La memoria di Luigi Petroselli a quaranta anni dalla scomparsa è stata celebrata il 7 ottobre per iniziativa della Fondazione Gramsci e dell'Assocazione Berlinguer nella sala del Tempio di Adriano a piazza di Pietra, a Roma. Dopo l'introduzione di Giuseppe Pullara e il saluto di Roberto Gualtieri ho tenuto il discorso commemorativo che potete leggere di seguito oppure seguire in video. Il testo è stato pubblicato anche su Strisciarossa.
Quando mi capita di raccontare l’opera di Petroselli a un giovane appassionato dei problemi di Roma, avverto sempre il suo stupore, mentre mi rivolge la domanda, ma era davvero così bravo? E come è stato possibile, mi chiede, che in soli due anni facesse tante cose importanti?
Noi che abbiamo avuto il privilegio di conoscerlo, di lavorare con lui, di aver imparato da lui, proprio noi che pensiamo di sapere tutto di lui dovremmo essere capaci di ricordarlo e di studiarlo con la curiosità del mio giovane interlocutore.
D’altronde è stato così anche durante la sua vita, da durugente di partito e da sindaco. All’inizio del mandato c’era una diffusa incredulità sulle possibilità di successo di quello che era stato fino a quel momento solo uomo di partito. Ma ben presto amici e avversari si accorsero di aver sbagliato la previsione.
Siamo in grado di stupirci ancora di Petroselli quaranta anni dopo? Non gli renderemmo onore facendone un santino. Se vogliamo ravvivarne la memoria va compreso nella temperie del suo tempo, nei turbamenti del suo animo, nelle tremende sfide politiche che ha affrontato.
La faglia storica
Non solo ha fatto tutto in due anni, ma soprattutto in anni cruciali, nei quali si aprono problemi che nessuno sarà in grado di risolvere nel successivo quasi mezzo secolo.
Tra il 79 e l’81 cambia verso la storia del mondo, finisce il ciclo dei così detti Trenta Gloriosi e inizia quella rivoluzione conservatrice che poi si è fatta regime in grado di resistere a tutti i suoi insuccessi, la bassa crescita, le bolle, le disuguaglianze.
L’impero sovietico prepara la propria rovina con l’invasione dell’Afghanistan, che diventa un dannato teatro di guerra fino ai giorni nostri.
La Chiesa del convegno diocesano del ‘74 si era inchinata verso la sofferenza dei Mali di Roma, ma con Giovanni Paolo II si innalza di nuovo come potere trionfante, poi smentito dalle clamorose dimissioni di Ratzinger.
La crisi italiana, dopo l’assassinio di Moro, comincia ad avvitarsi su se stessa, passando attraverso una sequela di promesse che non riescono ad affermarsi come soluzioni durature, da Craxi a De Mita, dall’Ulivo a Berlusconi, e poi con un ritmo sempre più compulsivo dal rottamatore, al comico, al ruspista.
I partiti storici che avevano governato la rinascita cominciano a perdere contatto con la realtà del paese, quelli di governo si arroccano nel potere scivolando lentamente verso Tangentopoli, e il Pci comincia il suo travaglio ideologico scivolando lentamente verso la Bolognina.
In due anni la vicenda italiana e quella mondiale sono scosse dall’urto tra un’epoca che declina e un nuovo ciclo che s’impone. Per il suo carattere storico Roma più di altre città avverte come un sismografo i movimenti tellurici del passaggio d’epoca. In questa faglia storica emerge la grandezza di Petroselli che attraversa i conflitti portando in salvo il patrimonio di valori e lottando contro il tempo avverso. È la grandezza della politica quando si misura con il destino storico.
Petroselli dimostra che proprio in quel momento a Roma è necessario il sindaco comunista: quando cioè comincia l'epoca che porterà al distacco delle masse dalla politica, che oggi si misura con la partecipazione al voto sotto il 50%, proprio in quel momento il rappresentante del movimento di emancipazione delle classi subalterne è in grado di rigenerare il rapporto tra popolo e istituzioni. E davvero mai come in quei due anni la città si è riconosciuta con tanta intensità nel Campidoglio. La soluzione dei problemi quotidiani per Petroselli è l'occasione per chiamare i cittadini a partecipare al cambiamento e alimentare il senso di appartenenza alla comunità cittadina. Questo insegnamento è ripreso più avanti dai nostri sindaci, prima da Rutelli e poi in modo particolare da Veltroni. Credo che da giovanissimo consigliere comunale Walter, proprio con l’esempio di Luigi, abbia sviluppato quella sua spiccata capacità di connettere anche una piccola opera alla narrazione del futuro di Roma.
