sabato 16 dicembre 2023

La Città Invisibile

L'ultimo Annale Feltrinelli è un volume dedicato alla Città Invisibile, curato da Alessandro Balducci. Lo abbiamo presentato all'Auditorium nell'ambito della manifestazione La Città in Scena. Di seguito potete leggere il testo del mio intervento, che è stato pubblicato anche nella rivista della Casa della Cultura di Milano.



La città invisibile è un ossimoro. Come può essere invisibile, infatti, se è il luogo di massima espressività, dove si manifestano le tendenze della società? Ma proprio l’ossimoro rende affascinante il titolo del nostro incontro e sollecita a comprendere meglio il tema.

Possiamo farlo prendendo il mano due libri molto diversi.

Il capolavoro di Italo Calvino contiene una cinquantina di immagini fantastiche raggruppate secondo alcune parole chiave: la città dei desideri, della memoria, degli scambi, dei segni ecc. Questa catalogazione impegnò molto l’autore, tanto che utilizzò i giochi dell’arte combinatoria e apportò diverse correzioni, come si vede nelle bozze del suo archivio.

I cataloghi delle città invisibili, quindi, sono molto significativi, sono molto importanti.

Con questo indizio, allora leggiamo il libro, La Città Invisibile, l’Annale Feltrinelli 2023, curato da Alessandro Balducci con il contributo di diversi esperti. È lo studio di una ventina di fenomeni ancora invisibili che però stanno modellando, nel bene e nel male, la città del futuro.

Auguro al libro un successo, pur nel campo ristretto degli studi urbani, almeno paragonabile a quello di Calvino nel vasto campo della letteratura italiana e mondiale.

Anche Balducci, come Calvino, propone diverse chiavi di catalogazione dei fenomeni.

A cominciare dalla più semplice, per argomento. Così abbiamo le città invisibili delle disuguaglianze, troppo a lungo sottovalutate; le città invisibili dell’immateriale, come il digitale che pure performa lo spazio e la vita urbana; le città invisibili segnate dell’opacità di governo che ostacola la comprensione e quindi la partecipazione dei cittadini.

Già questa semplice classificazione compone un’agenda di governo che sarebbe utile, se il nostro Paese decidesse di darsi una politica nazionale per le città, come si fa in Europa.

Poi il curatore propone due chiavi più raffinate.

Prima. L’invisibile per difetto di percezione: quando non vediamo ciò che dovrebbe essere acclarato. Per esempio, il saggio di Simona Giampaoli rileva un tasso di mortalità a Tor Bella Monaca più alto del 25% rispetto all’area dell’Auditorium. Con la prevenzione in periferia si potrebbero evitare 4500 morti l’anno, lo stesso numero del Covid, ma questa epidemia della povertà non suscita lo stesso clamore dell’epidemia del virus. Non ne avete mai avuto notizia al TG della sera.

Seconda chiave. L’invisibile che necessita di un disvelamento, per rimuovere gli interessi dominanti che vorrebbero mantenere l’opacità.

Per esempio, la rendita immobiliare che si valorizza in virtù di deliberazioni comunali o di miglioramenti collettivi, ma viene incamerata senza merito dai proprietari, creando una ricchezza privata e una povertà pubblica, come dimostra il saggio di Mike Raco. Di conseguenza è difficile trovare un alloggio per ampie fasce di popolazione, soprattutto giovani coppie.

Già queste due chiavi dell’Invisibile indicano il da farsi; i problemi della percezione richiedono adeguate policies; quelli del disvelamento, invece, invocano l’autorevolezza di una politics per rimuovere la resistenza degli interessi dominanti.

Nella lingua italiana non c’è la chiara distinzione tra policy e politics, ma abbiamo qualcosa di più importante, un articolo della Costituzione dedicato proprio al disvelamento: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”. Ecco la poesia sociale dell'articolo 3.

Proprio il disvelamento suggerisce di pensare l’ossimoro, cioè pensare insieme il Visibile e l’Invisibile, prima distinguendoli e poi mettendoli in relazione.

Nella distinzione il Visibile è legato alla conoscenza.

