mercoledì 1 settembre 2021

Ricordando Nicolini a villa Ada

Ho partecipato al dibattito in ricordo di Nicolini il 25 luglio a villa Ada:  La Bella Estate di Roma. Le politiche culturali prima e dopo l'estate romana di Renato Nicolini. quali visioni possibili?

Di seguito potete leggere il testo del mio intervento, che poi è stato pubblicato come introduzione al bel libro curato da Marco Testoni, Renato Nicolini. La gioiosa anomalia, Edizioni Efesto.


Quando mi capita di ricordare Renato Nicolini sono combattuto tra due sentimenti divergenti, di dolore e di speranza.

Di dolore perché mi manca il colloquio con lui; ho il rimpianto di non aver passato più tempo insieme negli ultimi anni. Ma il dolore più intenso è in un certo senso collettivo e lo esprimo a nome della nostra generazione, anche se non sono autorizzato, e forse molti miei coetanei non sono neppure d’accordo. Per la nostra generazione intendo i dirigenti del Pci del tempo. Noi non lo abbiamo compreso e non lo abbiamo sostenuto come avremmo dovuto. E lui ne ha sempre sofferto, pur senza darlo a vedere. Non a caso il suo ultimo articolo, scritto un mese prima della morte, è una dura critica rivolta alla sua, alla nostra, generazione.

L’altro sentimento, la speranza, mi prende quando incontro giovani che comprendono Nicolini meglio di noi, pur non avendolo conosciuto di persona, e soprattutto attualizzano la sua opera, anche inconsapevolmente, e la rendono generativa di altre opere.

Per questo è interessante parlarne qui stasera con cari amici che sono più giovani di me, con Stefano Simoncini, con Camilla De Boni e con Christian Raimo, che nel suo libro Roma non è eterna ha dedicato uno splendido capitolo a Renato, indicando ben 14 cose che ci mancano di lui. E ciascuno di noi potrebbe aggiungerne altre, in una sorta di gioco della memoria.

Che cosa ci manca di lui? A chi manca? Perché ci manca? Forse perché è stato il più grande politico romano del secondo Novecento.

La grandezza di un politico consiste nell’anticipare i processi storici e aprire nuove prospettive. Sappiamo tutto dei piccoli politici di oggi che non sono niente di diverso da quello che appaiono. Dei grandi politici, invece, la comprensione è lenta, difficile e soprattutto postuma.

L’opera nicoliniana va collocata in quella faglia storica tra la fine dei Trenta Gloriosi e l’inizio del ciclo reaganiano, la cui scossa tellurica ha provocato effetti devastanti che durano ancora oggi.

Tutto cambia in quegli anni, soprattutto il rapporto tra Politica e Cultura. Le giunte di sinistra erano il frutto di un’alleanza tra il movimento di emancipazione delle borgate e i fermenti culturali del dopoguerra. Era stata la grande stagione che chiamavamo Intellettuali e Popolo, ma finisce proprio in quella faglia storica. Nicolini è l’unico politico in grado di comprendere che non ci saranno quel Popolo e quegli Intellettuali. È l’unico ad indicare una via d’uscita originale e appunto incompresa. Ho un ricordo amaro delle dure reprimende che gli rivolgevano gli intellettuali organici nelle riunioni al chiuso di via dei Frentani o di Botteghe Oscure.

Immaginate se alla morte di Petroselli fosse diventato sindaco Nicolini, come qualcuno propose timidamente nelle segrete stanze; forse non era possibile per il Pci prendere tale decisione, ma certamente avrebbe avuto effetti imprevedibili.

Quel Popolo non c’è già più alla fine degli anni settanta: i legami sociali della periferia cominciano a frantumarsi, nuove eterogeneità sociali sono innescate dai processi sociali postfordisti, uno spaesamento segna la vita metropolitana.

