https://www.radioradicale.it/scheda/584284/roma-2030-idee-per-roma?i=4032520
Di seguito si può leggere il testo dell'intervento:
La crisi di Roma è più grave di come appare. Non voglio dire che ci sia
qualcosa di più grave degli autobus in fiamme, dei rifiuti per strada, del
discredito nazionale e internazionale. Tutto ciò è la superficie visibile, ma
c’è una crisi più profonda.
È finito il ciclo storico iniziato a Porta
Pia. Il vecchio modello di capitale, la città coloniale di Pasolini, non ha
futuro. Siamo vissuti con tre rendite: il centralismo statale, il consumo
immobiliare della campagna romana, il simbolo di un’immeritata eredità storica.
Pur con tanti squilibri le tre rendite hanno trasformato un piccolo borgo
papalino ottocentesco in una delle più grandi città europee. È evidente, però,
che le rendite non funzioneranno più nel secolo appena cominciato. Quando di
esaurisce un ciclo storico si aprono le buche non solo nelle strade, ma anche
nell'economia, nella società e nella politica. E ciò apre domande difficili e
appassionanti: di che cosa vivrà Roma? Quale forma urbana si darà? Come potrà
rielaborare l’antico nella produzione culturale contemporanea? Sarà importante
celebrare i 150 anni della capitale, ma senza nostalgia per il passato, anzi
come occasione per ripensarne il modello e il senso.
Ci sono tante emergenze da risolvere,
affanni quotidiani da affrontare, servizi da migliorare, ma si possono fare le
piccole cose solo avendo in mente un’ambizione per il secolo nuovo. Non vale il
contrario: se manca l’ambizione non si realizzano neppure le piccole cose, come
è sotto gli occhi di tutti.
Accade alle città, come alle nostre
vicende personali, perfino alle relazioni d'amore, che il pensiero ritorni
all'inizio proprio quando finisce una storia. Allora ripensiamo ai sentieri interrotti. che abbandonammo per prendere la strada principale,
che ora però si è esaurita.
Prima di Porta Pia, ai governanti della
destra storica i grandi intellettuali europei - Mommsen, Gregorovius e altri -
rivolsero un ammonimento e una domanda. Rimasero appunto dei sentieri
interrotti, ma sono quanto mai attuali.
L'ammonimento era questo: state attenti a
non chiudere Roma nell'angustia nazionale, perché è una città per sua natura
universale. Quintino Sella, il più grande tra loro,
rispondeva che non sarebbe stata una città burocratica e neppure una città
industriale, ma un centro di produzione culturale. Utilizzava un'espressione
bellissima - il luogo del "cozzo delle idee" - per sottolineare che
la conoscenza si produce nel confronto e anche nel conflitto dei saperi. Al netto della retorica romantica e
idealistica è una proposta contemporanea. Nella globalizzazione Roma non ha
ancora giocato la sua carta migliore di essere città del mondo. E ciò vale oggi
in due sensi: la città aperta al mondo perché capace di ripensare il carattere universale, non solo per l'eredità del
passato, ma per le innovazioni contemporanee. E in senso inverso, il mondo entra in città con le
persone migranti che portano le lingue, le speranze e il saper fare da 150
paesi lontani; da come Roma saprà governare la transizione multiculturale dipenderà
la sua fortuna nel secolo appena cominciato.
Il papato di Bergoglio è un faro mondiale
per il ripudio delle guerre e delle ingiustizie e rilancia la centralità
religiosa e morale di Roma. È l'occasione per affermarne anche una missione
politica come luogo di iniziative per la pace e la cooperazione tra paesi
ricchi e poveri. Nella capitale italiana si potrebbero svolgere forum
permanenti, convegni di studio, confronti diplomatici informali come quelli di
S. Egidio, incontri delle organizzazioni non governative, dialoghi
interreligiosi sulle grandi questioni internazionali. Dovrebbe avere
l'ambizione di capitale del Mediterraneo che si occupa del futuro dell'Africa e
cerca di convincere l’Europa a non girare più le spalle all'antico mare. Il
Mediterraneo non è il confine, è l’origine dell’Europa.