Quando i saperi hanno già chiarito i problemi si dovrebbe passare alle soluzioni. Per esempio, il saggio di Roberto Mezzalama ci dice che se continuiamo a non far niente nel 2050 il clima di Roma si avvicinerà a quello dell’area che fu di Cartagine, con enormi sconquassi per il Mare Nostrum. E papa Francesco ha richiamato il nesso con la giustizia sociale, a pagare di più sono i poveri.

L’Invisibile, però, non va considerato il lato negativo della distinzione, anzi è una risorsa, e indica soggetti troppo a lungo ignorati e che invece possono arricchire le relazioni sociali. A cominciare dai giovani, come ha spiegato bene qui Paola Piscitelli, riassumendo il suo bellissimo saggio. Un discorso analogo per gli anziani è sviluppato nel saggio di Martinelli e Ranci.

Quindi il binomio Visibile-Invisibile definisce i due requisiti essenziali del buongoverno: cogliere i frutti della conoscenza e avere riguardo per la molteplicità dei soggetti sociali.

Dalla loro combinazione scaturiscono tutti i possibili scenari.

Se mancano sia la conoscenza sia la molteplicità, cioè se vengono meno sia la Visibilità sia l’Invisibilità, rimane solo la cieca amministrazione che si occupa di gestire l’esistente. Questo livello zero del governo, purtroppo, è maggioritario nel nostro Paese, a livello locale e nazionale.

Se, invece, il Visibile e l’Invisibile sono presenti, ma come separati in casa, in un rapporto sterile tra loro, allora entrambi si impoveriscono.

La conoscenza si riduce a mera tecnica che produce mirabolanti progressi, ma nasconde la visibilità nei suoi misteriosi algoritmi.

E la molteplicità viene ricacciata in una marginalità impotente, in un’invisibilità irredimibile.

Di questo rapporto sterile tra Visibilità e Invisibilità si danno molti esempi nel libro.

Mara Ferreri cita l’algoritmo per le locazioni che esclude le persone povere. 
Pierre Filion dimostra come un’infrastruttura mal progettata può illuminare un quartiere e oscurarne un altro.
Agostino Petrillo, lo avete ascoltato, spiega bene come le elite attribuiscano alle periferie le narrazioni dell’invisibilità. Ancora oggi lo stereotipo mediatico di Corviale oscura la vivacità delle sue associazioni culturali e mutualistiche.

La sterilità tra Visibile e Invisibile, quindi, crea una frattura tra logica di sistema e forma di vita, tra compatibilità tecnico-economiche e bisogni reali, tra narrazioni che certificano la visibilità delle classi dirigenti e i lapsus della visibilità, come li chiamava Michel de Certau, che suscitano l’invenzione del quotidiano.

Questa incomunicabilità svuota soprattutto il lessico politico. Come dice Walter Siti: “Non so immaginare un borgataro riformista”.

Rimane da esaminare allora l’ultimo scenario, quello che ci è più caro e che coltiva una speranza.

Quando Visibile e Invisibile non solo sono presenti, ma instaurano una relazione tanto feconda tra loro da esserne trasformati.

Il Visibile perde la propria sicumera e accoglie il nucleo di verità dell’Invisibile; l’Invisibile esce dalla marginalità e propone una nuova idea di visibilità.

Si genera così un reciproco Riconoscimento, e la conoscenza è messa a frutto nella molteplicità dei soggetti sociali.

Il Riconoscimento è una forma di apprendimento sociale, è l’invenzione di nuove visioni che scaturiscono dall’interazione tra gli invisibili.

L’apprendimento sociale è la politica più urbana che ci sia.

Quando le persone si prendono cura di un luogo, tra loro si rinnova anche il legame di cittadinanza. È come ritrovarsi in quella piazza che avevano scelto per darsi un appuntamento.

Claudio Calvaresi, nello stimolante saggio, dice gli spazi urbani sono il corpo docente. Allora bisogna prendersi cura innanzitutto delle scuole, non solo per l’istruzione dei giovani, ma come i centri della vita pubblica, gli spazi aperti giorno e sera per tutte le generazioni, i laboratori dell’apprendimento sociale.

È nato a Roma un movimento di scuole per la pedonalizzazione delle rispettive strade. Sarebbero i luoghi dove dismettere la fretta e coltivare la relazione tra scuola e città.