Lo stile di governo di Petroselli anticipa la riforma istituzionale dell'elezione del sindaco. Pur all'interno del sistema proporzionale inventa una relazione diretta con i cittadini, non come sarà in seguito per destrutturare i partiti, ma anzi per rinvigorirne la funzione democratica; non per alimentare un narcisismo, ma per dare fiducia all'azione collettiva. Utilizza forme di comunicazione innovative per quei tempi: le risposte in diretta nelle trasmissioni di Video Uno, il docufilm con Ninetto Davoli e Sergio Citti, e in particolare il ricevimento dei cittadini in Campidoglio; talvolta capita che qualcuno entri nella sua stanza dicendo - "nun devo chiede niente, volevo solo capì se è vero che ce ricevi, e mo’ sto bene" - e se ne va.
Per la sua riconferma nelle elezioni dell’81 ottenne un risultato strabiliante, con 130 mila preferenze e la percentuale di lista più alta della vetta del ‘76, il migliore risultato nelle città italiane. In soli due anni recuperò tutti i consensi perduti solo qualche mese prima della sua elezione nelle politiche che si tennero dopo la fine dei governi Andreotti. Dimostrò che si poteva tornare a vincere, anche se non poteva bastare la leva amministrativa, perché la sconfitta del ‘79 si era consumata con crolli del 10% proprio nelle borgate e segnalava un logoramento di natura politica del radicamento popolare.
Posso sbagliare, ma credo che avesse una percezione del rischio di declino del suo partito in quei difficili anni ottanta. Non bisogna dimenticare che fece il sindaco in una fase di grande disorientamento del vertice comunista, tra il 79 e l’81, dopo la presa d’atto del fallimento del compromesso storico e prima della proposta di alternativa democratica. Era stato tra i più convinti nel porre fine all'intesa con la Dc, ma poi ha temuto che il passaggio all'opposizione potesse alimentare l'illusione di un'autosufficienza delle virtù del Pci, di una regressione difensiva, e perfino di un rigurgito di settarismo. Era invece convinto che proprio il passaggio d'epoca andasse attraversato con coraggio politico, con una innovativa cultura di governo, con un rilancio dell'unità a sinistra. Sulla vexata questio dei rapporti con i socialisti aveva dimostrato a Roma di saper coniugare il forte spirito unitario e il ruolo propulsivo, mai subalterno, nell'alleanza. Due posture che nel frattempo si divaricavano tra i massimi dirigenti nazionali del partito, chi per eccesso in un senso chi per eccesso nell'altro.
Alla fortuna delle giunte di sinistra, purtroppo lo dimentichiamo spesso, apportarono preziosi contributi i socialisti romani. Alberto Benzoni aprì il Campidoglio ai movimenti libertari degli anni settanta. Perluigi Severi elaborò soluzioni riformiste, che allora sembravano azzardate a noi comunisti, ma poi furono riprese dalle amministrazioni di Rutelli e Veltroni. I due prosindaci, così diversi, ma entrambi ispirati dall’idealità socialista, stabilirono una sincera amicizia con il loro sindaco, come si manifestò nel discorso di Pierluigi, il momento più commovente nel giorno dell’addio.
Nella tragica mattina di quaranta anni fa Petroselli espose apertamente nel Comitato Centrale queste sue critiche alla linea politica prevalente. E appena ebbe finito di parlare il suo cuore cessò di battere. Chi era presente racconta che mostrava i segni della fatica accumulata nel duro lavoro di sindaco e nelle tensioni delle trattative per la sua rielezione. E forse si sarà aggiunto anche lo stress emotivo nel parlare per la prima volta in disaccordo con Berlinguer, al quale era legato da un lungo rapporto di collaborazione. La sera prima un fraterno amico e stretto collaboratore nel partito lo sentì per telefono molto preoccupato per il discorso che avrebbe fatto, ma anche determinato nella responsabilità di esprimere apertamente la sua opinione.