Non
a caso Mimmo De Masi ha posto in esergo al suo libro una riflessione fulminante
di Ludovico Quaroni: "È una città
che quando non è quella di tutti nel mondo, è solo la miseria morale di un
paese".
La funzione
internazionale si misura nella capacità attrattiva dei giovani. Sono loro che
indicano le tracce dell'innovazione urbana, come si è visto a Berlino negli
ultimi venti anni.
Purtroppo, qui si registra la principale
inadeguatezza. Non solo non arrivano ma c'è un esodo di giovani verso l'estero.
Eppure per tutta l'epoca moderna il viaggio a Roma è stato un elemento
irrinunciabile della formazione dei giovani creativi europei. Questa tradizione
può essere rinnovata. Nel mondo c'è una crescente domanda di formazione
specializzata.
Si può immaginare un polo
mondiale di formazione sull'arte e la città. A realizzarlo dovrebbero essere
chiamate le nostre accademie, gli istituti dei beni culturali, l'Auditorium e
le università e i centri di cultura stranieri, circa un centinaio, che
potrebbero diventare un formidabile veicolo di internazionalizzazione.
Anche le nostre
università possono fare di più per la città. Governare il sistema urbano è oggi
prima di tutto un problema cognitivo, richiede sempre più l'innesto di
conoscenze nell'organizzazione della vita collettiva e nel contempo comporta un
apprendimento sociale dei saperi urbani. Non può essere affidato solo ad
apporti individuali di professori come consulenti e talvolta come assessori
L'università dovrebbe
essere coinvolta nel governo locale in modo sistematico. Basti pensare alla
funzione decisiva che i due Politecnici di Torino e Milano hanno svolto nella
transizione postindustriale di quelle città. A Roma ci sono competenze
scientifiche e tecnologiche perfino superiori. Si fatica a vedere, anche in
questo convegno, la capitale della scienza e della tecnologia: uno dei migliori
dipartimenti di fisica nel mondo, una scuola di matematica attestata ad alto
livello per oltre un secolo, l'Istituto Superiore di Sanità che è stato
crocevia di alcuni premi Nobel, la filiera aerospaziale che lanciò il primo
satellite nello spazio, dopo i russi e gli americani, e di recente ha
contribuito con il suo radar alla rilevazione della presenza dell'acqua su
Marte. Tutte queste competenze sono disperse nei dipartimenti delle tre
università e nei centri di ricerca, ma potrebbero essere integrate - almeno
nell'attività di ricerca, pur rimanendo distinte nelle organizzazioni
accademiche - per costituire un virtuale Politecnico di Roma, in grado di
guidare la transizione tecnologica della città.
Veniamo all'altro sentiero interrotto, la
domanda rivolta dagli intellettuali europei ai governanti italiani: come risolverete il problema dell’Agro romano? Il tema veniva
dalla letteratura del gran tour
che aveva rappresentato lo stupore e il timore dei visitatori
nell'attraversare, dopo il bel paesaggio toscano, la campagna malarica,
misteriosa e selvaggia. Era il grande vuoto, rappresentato dal Belli come un
deserto in cui si trova solo la "bbarrozza cor barrozzaro ggiù mmorto
ammazzato". Infatti, l’Agro romano diventa, nella seconda metà dell’Ottocento,
un tema per diversi saperi: la ricerca sulla malaria; lo studio del giovane Sombart
sullo sviluppo locale; l'ingegneria della bonifica; la pittura del paesaggio e
così via. Ma nel Novecento il problema è stato risolto nel modo peggiore,
esportando la periferia prima nella campagna e poi nell'area regionale.
La
chiamiamo ancora Roma, utilizziamo il nome storico per una conurbazione che ha
modificato una geografia secolare. L’espansione edilizia ha piallato i
caratteri dell’Agro romano e ha omologato le due alterità originarie del
litorale e dei Castelli. Sono nate periferie alla «seconda potenza» intorno ai
nuclei storici come Fiano, Monterotondo, Guidonia e Tivoli, che in alcuni casi
moltiplicano la marginalità locale con quella verso Roma.