Anche l’università può fare molto per alimentare l’apprendimento sociale, un contributo viene già dal libro di Balducci.

Non solo, c’è una nuova generazione di ricercatori sociali che sentono il bisogno di confrontare le teorie con la vita dei quartieri. E lì incontrano giovani attivisti urbani, e insieme animano nuove esperienze sociali.

Questo connubio tra ricerca e azione Illumina la periferia - per usare il bel motto della Caritas ribadito qui da Giustino Trincia - e alimenta una sorta di ironia della rigenerazione, cioè pratiche di creatività urbana che inventano nuove vocazioni dei luoghi e si fanno beffe delle funzioni precedenti. Pratiche sovversive, le chiama Paola Piscitelli.

Per esempio, c’è ironia nella street-art che colora le facciate anonime delle borgate;

c’è ironia negli orti urbani promossi dall’associazione Zappata Romana che salvano terreni dall’edificazione di centri commerciali;

c’è ironia nel Museo dell’Altro e dell’Altrove che espone arte contemporanea proprio in una fabbrica di prosciutti abbandonata, senza sfigurare con il prestigioso MAXXI;

c’è ironia nei coworking dell’immateriale realizzati proprio nelle officine dove si batteva il ferro;

c’è ironia nel prendersi cura dell’ameno laghetto della Snia, sgorgato dall’esagerato colpo di ruspa dello speculatore;

c’è ironia nell’associazione Nonna Roma che ricuce i legami generazionali per assistere le persone deboli.

Sono tutte esperienze di apprendimento sociale, di un riconoscimento tra Visibile e Invisibile, di un’invenzione del quotidiano, di un mormorio sociale che propone un’altra narrazione della città.

Per questo assomigliano al gioco dei bambini, quando accompagnano la costruzione di castelli sulla spiaggia con un mormorio ludico che dice: “facciamo che io ero il principe e tu la regina”.

L’autentica trasformazione della città è un’esperienza ludica, direbbe Lefebvre.

L’augurio è che il mormorio sociale alzi il volume e si affermi come nuovo discorso pubblico sul futuro della capitale. Ne abbiamo tanto bisogno.

Non ci nascondiamo però la cruda difficoltà. A promuovere queste esperienze sono le avanguardie culturali. Nella vita della periferia oggi è più difficile immaginare il futuro. Non è stato sempre così. Nella mia esperienza politica giovanile ricordo che i borgatari, così erano chiamati, si sentivano riconosciuti come cittadini mediante le grandi lotte di emancipazione. Pur nel fango, nella polvere e nella miseria avevano fiducia nell’avvenire. Quella stagione andrebbe ripensata il prossimo anno, cogliendo l’occasione del cinquantenario del convegno sui Mali di Roma, che diede voce alle classi subalterne.

Nel saggio più urticante e controverso, Paolo Perulli introduce una tripartizione della società tra elité, classe creativa e neoplebe.

Questa parola non mi scandalizza, poiché ha assunto ingiustamente, a mio avviso, un senso spregiativo nonostante abbia alle spalle una grande tradizione filosofica
Ha fatto bene Perulli a riutilizzarla nel dibattito scientifico, non nel senso di una nuova classe sociale, bensì di una galassia sociale ( e accolgo la sua critica a una versione precedente di questo articolo in cui parlavo ancora di classe). La plebe contemporanea è una figura antropologica determinata proprio dalla mancanza di riconoscimento, come insegna Hegel.

Il sistema politico-economico dominante ha colonizzato la vita popolare e ha desertificato i processi di riconoscimento, rendendo impossibile l’aspirazione al cambiamento, come ha svelato Appadurai.

Se questa interpretazione ha qualche fondamento, è ancora più prezioso il mormorio delle avanguardie culturali, poiché possono elaborare nuove tracce di riconoscimento per l’intera città.

La nostra speranza, ma anche il nostro impegno, è che le sperimentazioni di apprendimento sociale contribuiscano a riattivare l’immaginazione popolare.

Dalla Roma ancora Invisibile può emergere la Visione dell’avvenire.


Nessun commento:

Posta un commento