venerdì 20 settembre 2019

Roma 2030

Qui si può ascoltare il mio intervento al convegno Roma 2030 organizzato da Domenico De Masi per la Camera di Commercio di Roma:

https://www.radioradicale.it/scheda/584284/roma-2030-idee-per-roma?i=4032520

Di seguito si può leggere il testo dell'intervento:


La crisi di Roma è più grave di come appare. Non voglio dire che ci sia qualcosa di più grave degli autobus in fiamme, dei rifiuti per strada, del discredito nazionale e internazionale. Tutto ciò è la superficie visibile, ma c’è una crisi più profonda.

È finito il ciclo storico iniziato a Porta Pia. Il vecchio modello di capitale, la città coloniale di Pasolini, non ha futuro. Siamo vissuti con tre rendite: il centralismo statale, il consumo immobiliare della campagna romana, il simbolo di un’immeritata eredità storica. Pur con tanti squilibri le tre rendite hanno trasformato un piccolo borgo papalino ottocentesco in una delle più grandi città europee. È evidente, però, che le rendite non funzioneranno più nel secolo appena cominciato. Quando di esaurisce un ciclo storico si aprono le buche non solo nelle strade, ma anche nell'economia, nella società e nella politica. E ciò apre domande difficili e appassionanti: di che cosa vivrà Roma? Quale forma urbana si darà? Come potrà rielaborare l’antico nella produzione culturale contemporanea? Sarà importante celebrare i 150 anni della capitale, ma senza nostalgia per il passato, anzi come occasione per ripensarne il modello e il senso.

Ci sono tante emergenze da risolvere, affanni quotidiani da affrontare, servizi da migliorare, ma si possono fare le piccole cose solo avendo in mente un’ambizione per il secolo nuovo. Non vale il contrario: se manca l’ambizione non si realizzano neppure le piccole cose, come è sotto gli occhi di tutti.

Accade alle città, come alle nostre vicende personali, perfino alle relazioni d'amore, che il pensiero ritorni all'inizio proprio quando finisce una storia. Allora ripensiamo ai sentieri interrotti. che abbandonammo per prendere la strada principale, che ora però si è esaurita.
Prima di Porta Pia, ai governanti della destra storica i grandi intellettuali europei - Mommsen, Gregorovius e altri - rivolsero un ammonimento e una domanda. Rimasero appunto dei sentieri interrotti, ma sono quanto mai attuali.

L'ammonimento era questo: state attenti a non chiudere Roma nell'angustia nazionale, perché è una città per sua natura universale. Quintino Sella, il più grande tra loro, rispondeva che non sarebbe stata una città burocratica e neppure una città industriale, ma un centro di produzione culturale. Utilizzava un'espressione bellissima - il luogo del "cozzo delle idee" - per sottolineare che la conoscenza si produce nel confronto e anche nel conflitto dei saperi. Al netto della retorica romantica e idealistica è una proposta contemporanea. Nella globalizzazione Roma non ha ancora giocato la sua carta migliore di essere città del mondo. E ciò vale oggi in due sensi: la città aperta al mondo perché capace di ripensare il carattere universale, non solo per l'eredità del passato, ma per le innovazioni contemporanee. E in senso inverso, il mondo entra in città con le persone migranti che portano le lingue, le speranze e il saper fare da 150 paesi lontani; da come Roma saprà governare la transizione multiculturale dipenderà la sua fortuna nel secolo appena cominciato.