Che misterioso destino, per un dirigente che era stato sempre ortodosso, trovarsi in dissenso solo in due momenti della vita, da giovane sull'invasione sovietica a Budapest e in punto di morte sulla crisi del Pci degli anni ottanta.
Anche se non lo dava a vedere sapeva bene che continuando con quei ritmi di lavoro andava incontro alla morte. Agli amici più cari, quando cercavano inutilmente di convincerlo a rallentare, rispondeva citando Epicuro: “La morte non esiste per noi. Quando noi viviamo la morte non c’è, quando c’è lei non ci siamo noi”.
L’autenticità
Qual’era allora la vera umanità di Petroselli? Noi quadri di partito conoscevamo bene la ruvidezza del carattere e rimanemmo stupiti nel vederlo da sindaco così tanto capace di mettersi in sintonia con le persone. Eppure il contrasto tra severità ed empatia era solo apparente.
Innanzitutto, perché la durezza era sciolta da una dissimulata curiosità per le persone; aveva una straordinaria capacità di entrare in relazione con esponenti di mondi lontani dal suo e curava l’ascolto nel partito in modo imprevedibile; spesso sembrava non aver recepito una proposta, ma nei giorni seguenti la faceva propria suscitando lo stupore del proponente.
La severità era applicata prima di tutto a se stesso. La corazza gli serviva a dissimulare la timidezza e a proteggere la profonda sensibilità umana, che affiora anche nelle sue poesie giovanili.
Sentiva intensamente il rapporto tra la politica e la vita. Ne parla in una lettera ad Aurelia: “le battaglie del lavoro non furono mai solo battaglie contro gli oppressori, ma anche battaglie con te stesso e con l’ambiente che sta attorno a te e con il passato che sta dentro di te”.
La severità era lo stile che in quel tempo esprimeva la responsabilità e l’appartenenza a una causa collettiva. Così interpretava la peculiarità del partito comunista italiano, non come un’organizzazione che bastava a se stessa, ma come un’infrastruttura democratica al servizio del riscatto delle classi subalterne. Bisogna leggere il libro di Angela Giovagnoli per capire che fin dalle prime esperienze giovanili sentì l’adesione al partito come un’immedesimazione con le speranze dell’umanità popolare. Dopo un’assemblea a Vallerano non fece a tempo a tornare a Viterbo e volle dormire in sezione che in quel momento era occupata da un mucchio di grano, un contributo in natura al finanziamento del partito. Non accettò l’ospitalità nelle case dei compagni con una motivazione stupefacente: “Voglio dormire sul grano e gustarmi il profumo che è anche quello dei contadini”.
Questa curiosa immagine mi ricorda un personaggio di Italo Calvino: Gurdulù si immedesima nelle cose che incontra, si tuffa nello stagno per assomigliare ai pesci. È lo scudiero del Cavaliere inesistente, il quale, invece, è tanto preso dai suoi principi cavallereschi da perdere il contatto con la realtà: è il dramma della separazione tra l’ideologia e la vita. Al contrario in Petroselli il cavaliere e lo scudiero sono la stessa persona. Il totus politicus comporta l’immedesimazione con l’umanità popolare.
E tutto ciò si esprime al meglio nell'empatia del sindaco, sia nei momenti dolorosi sia in quelli gioiosi. Arrivava per primo, spesso inaspettato, nei luoghi insanguinati dalla violenza e dal terrorismo: varcò la porta del giornale il Secolo d'Italia distrutta dalle bombe, la prima volta per un comunista, lasciando stupefatti e riconoscenti gli avversari di sempre del MSI. E nei momenti di festa era sempre pronto a valorizzare le passioni civili che sgorgavano dalle speranze di quel tempo.