Eppure,
nonostante la dissennata espansione edilizia, la campagna romana sarebbe ancora
un organismo ambientale prezioso per la vita della città, se smettessimo di
vederla come un vuoto da colmare col cemento e l'asfalto.
Non si
è attuata l'utopia dell'Asse Attrezzato che voleva spostare il centro terziario
nella periferia orientale. Ma è stato realizzato l'anello terziario e
commerciale del Gra nella nebulosa dell'abusivismo. Più di un milione di romani
vivono in insediamenti frantumati e sconnessi, senza trasporto pubblico, in
condizioni non urbane. Trasformare questa corona, generando tessuti connettivi
e integrandoli con i valori ambientali, facendo emergere le città del Gra,
questa è la più grande questione di politica urbana del nuovo secolo.
Nonostante
la sua fragilità, questa corona, insieme alla bretella Fiano-Valmontone, svolge
oggi la funzione di piattaforma per gli scambi con l'Italia centrale, tramite i
centri commerciali, le attività produttive e i nodi della logistica, come la
nuova sede di Amazon a Passo Corese. Si va configurando una regione della
capitale, che non è più solo un'estensione della città. Si notano fermenti innovativi nel
Lazio, soprattutto nella nuova agricoltura e nelle innovazioni industriali, ma
lo sguardo della politica e dei media è rivolto prevalentemente verso il
centro. Roma non può chiudersi nel municipalismo, ha bisogno intorno a sé di
una regione strutturata, produttiva e molteplice. Le città europee che negli
ultimi trent'anni hanno compiuto il salto della rana nella traiettoria dello
sviluppo hanno avuto il pieno sostegno delle rispettive aree regionali. Basti
considerare la forza della Catalogna per Barcellona e quella della Baviera per
Monaco.
La priorità è la rete dei
trasporti su ferro. C'è una grande opportunità non ancora messa a frutto: la
conclusione dell'Alta Velocità ha alleggerito il traffico nazionale sulle
ferrovie per Napoli e per la Toscana, le cui potenzialità non sono state ancora
riutilizzate pienamente nel trasporto locale. È possibile dotare il territorio
romano-laziale di una moderna rete di metropolitane regionali, come le S-Bhan
tedesche o la RER parigina. Non è solo una politica dei trasporti, ma è la leva
per innescare una nuova economia del territorio. Le stazioni rinnovate
dovrebbero mettere a frutto il vantaggio localizzativo per attrarre nuove
attività di servizio e di innovazione nelle filiere turistiche, agricole,
ambientali, di beni sociali e di nuove tecnologie.
E basta con la favoletta che mancano i
soldi per la cura del ferro. Negli ultimi venti anni il Comune non ha portato
al ministero nessun progetto esecutivo per il finanziamento di nuove opere di
trasporto oltre quelle già in cantiere, nessun nuovo tram, metro o ferrovia.
Mentre i politici romani ripetevano la cantilena dei soldi mancanti, gli
amministratori di Napoli e Milano presentavano progetti esecutivi e ottenevano
circa 4 miliardi di euro. Il fondo nazionale degli investimenti non è ancora
impegnato per il 70%. Non mancano i soldi, mancano la volontà politica e soprattutto
la capacità di elaborare progetti esecutivi, anche a causa dell'indebolimento
delle tecnostrutture di ingegneria.
Come si vede nel cantiere della
metro C. Il tempo stringe: a fine anno la talpa che viene da San Giovanni
arriverà al Colosseo e poi, come previsto dal contratto, proseguirà per un
breve tratto fermandosi proprio sotto il Foro di Traiano. Se non si presentano
al ministero i progetti per proseguire l'opera la
talpa sarà abbandonata in profondità, perché diventerà impossibile tirarla fuori. Spero
ancora che il Comune si svegli, altrimenti i futuri archeologi, fra cento anni,
troveranno sotto il foro di Traiano realizzato dal grande Apollodoro di Damasco
l'ammasso di ferraglie della talpa, come monumento della stupidità della nostra
epoca, che si ritiene la più moderna di tutte.
Riassumendo, quindi, i due sentieri
interrotti di Roma capitale - il cozzo delle idee e la
rinascita dell'Agro - possono essere riattualizzati nel rilancio della
vocazione internazionale e nella strutturazione di qualità dell'area regionale.