Il papato di Bergoglio è un faro mondiale per il ripudio delle guerre e delle ingiustizie e rilancia la centralità religiosa e morale di Roma. È l'occasione per affermarne anche una missione politica come luogo di iniziative per la pace e la cooperazione tra paesi ricchi e poveri. Nella capitale italiana si potrebbero svolgere forum permanenti, convegni di studio, confronti diplomatici informali come quelli di S. Egidio, incontri delle organizzazioni non governative, dialoghi interreligiosi sulle grandi questioni internazionali. Dovrebbe avere l'ambizione di capitale del Mediterraneo che si occupa del futuro dell'Africa e cerca di convincere l’Europa a non girare più le spalle all'antico mare. Il Mediterraneo non è il confine, è l’origine dell’Europa.
Non a caso Mimmo De Masi ha posto in esergo al suo libro una riflessione fulminante  di Ludovico Quaroni: "È una città che quando non è quella di tutti nel mondo, è solo la miseria morale di un paese".
La funzione internazionale si misura nella capacità attrattiva dei giovani. Sono loro che indicano le tracce dell'innovazione urbana, come si è visto a Berlino negli ultimi venti anni.
Purtroppo, qui si registra la principale inadeguatezza. Non solo non arrivano ma c'è un esodo di giovani verso l'estero. Eppure per tutta l'epoca moderna il viaggio a Roma è stato un elemento irrinunciabile della formazione dei giovani creativi europei. Questa tradizione può essere rinnovata. Nel mondo c'è una crescente domanda di formazione specializzata.
Si può immaginare un polo mondiale di formazione sull'arte e la città. A realizzarlo dovrebbero essere chiamate le nostre accademie, gli istituti dei beni culturali, l'Auditorium e le università e i centri di cultura stranieri, circa un centinaio, che potrebbero diventare un formidabile veicolo di internazionalizzazione.
Anche le nostre università possono fare di più per la città. Governare il sistema urbano è oggi prima di tutto un problema cognitivo, richiede sempre più l'innesto di conoscenze nell'organizzazione della vita collettiva e nel contempo comporta un apprendimento sociale dei saperi urbani. Non può essere affidato solo ad apporti individuali di professori come consulenti e talvolta come assessori
L'università dovrebbe essere coinvolta nel governo locale in modo sistematico. Basti pensare alla funzione decisiva che i due Politecnici di Torino e Milano hanno svolto nella transizione postindustriale di quelle città. A Roma ci sono competenze scientifiche e tecnologiche perfino superiori. Si fatica a vedere, anche in questo convegno, la capitale della scienza e della tecnologia: uno dei migliori dipartimenti di fisica nel mondo, una scuola di matematica attestata ad alto livello per oltre un secolo, l'Istituto Superiore di Sanità che è stato crocevia di alcuni premi Nobel, la filiera aerospaziale che lanciò il primo satellite nello spazio, dopo i russi e gli americani, e di recente ha contribuito con il suo radar alla rilevazione della presenza dell'acqua su Marte. Tutte queste competenze sono disperse nei dipartimenti delle tre università e nei centri di ricerca, ma potrebbero essere integrate - almeno nell'attività di ricerca, pur rimanendo distinte nelle organizzazioni accademiche - per costituire un virtuale Politecnico di Roma, in grado di guidare la transizione tecnologica della città.

Veniamo all'altro sentiero interrotto, la domanda rivolta dagli intellettuali europei ai governanti italiani: come risolverete il problema dell’Agro romano? Il tema veniva dalla letteratura del gran tour che aveva rappresentato lo stupore e il timore dei visitatori nell'attraversare, dopo il bel paesaggio toscano, la campagna malarica, misteriosa e selvaggia. Era il grande vuoto, rappresentato dal Belli come un deserto in cui si trova solo la "bbarrozza cor barrozzaro ggiù mmorto ammazzato". Infatti, l’Agro romano diventa, nella seconda metà dell’Ottocento, un tema per diversi saperi: la ricerca sulla malaria; lo studio del giovane Sombart sullo sviluppo locale; l'ingegneria della bonifica; la pittura del paesaggio e così via. Ma nel Novecento il problema è stato risolto nel modo peggiore, esportando la periferia prima nella campagna e poi nell'area regionale. 