L'Estate Romana risponde a queste incipienti paure sociali, più che alla paura del terrorismo come pure ha raccontato la vulgata. La piazza nicoliniana, per un breve momento, ricompone i legami che si vanno sciogliendo nella società. Sotto la volta della basilica di Massenzio, prima dedicata ai concerti per l’élite, seduti sulle panche si sentono popolo, per l’ultima volta, lavoratori e perdigiorno, intellettuali e fagottari, famiglie di borgata e indiani metropolitani, anziani e giovani. Dopo Nicolini, per mezzo secolo nessun politico è più riuscito a ricomporre l’eterogeneità sociale. E oggi ci provano solo i demagoghi, i ruspisti, i rottamatori e i comici invecchiati che non fanno più ridere.

In quella breve ricomposizione è protagonista il popolo di Massenzio. Il successo dell’Estate Romana, infatti, è merito non solo dell’Assessore e della sua fantastica squadra ma anche della complice risposta popolare, del modo peculiare dei romani di vivere quegli eventi.

Il capolavoro consiste nel mettere in risonanza le avanguardie culturali degli anni settanta con l’umanità romana, come estremo tentativo di rielaborare in chiave post-novecentesca il rapporto tra politica e cultura.

Dobbiamo ribellarci allora alla definizione di “effimero”, un termine divulgato dai suoi avversari. Più appropriata, invece, è l’espressione cara a Renato di Meraviglioso urbano, inteso come esercizio popolare dello stupore. Il circo a piazza Farnese, il teatro sperimentale a via Sabotino, i poeti a Castelporziano, le installazioni della Transavanguardia accanto alle Mura Aureliane, la festa al Traforo dove finisce l’anno vecchio e comincia quello nuovo, sono tutte esperienze ludiche dello spazio pubblico che suscitano nuovi immaginari urbani. L’ironia delle installazioni contribuisce a scardinare la rappresentazione urbana ancora ingabbiata nelle rigidità del moderno. I cittadini sono coinvolti nel gioco di immaginazione di una città altra.

Proprio in quegli anni Henri Lefebvre aveva teorizzato il rapporto tra il diritto alla città e le esperienze ludiche dello spazio pubblico, ma quel nesso trova una sperimentazione originale solo a Roma, che in quegli anni si afferma come una capitale europea dell’avanguardia culturale.

Dopo Nicolini la politica ha rinunciato a coltivare l’immaginazione, anzi ultimamente ha delegato a occuparsene le grandi piattaforme digitali, da Google, ad Amazon, Airbnb ecc. Sono ormai i signori dei bit a governare le nostre emozioni.

Però qui si affaccia l’altro sentimento che dicevo all’inizio, la speranza cioè nel vedere rinascere l’immaginario urbano dal basso. C’è un fermento di esperienze culturali spontanee ma anche progettuali, fragili ma anche dirompenti, frammentate ma anche propense a coalizzarsi. Sono tutte espressioni postume dell’ironia nicoliniana, inaspettati modi d’uso della città che immaginano nuovi luoghi urbani facendosi beffe delle funzioni svolte in precedenza da quegli stessi spazi.

L’ironia è oggi la lingua comune delle migliori esperienze sociali e culturali.

C’è ironia nella street-art che colora i palazzi grigi della periferia. È un’opera essenzialmente nicoliniana l’affresco di Kentridge che estrae dalle muffe dei muraglioni dei Lungotevere le immagini auliche dei Trionfi e Lamenti.

C’è ironia nel Museo dell’Altro e dell’Altrove che colloca l’arte in una vecchia fabbrica di prosciutti sulla Collatina.

C’è ironia nei coworking che producono l’immateriale nelle vecchie officine dove di batteva il ferro.

C’è ironia nel prendersi cura dell’ameno laghetto sgorgato dalla rottura di falda provocata da una fallita speculazione nella fabbrica inquinata della Snia.

C’è ironia nell’associazione Nonna Roma che salta la generazione di Mamma Roma e porta da mangiare agli affamati, come presupposto di un ripensamento del Welfare in chiave mutualistica.