Non è solo un ampliamento
di orizzonti globali e locali, ma è un cambiamento di paradigma. Se la capitale
otto-novecentesca è stata generata dalla coppia città-nazione, la capitale del
nuovo secolo troverà le sue opportunità nella coppia regione-mondo. La prima
coppia ha attivato relazioni verticali, di natura politico-burocratica,
nell'economia esogena e protetta. La seconda coppia va pensata come un insieme
di relazioni orizzontali, di natura sociale e culturale, nell'economia endogena
e creativa. Il passaggio dal paradigma verticale a quello orizzontale
rappresenta la transizione dalla capitale in sé a quella per sé. Fin qui siamo vissuti con la rendita della storia
millenaria. Nella capitale in sé non c'era bisogno di aggiungere nulla, poiché
ogni cosa scaturiva dall'immeritata eredità delle generazioni precedenti. Il
futuro, invece, dipenderà dalla capitale per sé, cioè dalla capacità della
generazione contemporanea e di quelle successive di rielaborare in modo
originale il simbolo e la funzione di Roma nel nuovo mondo.
Quando si rinuncia a tali ambizioni, vince
il provincialismo dei sindaci che vanno con il cappello in mano a chiedere al
governo qualche soldo in più. Anche quando ottengono qualcosa, la città paga un
prezzo molto più alto in termini di discredito nazionale per il trattamento di
favore, come è già accaduto. Non bisogna mai rompere l'intesa con le altre
città italiane sulla ripartizione della spesa corrente. E bisogna sempre saper
giustificare gli investimenti sulla capitale come interesse del Paese intero.
Ai sindaci di oggi e di domani bisogna ricordare che Governare Roma non può mai essere una rivendicazione
municipale, è sempre una responsabilità nazionale e internazionale.
La capitale per sé non ha bisogno di
trattamenti di favore, ce la può fare con le proprie forze se ottiene dal
Parlamento una coraggiosa riforma istituzionale.
Il vecchio Comune è obsoleto, è troppo
grande e troppo piccolo. Troppo grande rispetto alla vita di quartiere e ai
servizi alla persona. Troppo piccolo rispetto ai processi demografici,
economici, ambientali e logistici che hanno superato di gran lunga i confini
municipali. Lo dico crudamente, bisogna cancellare il vecchio Comune per
trasferire le sue funzioni in due direzioni: in basso verso gli attuali Municipi
trasformandoli in veri Comuni - sulla cui porta si dovrà scrivere: qui è
vietato dire non è di mia competenza - e in alto verso la Città Metropolitana
che oggi è una scatola vuota, ma può diventare il governo strategico dell'area
vasta.
Oggi al governo si sono alleati due
partiti che fino a ieri hanno polemizzato duramente su Roma. Come risolveranno
la contraddizione? Certo non sarebbe elegante fare finta di nulla, ma non si
può rimanere prigionieri del passato. Entrambi i partiti dovrebbero essere
interessati ad aprire un campo nuovo del confronto impegnandosi insieme, come
governo, nel proporre al Parlamento una riforma istituzionale della capitale,
aprendo un dialogo con la destra. Tutti i partiti dovrebbero contribuire alla
riforma per poi competere alle prossime elezioni per il governo di istituzioni
che saranno più efficaci e credibili.
Poi, se si aprirà una vera riforma del
regionalismo, non quello differenziato che spacca il Paese, ma la riduzione del
numero delle regioni, quindi con regioni più grandi, si potrà proporne una più
piccola, la Regione della capitale. Sarebbe l'occasione per conferire il potere
legislativo alla città, aiutandola così a svolgere il primario compito
internazionale. Con un assetto istituzionale molto più vicino a quello di
Berlino, di Parigi e di Londra
Se però la riforma si riducesse solo a una nuova ingegneria dei
poteri locali sarebbe destinata al fallimento prima di cominciare. Deve essere,
invece, l'occasione per rifondare su basi nuove la macchina amministrativa:
revisione e chiarificazione di tutte le procedure; nuova cultura organizzativa;
formazione permanente e ringiovanimento del personale e ampliamento dello
spettro professionale, non solo amministrativi, ma anche sociologi,
pedagogisti, economisti, ingegneri, urbanisti, tecnologi, perfino blogger per
comunicare meglio. L'eliminazione del Comune consente di fare tabula rasa delle
rendite di posizione e delle incrostazioni corporative. D'altro canto, non sono
sufficienti i pannicelli caldi per uscire dall'attuale collasso della macchina
comunale.