L’empatia però non era solo uno stile personale, improntava anche i contenuti delle politiche comunali. L’invenzione dei centri anziani attivò una formidabile partecipazione della terza età alla vita dei quartieri; le attività di Città come scuola, organizzate dall’assessora Roberta Pinto, mobilitarono insegnanti e genitori per il tempo pieno e il rinnovamento della didattica; la complicità con il movimento delle donne contribuì alla realizzazione dei consultori e dei nidi, le assemblee di borgata per il piano Acea socializzarono le competenze degli ingegneri con il mestiere degli edili che avevano costruito le proprie case; le conferenze dei servizi pubblici offrirono occasioni di confronto tra i lavoratori comunali, gli utenti e gli assessori; lo sviluppo del decentramento avvicinò l’amministrazione ai cittadini; le manifestazioni di “Corri per il verde”, inventate da Giuliano Prasca, indicarono al Comune dove realizzare i nuovi parchi; le varianti urbanistiche per i servizi furono discusse nelle assemblee dei quartieri, l'Estate Romana di Nicolini fece scoprire ai romani il privilegio di vivere nella città eterna.
Concludendo sul dilemma della sua umanità, possiamo dire che la severità del capo politico e la generosità del sindaco erano tenute insieme dall'autenticità della persona. Tutti avvertivano in lui la coerenza tra i principi e la pratica. Il suo metodo era: fare ciò che si dice e dire ciò che si fa. La trasparenza della politica coincideva con la sostanza della politica.
La clamorosa popolarità, per dirla con le parole di Franca Prisco, qui presente, che abbraccio, la clamorosa popolarità di Petroselli deriva proprio dalla sua autenticità. La gente povera, anche quella meno politicizzata, sente che il sindaco è dalla sua parte. La stima e l’affetto di tutti si rivela nei volti addolorati di donne e uomini che sfilano per giorni davanti al suo feretro nell’aula Giulio Cesare.
E il riconoscimento sincero viene anche dagli avversari. Gianni Letta, che ringrazio per la sua presenza qui oggi, ne onorò la memoria sulle colonne de Il Tempo con queste parole: "Chi, come noi, non può essere neppure per ipotesi sospettato di indulgenza verso i comunisti, deve confessare che considera invidiabile la ricchezza di abnegazione e sacrificio che è il patrimonio storico del partito dei comunisti".
La parte e il tutto
Petroselli è orgogliosamente rappresentante della sua parte politica e ciò nonostante riesce ad essere percepito come il sindaco di tutti. Non c’è contraddizione, anzi una tensione creativa esalta entrambi i compiti.
Il suo operato da sindaco è preparato dal lavoro di opposizione che organizza nei primi anni settanta come segretario del partito. Sotto la sua guida i comunisti romani sono protagonisti delle grandi battaglie ideali di quegli anni, dalla lotta per il disarmo e la pace nel mondo, all’attuazione dei valori costituzionali, all’ampliamento dell’unità antifascista. E sono la forza decisiva nella mobilitazione per il NO al referendum sul divorzio, che raccoglie proprio nelle borgate percentuali di consenso ai massimi livelli nazionali, nonostante le preoccupazioni della vigilia. È merito delle militanti comuniste che dialogano con le elettrici da donne a donne sui grandi temi della famiglia e dei diritti. La cultura femminista diventa esperienza politica di massa.
L’organizzazione di partito raggiunge una diffusa capillarità, come non si era mai vista prima e come non sarà mai più in seguito. I militanti accompagnano e promuovono la partecipazione in tutti i comitati di quartiere, negli organi scolastici, nelle lotte sindacali, nelle istanze delle categorie, nella produzione culturale, nelle riforme degli apparati statali. Come scrive rispondendo a Moravia: “oggi Roma è una delle città più democratiche del mondo”.
Il fermento di partecipazione popolare scosse anche il mondo cattolico. Il convegno sui Mali di Roma liberò le energie di trasformazione che promanavano dalla nuova sensibilità del Concilio.
Petroselli diede un giudizio caustico - con il convegno la Chiesa si è dimessa dal governo con la Dc, disse – ma non strumentalizzò la divaricazione. Anzi negli stessi giorni avviò un’intesa istituzionale con il sindaco democristiano Darida, rafforzando nel contempo l’unità con i socialisti. Non era una scelta obbligata, anzi la giunta in quel momento era debolissima e poteva essere facilmente abbattuta. Invece, i comunisti si rimboccarono le maniche, il capogruppo Ugo Vetere divenne un sindaco di fatto, e riuscirono insieme ai democristiani e ai socialisti ad avviare i provvedimenti che poi saranno sviluppati dalle giunte di sinistra, come il piano di edilizia pubblica e il risanamento delle borgate.