Se vi pare pertinente questo gioco potremmo continuare l’elenco, utilizzando la piattaforma dell'Estate Romana predisposta da De Boni e Simoncini, in modo che ciascuno possa aggiungere altri esempi di ironia nicoliniana attivi in città. E poi si potrebbe trarne una sintesi; ci vorrebbe una sorte di Manifesto dell’ironia romana. Sarebbe l’occasione per ricominciare a immaginare la capitale. Bisogna ingaggiare una lotta contro la dittatura del presente.

Qui è la vera differenza con mezzo secolo fa. L’ironia che veniva dall’alto con Nicolini ora riemerge dal basso. Al contrario, oggi la classe dirigente non solo non sa realizzare ma neppure immaginare il cambiamento della città. E forse proprio questa sterilità le procura un malessere psichico, una sorta di invidia inconsapevole che si palesa nella repressione di tutte le esperienze di creatività sociale. Dieci anni fa il bellissino tetro Valle fu sgomberato, mettendo fine a una suggestiva sperimentazione, con la scusa della prossima ristrutturazione, ma è rimasto con le porte sbarrate. Sorte analoga è toccata a tante altre realtà culturali, come il cinema Palazzo, il centro Lucha y Siesta, la più innovativa esperienza femminista contro la violenza maschile. Mancano sempre più gli spazi per la produzione culturale, proprio mentre rimangono inutilizzati tanti immobili pubblici. E l’invidia dall’alto si manifesta anche nel demenziale apparato normativo che soffoca ormai quasi tutti gli spettacoli dal vivo. Se qualcuno volesse replicare le manifestazioni dell’Estate Romana arriverebbero i carabinieri, poiché sarebbero tutte illegali.

Quali politiche culturali sono possibili oggi, ci chiede il titolo del nostro dibattito. Se dobbiamo rispondere pensando a Nicolini ci accorgiamo subito che il titolo è andato troppo avanti, sono necessari tre passi indietro, alla ricerca dei presupposti ineludibili.

1. Non ci saranno vere politiche culturali se non si rigenera una relazione feconda tra Politica e Cultura. E siccome tale rigenerazione non può avvenire dall’alto, dalla Politica, per come è ridotta oggi, è la Cultura che deve assumersi il compito. Non per un ritorno nostalgico all’intellettuale engagé, ma più intrinsecamente come arte, come estetica che mettendo in forma il tempo e la vita esprime già una sua politicità, tanto ineffabile quanto cogente. Renato non è stato solo un formidabile Assessore alle politiche culturali, ma l’inventore di un’estetica che mette in forma la politica della città.

2. Per le vere politiche culturali non bastano gli innovatori, abbiamo bisogno di avanguardie. Non sembra ma c’è una differenza: gli innovatori godono del consenso che cresce insieme alle loro realizzazioni; al contrario le avanguardie procedono per rotture del senso comune, per ribaltamento dei canoni, per diaspore nell’organizzazione culturale.

Occorre rompere la cappa di conformismo e riscoprire la dimensione conflittuale delle produzioni culturali. La sinistra sembra averlo domenticato, mentre lo sapeva bene la Destra Storica di Quintino Sella quando immaginava Roma come capitale del “cozzo delle idee”.

Oggi si rischia di fare il santino di Nicolini, poiché lo celebrano anche quelli che lo hanno duramente avversato. Non dimentichiamo che il nostro amico è sempre stato una pietra di inciampo, è rimasto fino alla fine in sintonia con le avanguardie culturali del suo tempo.

3. Le politiche culturali rischiano di disperdersi nel progettificio, in una sequela di bandi che non sedimentano né stili né conoscenze, in un bricolage urbano che non suscita alcuna immaginazione.

Al contrario l’immaginario romano è diventato folgorante quando la cultura ha incontrato il sentire popolare, come è accaduto con l’Estate Romana e in generale con il cinema del dopoguerra.

Ecco la sfida per il futuro. Solo un nuovo riconoscimento tra le avanguardie culturali del nostro tempo e il carattere di lunga durata dell'eccedenza dell'umanità romana potrà sprigionare un’energia di trasformazione della capitale.

Sapranno attivarla i giovani eredi di Nicolini, anche inconsapevolmente. Questa è la speranza che volevo condividere con voi qui a Villa Ada.



2 commenti:

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