La chiamiamo ancora Roma, utilizziamo il nome storico per una conurbazione che ha modificato una geografia secolare. L’espansione edilizia ha piallato i caratteri dell’Agro romano e ha omologato le due alterità originarie del litorale e dei Castelli. Sono nate periferie alla «seconda potenza» intorno ai nuclei storici come Fiano, Monterotondo, Guidonia e Tivoli, che in alcuni casi moltiplicano la marginalità locale con quella verso Roma.
Eppure, nonostante la dissennata espansione edilizia, la campagna romana sarebbe ancora un organismo ambientale prezioso per la vita della città, se smettessimo di vederla come un vuoto da colmare col cemento e l'asfalto.
Non si è attuata l'utopia dell'Asse Attrezzato che voleva spostare il centro terziario nella periferia orientale. Ma è stato realizzato l'anello terziario e commerciale del Gra nella nebulosa dell'abusivismo. Più di un milione di romani vivono in insediamenti frantumati e sconnessi, senza trasporto pubblico, in condizioni non urbane. Trasformare questa corona, generando tessuti connettivi e integrandoli con i valori ambientali, facendo emergere le città del Gra, questa è la più grande questione di politica urbana del nuovo secolo.
Nonostante la sua fragilità, questa corona, insieme alla bretella Fiano-Valmontone, svolge oggi la funzione di piattaforma per gli scambi con l'Italia centrale, tramite i centri commerciali, le attività produttive e i nodi della logistica, come la nuova sede di Amazon a Passo Corese. Si va configurando una regione della capitale, che non è più solo un'estensione della città. Si notano fermenti innovativi nel Lazio, soprattutto nella nuova agricoltura e nelle innovazioni industriali, ma lo sguardo della politica e dei media è rivolto prevalentemente verso il centro. Roma non può chiudersi nel municipalismo, ha bisogno intorno a sé di una regione strutturata, produttiva e molteplice. Le città europee che negli ultimi trent'anni hanno compiuto il salto della rana nella traiettoria dello sviluppo hanno avuto il pieno sostegno delle rispettive aree regionali. Basti considerare la forza della Catalogna per Barcellona e quella della Baviera per Monaco.

La priorità è la rete dei trasporti su ferro. C'è una grande opportunità non ancora messa a frutto: la conclusione dell'Alta Velocità ha alleggerito il traffico nazionale sulle ferrovie per Napoli e per la Toscana, le cui potenzialità non sono state ancora riutilizzate pienamente nel trasporto locale. È possibile dotare il territorio romano-laziale di una moderna rete di metropolitane regionali, come le S-Bhan tedesche o la RER parigina. Non è solo una politica dei trasporti, ma è la leva per innescare una nuova economia del territorio. Le stazioni rinnovate dovrebbero mettere a frutto il vantaggio localizzativo per attrarre nuove attività di servizio e di innovazione nelle filiere turistiche, agricole, ambientali, di beni sociali e di nuove tecnologie.
E basta con la favoletta che mancano i soldi per la cura del ferro. Negli ultimi venti anni il Comune non ha portato al ministero nessun progetto esecutivo per il finanziamento di nuove opere di trasporto oltre quelle già in cantiere, nessun nuovo tram, metro o ferrovia. Mentre i politici romani ripetevano la cantilena dei soldi mancanti, gli amministratori di Napoli e Milano presentavano progetti esecutivi e ottenevano circa 4 miliardi di euro. Il fondo nazionale degli investimenti non è ancora impegnato per il 70%. Non mancano i soldi, mancano la volontà politica e soprattutto la capacità di elaborare progetti esecutivi, anche a causa dell'indebolimento delle tecnostrutture di ingegneria.
Come si vede nel cantiere della metro C. Il tempo stringe: a fine anno la talpa che viene da San Giovanni arriverà al Colosseo e poi, come previsto dal contratto, proseguirà per un breve tratto fermandosi proprio sotto il Foro di Traiano. Se non si presentano al ministero i progetti per proseguire l'opera la talpa sarà abbandonata in profondità, perché diventerà impossibile tirarla fuori. Spero ancora che il Comune si svegli, altrimenti i futuri archeologi, fra cento anni, troveranno sotto il foro di Traiano realizzato dal grande Apollodoro di Damasco l'ammasso di ferraglie della talpa, come monumento della stupidità della nostra epoca, che si ritiene la più moderna di tutte.