Fu l'applicazione più brillante della politica del compromesso storico. A differenza dei governi Andreotti nei quali il Pci rimase impantanato, a Roma l'intesa con la Dc lo rafforzò come soggetto del cambiamento.
Sulle realizzazioni delle giunte di sinistra sottolineo due momenti cruciali: il risanamento delle periferie e il progetto Fori.
Nel trentennio precedente lo sviluppo speculativo aveva accumulato un pauroso deficit di infrastrutture. Per colmarlo si attuò, anche per merito del successore - il caro compagno Ugo Vetere - un gigantesco programma di opere pubbliche per scuole, giardini, servizi primari per circa 2 miliardi di euro l’anno, circa dieci volte il livello di questi anni. La stessa macchina comunale che oggi, pur avendo maggiori poteri di allora, si affanna con le buche, a quei tempi seppe realizzare la più estesa rete infrastrutturale italiana, oltre mille chilometri di acquedotti, illuminazione, strade e fogne. Fu decisivo il coinvolgimento e la motivazione dei lavoratori e dei dirigenti comunali. Il sindaco e gli assessori non chiedevano loro favori, ma sapevano motivarli per la riuscita degli obiettivi. Quindici anni dopo da vicesindaco conobbi quei dirigenti ed erano ancora orgogliosi di aver lavorato con Petroselli come autentici civil servant.
È stata la più grande redistribuzione di risorse pubbliche e favore dei ceti popolari durante il Novecento. I punti salienti furono la realizzazione dei servizi nelle borgate abusive, lo sviluppo a grande scala dei quartieri di edilizia popolare e l’eliminazione delle baracche.
Conservo un intenso ricordo della demolizione del borghetto di Pietralata, di cui fu protagonista l’assessore, il compagno Giulio Bencini, che ringrazio per la sua presenza qui. La mattina presto arrivò una carovana di camion e ruspe guidata dall’ingegner Vergari, autorevole direttore del Servizio Giardini, allora la più professionale tra le strutture comunali. L’ingegnere, una persona di destra, sembrava un generale di corpo d’armata investito da Petroselli di conquistare la vittoria sul campo. Infatti, in una sola giornata – da non crederci oggi – il Comune demolì le casupole, realizzò al loro posto un giardino pubblico e trasferì gli abitanti negli alloggi nuovi a duecento metri di distanza. La sera una festa liberò la tensione accumulata durante la demolizione. Sui volti di donne e di uomini la dignità di aver conquistato un diritto, quella incontenibile fierezza delle persone che si esprime nel momento del riscatto sociale. Noi comunisti ne eravamo orgogliosi e credevamo di aver eliminato per sempre la vergogna delle baracche. Purtroppo non abbiamo evitato che in quelle periferie sorgessero le nuove baracche dei sottoproletari del mondo.
Nella storia moderna di Roma solo Petroselli è riuscito a liberare lo sviluppo economico dal giogo secolare della rendita. Fece cambiare mestiere ai “palazzinari” trasformandoli in moderni imprenditori. Li convinse ad abbandonare il vecchio gioco a monopoli sulle aree fabbricabili e a concentrarsi sulla capacità imprenditoriale nelle costruzioni. Il Comune, infatti, assegnò loro le aree che aveva espropriato ai proprietari per pubblica utilità, eliminando in radice il fenomeno della speculazione e orientando gli investimenti pubblici e privati nella realizzazione di moderni quartieri popolari dotati di tutti i servizi. Negli anni successivi la riforma venne svuotata, ma è sempre rimasta un modello esemplare. Molti imprenditori furono orgogliosi di aver partecipato alla modernizzazione. E alcuni di loro piansero sulla bara di quell’uomo politico che in passato avevano percepito come il principale avversario.
Il progetto Fori ancora oggi è frainteso negli obiettivi ed è ridotto a un contenzioso archeologico su un’area delimitata. Invece Petroselli lo concepì come una strategia di trasformazione dell’intera città, proiettando in una visione tutta politica la proposta che fino ad allora era stata elaborata nei circoli intellettuali da Adriano La Regina, Leonardo Benevolo, Antonio Cederna, Italo Insolera e altri.