Soprattutto ci vuole molta determinazione
per affrontare i due più grandi problemi di Roma: Atac e Ama. Diciamo la
verità, non sono più servizi pubblici, sono pericoli pubblici. Sono pericoli
per il bilancio comunale e soprattutto per la vita quotidiana della città. Sono
carrozzoni inefficienti e corporativi che dissipano risorse all'interno e solo
quello che avanza lo danno ai cittadini. Ed è sempre di meno. L'Atac oggi
produce un servizio inferiore al livello per cui è finanziata dal Comune.
Quindi i soldi ci sono ma non producono servizio per i cittadini. La media della
produzione è diminuita del 30% rispetto ai primi anni Duemila, ma in periferia
la diminuzione supera il 50%. In alcune borgate sono rimaste solo le paline a
testimoniare che una volta ci passava l'autobus. Atac e Ama fanno male
soprattutto alla povera gente. Basta con la conservazione di questi carrozzoni,
vanno rivoltati come un pedalino, non solo per renderli più efficaci, ma per
ripensarne la logica di funzionamento.
Le nuove generazioni non avranno più il
mito dell'automobile in proprietà e useranno in modi intelligenti i mezzi
della mobilità sostenibile, car-sharing, car-pooling, bici, pattini e altri
mezzi tecnologici che verranno. Le aziende pubbliche del futuro dovranno
sostenere questa capacità dei cittadini di scegliere diverse modalità di
trasporto, dovranno integrare i mezzi innovativi e flessibili con le
tradizionali reti fisse, e governare i big data dei flussi di mobilità. Analogamente, i rifiuti,
invece di caricarli sui treni, almeno quelli biologici potrebbero essere usati
come concime negli oltre tremila ettari di terreni agricoli di cui oggi è
proprietario il Comune; sarebbe l'avvio dell'economia circolare. Non abbiamo
più bisogno di vecchie aziende pubbliche fordiste basate solo sulla forza
lavoro di venti mila dipendenti, peraltro gestita molto male, ma di agenzie
pubbliche che accompagnino i cambiamenti degli stili di vita. Il servizio
pubblico del futuro consisterà nell'organizzazione dell'intelligenza sociale.
Sarebbe fantastico se si affermasse una nuova idea di servizio pubblico proprio
dove è naufragata la vecchia concezione. Sarebbe un passo rilevante verso la
capitale per sé.
Infine, tutto ciò però conduce a una
domanda cruciale: Roma possiede la linfa sociale per rifiorire?
Occorre uno sguardo positivo sulla città,
per scoprire le esperienze che stanno aprendo strade nuove, e per aiutarle a
crescere con nuove politiche pubbliche. Pur nella crisi economica più dura di
tutti i tempi si notano tentativi di risposta: c'è un forte aumento del numero
di imprese, anche se spesso in settori maturi; c'è un protagonismo delle donne
nel proporre nuovi servizi sociali e imprenditoriali. Si mantengono vivaci
alcuni settori dell'innovazione, come il farmaceutico, e anche le start-up
costituiscono una scommessa di giovani intraprendenti.
C'è una popolazione giovanile che ha la
testa rivolta verso le frontiere tecnologiche, come dimostra lo straordinario
successo di pubblico del Market Faire promosso dalla Camera di Commercio, che
farà convergere tra qualche settimana alla Fiera di Roma da tutta Europa gli
artigiani digitali e le migliori realizzazioni di robotica, intelligenza
artificiale, internet delle cose, edilizia sostenibile, mobilità dolce,
tecnologie per la salute ecc.