Riassumendo, quindi, i due sentieri interrotti di Roma capitale - il cozzo delle idee e la rinascita dell'Agro - possono essere riattualizzati nel rilancio della vocazione internazionale e nella strutturazione di qualità dell'area regionale.
Non è solo un ampliamento di orizzonti globali e locali, ma è un cambiamento di paradigma. Se la capitale otto-novecentesca è stata generata dalla coppia città-nazione, la capitale del nuovo secolo troverà le sue opportunità nella coppia regione-mondo. La prima coppia ha attivato relazioni verticali, di natura politico-burocratica, nell'economia esogena e protetta. La seconda coppia va pensata come un insieme di relazioni orizzontali, di natura sociale e culturale, nell'economia endogena e creativa. Il passaggio dal paradigma verticale a quello orizzontale rappresenta la transizione dalla capitale in sé a quella per sé. Fin qui siamo vissuti con la rendita della storia millenaria. Nella capitale in sé non c'era bisogno di aggiungere nulla, poiché ogni cosa scaturiva dall'immeritata eredità delle generazioni precedenti. Il futuro, invece, dipenderà dalla capitale per sé, cioè dalla capacità della generazione contemporanea e di quelle successive di rielaborare in modo originale il simbolo e la funzione di Roma nel nuovo mondo.
Quando si rinuncia a tali ambizioni, vince il provincialismo dei sindaci che vanno con il cappello in mano a chiedere al governo qualche soldo in più. Anche quando ottengono qualcosa, la città paga un prezzo molto più alto in termini di discredito nazionale per il trattamento di favore, come è già accaduto. Non bisogna mai rompere l'intesa con le altre città italiane sulla ripartizione della spesa corrente. E bisogna sempre saper giustificare gli investimenti sulla capitale come interesse del Paese intero. Ai sindaci di oggi e di domani bisogna ricordare che Governare Roma non può mai essere una rivendicazione municipale, è sempre una responsabilità nazionale e internazionale.

La capitale per sé non ha bisogno di trattamenti di favore, ce la può fare con le proprie forze se ottiene dal Parlamento una coraggiosa riforma istituzionale.

Il vecchio Comune è obsoleto, è troppo grande e troppo piccolo. Troppo grande rispetto alla vita di quartiere e ai servizi alla persona. Troppo piccolo rispetto ai processi demografici, economici, ambientali e logistici che hanno superato di gran lunga i confini municipali. Lo dico crudamente, bisogna cancellare il vecchio Comune per trasferire le sue funzioni in due direzioni: in basso verso gli attuali Municipi trasformandoli in veri Comuni - sulla cui porta si dovrà scrivere: qui è vietato dire non è di mia competenza - e in alto verso la Città Metropolitana che oggi è una scatola vuota, ma può diventare il governo strategico dell'area vasta.

Oggi al governo si sono alleati due partiti che fino a ieri hanno polemizzato duramente su Roma. Come risolveranno la contraddizione? Certo non sarebbe elegante fare finta di nulla, ma non si può rimanere prigionieri del passato. Entrambi i partiti dovrebbero essere interessati ad aprire un campo nuovo del confronto impegnandosi insieme, come governo, nel proporre al Parlamento una riforma istituzionale della capitale, aprendo un dialogo con la destra. Tutti i partiti dovrebbero contribuire alla riforma per poi competere alle prossime elezioni per il governo di istituzioni che saranno più efficaci e credibili.