C’era anche l’ambizione di rielaborare la romanità. Da sempre era stata catturata dalla retorica antichistica e dal privilegio delle elite. Ora la memoria di Roma antica doveva arricchire la vita popolare e suscitare la trasformazione moderna della città. A tal fine inventò le domeniche a piedi nei Fori. Migliaia di romani si stupirono nel poter passeggiare nella storia, si riconobbero tra loro come protagonisti del cambiamento. E passò subito all’azione eliminando la strada che separava il Campidoglio dal Foro repubblicano e pedonalizzando l’area tra il Colosseo e l’arco di Costantino, che divenne poi il teatro della proiezione del Napoleon di Abel Gance, con la partecipazione del governo francese in una serata da grande capitale europea.
Successivamente il progetto Fori è stato accantonato e a tratti demonizzato. Tuttavia si sono realizzate alcune condizioni al contorno che oggi lo rendono pienamente fattibile. È in attesa solo di un nuovo sindaco che ne abbia la volontà.
Lo stradone poggiato malamente sugli antichi Fori può essere smantellato. Già è stato eliminato il traffico privato e si può rinunciare anche agli autobus una volta concluso il cantiere della metro C.
L’eliminazione dello stradone toglie a quel luogo l’estranea superfetazione assiale e consente di riconoscerlo per ciò che era, un insieme di piazze aperte alla vita urbana di tutti i giorni, per fare una passeggiata, per darsi un appuntamento, per partecipare alla vita pubblica. Invece di chiuderli in un recinto museale a pagamento, come hanno imposto le ubbie ministeriali, i Fori imperiali e quello repubblicano possono diventare i più prestigiosi spazi pubblici contemporanei, accessibili direttamente dalle stazioni della metropolitana e connessi mediante itinerari pedonali con i rioni e con i colli circostanti.
Mi piacerebbe contribuire a superare la querelle storico-politica che in passato ha bloccato il progetto. Da sinistra si è sbagliato nel dare impropriamente un significato antifascista allo smantellamento. E da destra si è sbagliato nel celebrare i fasti imperiali con la grande strada dritta, che è più debitoria del macchinismo novecentesco, molto meno della romanità antica. Chi intende valorizzare la memoria dell’impero dovrebbe apprezzare meglio la riscoperta dei Fori come piazze dell’urbe, invece dello stradone che le ha interrate. Forse un pacato dibattito culturale oggi potrebbe elaborare una simbologia condivisa di quel luogo che appartiene a tutti i romani e ai cittadini del mondo. Se ci fosse destra qualcuno interessato ne potremmo riparlare.
Con la stesso spirito vorrei discutere con i conservatori modernisti che vogliono salvaguardare l’assialità come segno moderno. Segnalo il paradosso di un’arteria a sei corsie, larga quanto il Gra, che però non serve più al traffico meccanizzato. E se non svolge più la sua funzione diventa solo un monumento al breve mito dell’automobile. È una sacralizzazione del macchinismo, piuttosto che un esempio della razionalità novecentesca. Forse quel luogo ha da celebrare memorie più durature e molteplici.
Inoltre, la connessione deve ampliarsi all’Appia antica con la costituzione di un sistema archeologico e paesaggistico unitario dal Campidoglio fino ai Castelli. Sarebbe il più bel parco del mondo, una nuova interpretazione della vocazione cosmopolita di Roma.
Questo è stato il passaggio di testimone tra i due grandi sindaci. Argan chiamò la cultura architettonica di quel tempo a immaginare la città del futuro, in un convegno intitolato Roma Interrotta, perché si basava sull’idea che la carta del Nolli di oltre due secoli prima fosse stata l’ultima opera moderna. Dei progetti presentati dai prestigiosi architetti in quella occasione si è persa la memoria ma la vera risposta alla domanda di Argan venne due anni dopo da Petroselli: la sua proposta sul sistema Fori-Appia è il superamento della Roma Interrotta, è la più ambiziosa idea politica del Novecento romano ed è ancora foriera di una visione per il secolo che viene.
Il parco archeologico riguarda non solo la direttrice dei Castelli ma propaga nell’intera area metropolitana un nuovo primato del paesaggio e della storia, che ribalta l’impronta fisica della vecchia capitale.