È lo stesso spirito innovativo che si
ritrova in tante esperienze di quartiere, nella cura degli spazi pubblici, nel
recupero di edifici dismessi, nella coltivazione degli orti urbani,
nell'invenzione di luoghi di produzione culturale, nel buongoverno di alcuni
Municipi, in certe scuole di periferia aperte giorno e sera che sperimentano
nuove didattiche, riportano anche gli adulti all'educazione permanente e
insegnano a leggere e a scrivere ai ragazzi che parlano cento lingue del mondo.
Ci sono due nomi che
richiamano immediatamente gli stereotipi negativi:
Tor
Bella Monaca e Corviale. Certo non mancano problemi drammatici, ma oggi sono
anche i quartieri di più intensa sperimentazione sociale, con un volontariato
appassionato, associazioni sportive, imprese sociali, biblioteche moderne,
teatri e perfino gallerie d'arte.
Furono
operazioni urbanistiche realizzate con le buone intenzioni di eliminare i borghetti
e costruire le case per i lavoratori, fu una grande politica sociale. Pesò
negativamente, però, la maldestra gestione delle assegnazioni che concentrò le
figure di disagio sociale, e poi l'incuria dei luoghi che prosegue anche oggi.
Ma sono anche i frutti amari di un razionalismo urbanistico che è sempre
rimasto estraneo alle forme di vita popolare. Eppure dispongono di un
patrimonio, più ricco di altri quartieri, di spazi, di aree, giardini e di immobili
pubblici che oggi potrebbe costituire il volano della riqualificazione.
Vi
consiglio la lettura di Ghetti, il
libro di Goffredo Buccini che
di queste storie ripercorre luci e ombre. A un certo l'autore si domanda come
mai i turisti vanno a Marsiglia a visitare l'unità di abitazione di Le
Corbusier e nessuno va a Corviale che rappresenta pienamente quella controversa
stagione urbanistica. Mimmo De Masi mi ha chiesto di tentare l'utopia in questo
intervento. Obbedisco: chissà, nel 2030 Corviale sarà uno dei luoghi più
interessanti per i romani e per i turisti, non solo per la riqualificazione
della funzione residenziale già in atto, ma per la collocazione sul tetto delle
statue di Roma antica, in un museo originale e aperto verso l'immensità della
campagna romana ancora integra in quella direzione, come propone Carmelo Baglivo.
Le risorse sociali della città dovrebbero
essere mobilitate dalla buona politica, ma ciò non avviene ed è questo il punto
di massima crisi dell'ultimo decennio.
I partiti si sono trasformati in macchine
del ceto politico senza radicamento sociale e senza linfa culturale, e di
conseguenza si chiudono nella conservazione dell'esistente, non governano il
futuro di Roma.
La logica di ceto è diffusa sia a destra
sia a sinistra e perfino chi era nato per spazzarla via l'ha imparata presto e
male, come è sotto gli occhi di tutti. A questo punto la politica deve essere
vivificata da una forte mobilitazione civica. Tutte le esperienze sociali,
culturali ed economiche che stanno realizzando dei cambiamenti devono osare di
più, devono entrare in relazione tra loro e prendersi nuove responsabilità.
Dalle migliori energie della società romana può sgorgare una nuova classe dirigente.
Sappiamo quanto è difficile coagulare le
forze del cambiamento, forse bisogna cominciare anche da gesti semplici. Tutti
coloro che stanno facendo qualcosa di buono per la città dovrebbero intanto
riconoscersi, magari mettendo un fiocco nel vestito uscendo di casa. Quando
incontriamo per strada qualcuno con il fiocco lo fermiamo e gli chiediamo
qual'é il suo progetto e magari troviamo il modo di realizzarlo insieme o di
inventarne uno nuovo coinvolgendo altre persone. Sarebbe un contributo all'interpretazione
esortativa del verso pasoliniano: non si piange su una città coloniale. Il
convegno di oggi è un buon esempio: rimbocchiamoci le maniche, facciamo tutti
qualcosa per la rinascita di Roma.
Caro Signore / Signora,
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Tolstoj e qualcuno dopo si poneva la domanda: "che fare?".....oggi la domanda è:"chi lo farà?". Fedora rigotti magari ha intuito che questa tua battaglia sarà un sentiero interrotto, ma non tu "non mollare". Bravo!
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