Poi, se si aprirà una vera riforma del regionalismo, non quello differenziato che spacca il Paese, ma la riduzione del numero delle regioni, quindi con regioni più grandi, si potrà proporne una più piccola, la Regione della capitale. Sarebbe l'occasione per conferire il potere legislativo alla città, aiutandola così a svolgere il primario compito internazionale. Con un assetto istituzionale molto più vicino a quello di Berlino, di Parigi e di Londra
Se però la riforma si riducesse solo a una nuova ingegneria dei poteri locali sarebbe destinata al fallimento prima di cominciare. Deve essere, invece, l'occasione per rifondare su basi nuove la macchina amministrativa: revisione e chiarificazione di tutte le procedure; nuova cultura organizzativa; formazione permanente e ringiovanimento del personale e ampliamento dello spettro professionale, non solo amministrativi, ma anche sociologi, pedagogisti, economisti, ingegneri, urbanisti, tecnologi, perfino blogger per comunicare meglio. L'eliminazione del Comune consente di fare tabula rasa delle rendite di posizione e delle incrostazioni corporative. D'altro canto, non sono sufficienti i pannicelli caldi per uscire dall'attuale collasso della macchina comunale.
Soprattutto ci vuole molta determinazione per affrontare i due più grandi problemi di Roma: Atac e Ama. Diciamo la verità, non sono più servizi pubblici, sono pericoli pubblici. Sono pericoli per il bilancio comunale e soprattutto per la vita quotidiana della città. Sono carrozzoni inefficienti e corporativi che dissipano risorse all'interno e solo quello che avanza lo danno ai cittadini. Ed è sempre di meno. L'Atac oggi produce un servizio inferiore al livello per cui è finanziata dal Comune. Quindi i soldi ci sono ma non producono servizio per i cittadini. La media della produzione è diminuita del 30% rispetto ai primi anni Duemila, ma in periferia la diminuzione supera il 50%. In alcune borgate sono rimaste solo le paline a testimoniare che una volta ci passava l'autobus. Atac e Ama fanno male soprattutto alla povera gente. Basta con la conservazione di questi carrozzoni, vanno rivoltati come un pedalino, non solo per renderli più efficaci, ma per ripensarne la logica di funzionamento.

Le nuove generazioni non avranno più il mito dell'automobile in proprietà e useranno in modi intelligenti i mezzi della mobilità sostenibile, car-sharing, car-pooling, bici, pattini e altri mezzi tecnologici che verranno. Le aziende pubbliche del futuro dovranno sostenere questa capacità dei cittadini di scegliere diverse modalità di trasporto, dovranno integrare i mezzi innovativi e flessibili con le tradizionali reti fisse, e governare i big data dei flussi di mobilità. Analogamente, i rifiuti, invece di caricarli sui treni, almeno quelli biologici potrebbero essere usati come concime negli oltre tremila ettari di terreni agricoli di cui oggi è proprietario il Comune; sarebbe l'avvio dell'economia circolare. Non abbiamo più bisogno di vecchie aziende pubbliche fordiste basate solo sulla forza lavoro di venti mila dipendenti, peraltro gestita molto male, ma di agenzie pubbliche che accompagnino i cambiamenti degli stili di vita. Il servizio pubblico del futuro consisterà nell'organizzazione dell'intelligenza sociale. Sarebbe fantastico se si affermasse una nuova idea di servizio pubblico proprio dove è naufragata la vecchia concezione. Sarebbe un passo rilevante verso la capitale per sé.

Infine, tutto ciò però conduce a una domanda cruciale: Roma possiede la linfa sociale per rifiorire?

Occorre uno sguardo positivo sulla città, per scoprire le esperienze che stanno aprendo strade nuove, e per aiutarle a crescere con nuove politiche pubbliche. Pur nella crisi economica più dura di tutti i tempi si notano tentativi di risposta: c'è un forte aumento del numero di imprese, anche se spesso in settori maturi; c'è un protagonismo delle donne nel proporre nuovi servizi sociali e imprenditoriali. Si mantengono vivaci alcuni settori dell'innovazione, come il farmaceutico, e anche le start-up costituiscono una scommessa di giovani intraprendenti.
C'è una popolazione giovanile che ha la testa rivolta verso le frontiere tecnologiche, come dimostra lo straordinario successo di pubblico del Market Faire promosso dalla Camera di Commercio, che farà convergere tra qualche settimana alla Fiera di Roma da tutta Europa gli artigiani digitali e le migliori realizzazioni di robotica, intelligenza artificiale, internet delle cose, edilizia sostenibile, mobilità dolce, tecnologie per la salute ecc. 