A distanza di tempo si vede meglio che questa idea è strettamente connessa all’altro capolavoro, il risanamento delle periferie. Come dicevo, le vecchie borgate diventarono quartieri dotati dei servizi. Tuttavia sono rimasti pur sempre insediamenti isolati, abbarbicati a bassa densità sulle consolari e sul Gra, e circondati dall’Agro romano. Se li vediamo da una foto satellitare sembrano inondati dalle aree verdi, le quali, però, non essendo curate accumulano scarti nei margini e diventano occlusioni urbane. Ci vorrebbe un programma borrominiano a grande scala, ex malo bonum, per trarre il bene dal male. La bassa densità è dannosa per i trasporti, ma ha comunque il vantaggio di aprire i quartieri verso la natura, come non accade più nelle metropoli italiane che hanno saturato il territorio.
Occorre quindi capovolgere la logica territoriale della vecchia capitale. Dalla distopia della frammentazione metropolitana all’utopia della città giardino, che abbiamo riscoperto con il Covid. La Campagna romana non dovrà più essere concepita come un vuoto da riempire col cemento, ma come il pieno di natura e di storia che è ancora in grado di offrire una buona vita ai romani. A partire dalla ricomposizione dei cicli vitali dell’acqua, dell’aria, dell’energia, della terra, del cibo si possono attivare nuovi processi economici, innovazioni tecnologiche, servizi di qualità e la cura del ferro per i trasporti.
A fine Ottocento la cultura europea si interessò all’Agro romano, e chiese ai dirigenti del nuovo Stato che cosa ne avrebbero fatto di quelle paludi malariche descritte dai viaggiatori del Grand Tour. Nel Novecento si è data la risposta peggiore con la disseminazione dei coriandoli edilizi. Nel nuovo secolo la rinascita della Campagna Romana può diventare un caso esemplare della transizione ecologica avviata dall’Europa dopo il Covid.
Ecco come i due capisaldi di Petroselli, il risanamento delle periferie e l’idea Fori-Appia, possono riguardare ancora il nostro futuro. Lo dice lui stesso, nel discorso conclusivo alla conferenza urbanistica, con una meditazione storica che riletta oggi presenta una pungente attualità:”.. [Roma], come in tutti i periodi di crisi, si interroga in modo nuovo sul passato, che è un modo di parlare del presente e del futuro, quando [essi] sono incerti”. Sembra la citazione di Walter Benjamin sull’immagine storica che “balena nell’istante del pericolo”. È l’ambizione di ravvivare la memoria come forza di trasformazione della città. L’antico non può essere abbandonato nelle secche dell’antichità, ma va rielaborato nella contemporaneità come pensiero dell’avvenire.
Dedica a Gualtieri
Concludendo, queste riflessioni sull’eredità del nostro maestro oggi desidero dedicarle a Roberto Gualtieri. Nel commentare i risultati del primo turno ha indicato la vera sfida che si gioca al ballottaggio: se Roma tornerà grande città di rango europeo oppure se ripiegherà nei suoi antichi difetti. Siamo d’accordo con lui e faremo di tutto in questi giorni per la vittoria della nostra alleanza.
Caro Roberto, sai bene che il compito è arduo, però hai intorno a te una leva di ottimi amministratori che sono cresciuti negli ultimi anni, e non ti mancherà mai l’aiuto della nostra generazione più anziana.
Per formazione culturale e per esperienza politica conosci il pensiero storico come attività creativa, come politica in lotta con il destino, come coscienza civile della modernità. Sei in grado, quindi, di pensare e agire la capitale nell’unico modo possibile, come opera storica in divenire.
Hai presentato un programma di governo ambizioso e anche realistico. Lo riassumo in modo semplice e impegnativo: aiutare Roma a riscoprire la capacità di stupire se stessa e il mondo.
Riflessioni profonde come ci si aspettava da una persona di ingegno multiforme e profondo. Su Gualtieri non mi pronuncio, per ora.
RispondiEliminaCome sempre una analisi accurta di quel periodo in cui abbiamo vissuto la ripresa di Roma come città di cultura e di lavoro.Ho vissuto quei tempi , ho conosciuto Petroselli perchè con la Pinto, allora assessore alla scuola, lo incontravamo per vagliare la situazione delle scuole dell'infanzia. Petroselli sapeva ascoltare e si interessava a tutti i problemi sempre alla ricerca di una soluzione. Davanti al suo feretro ho pianto ...troppo presto è andato via e ci ha lasciato soli
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