile per la generazione di una nuova classe dirigente democratica. Saranno poi nuovi dirigenti a chiamarci a nuove battaglie e a inedite ambizioni.

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