È lo stesso spirito innovativo che si ritrova in tante esperienze di quartiere, nella cura degli spazi pubblici, nel recupero di edifici dismessi, nella coltivazione degli orti urbani, nell'invenzione di luoghi di produzione culturale, nel buongoverno di alcuni Municipi, in certe scuole di periferia aperte giorno e sera che sperimentano nuove didattiche, riportano anche gli adulti all'educazione permanente e insegnano a leggere e a scrivere ai ragazzi che parlano cento lingue del mondo.
Ci sono due nomi che richiamano immediatamente gli stereotipi negativi:
Tor Bella Monaca e Corviale. Certo non mancano problemi drammatici, ma oggi sono anche i quartieri di più intensa sperimentazione sociale, con un volontariato appassionato, associazioni sportive, imprese sociali, biblioteche moderne, teatri e perfino gallerie d'arte.   

Furono operazioni urbanistiche realizzate con le buone intenzioni di eliminare i borghetti e costruire le case per i lavoratori, fu una grande politica sociale. Pesò negativamente, però, la maldestra gestione delle assegnazioni che concentrò le figure di disagio sociale, e poi l'incuria dei luoghi che prosegue anche oggi. Ma sono anche i frutti amari di un razionalismo urbanistico che è sempre rimasto estraneo alle forme di vita popolare. Eppure dispongono di un patrimonio, più ricco di altri quartieri, di spazi, di aree, giardini e di immobili pubblici che oggi potrebbe costituire il volano della riqualificazione.
Vi consiglio la lettura di Ghetti, il libro di Goffredo Buccini che di queste storie ripercorre luci e ombre. A un certo l'autore si domanda come mai i turisti vanno a Marsiglia a visitare l'unità di abitazione di Le Corbusier e nessuno va a Corviale che rappresenta pienamente quella controversa stagione urbanistica. Mimmo De Masi mi ha chiesto di tentare l'utopia in questo intervento. Obbedisco: chissà, nel 2030 Corviale sarà uno dei luoghi più interessanti per i romani e per i turisti, non solo per la riqualificazione della funzione residenziale già in atto, ma per la collocazione sul tetto delle statue di Roma antica, in un museo originale e aperto verso l'immensità della campagna romana ancora integra in quella direzione, come propone Carmelo Baglivo.

Le risorse sociali della città dovrebbero essere mobilitate dalla buona politica, ma ciò non avviene ed è questo il punto di massima crisi dell'ultimo decennio.
I partiti si sono trasformati in macchine del ceto politico senza radicamento sociale e senza linfa culturale, e di conseguenza si chiudono nella conservazione dell'esistente, non governano il futuro di Roma.

La logica di ceto è diffusa sia a destra sia a sinistra e perfino chi era nato per spazzarla via l'ha imparata presto e male, come è sotto gli occhi di tutti. A questo punto la politica deve essere vivificata da una forte mobilitazione civica. Tutte le esperienze sociali, culturali ed economiche che stanno realizzando dei cambiamenti devono osare di più, devono entrare in relazione tra loro e prendersi nuove responsabilità. Dalle migliori energie della società romana può sgorgare una nuova classe dirigente.
Sappiamo quanto è difficile coagulare le forze del cambiamento, forse bisogna cominciare anche da gesti semplici. Tutti coloro che stanno facendo qualcosa di buono per la città dovrebbero intanto riconoscersi, magari mettendo un fiocco nel vestito uscendo di casa. Quando incontriamo per strada qualcuno con il fiocco lo fermiamo e gli chiediamo qual'é il suo progetto e magari troviamo il modo di realizzarlo insieme o di inventarne uno nuovo coinvolgendo altre persone. Sarebbe un contributo all'interpretazione esortativa del verso pasoliniano: non si piange su una città coloniale. Il convegno di oggi è un buon esempio: rimbocchiamoci le maniche, facciamo tutti qualcosa per la rinascita di Roma.




4 commenti:

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  2. Tolstoj e qualcuno dopo si poneva la domanda: "che fare?".....oggi la domanda è:"chi lo farà?". Fedora rigotti magari ha intuito che questa tua battaglia sarà un sentiero interrotto, ma non tu "non mollare". Bravo!

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