lunedì 17 novembre 2025

Il discorso più difficile di Tronti: la democrazia totalitaria

Il CRS ha organizzato un impegnativo convegno sull'opera di Mario Tronti. Di seguito potete leggere il mio intervento.


La democrazia è divenuta un regime totalitario, fondato sulla servitù volontaria che è introiettata nell’animo delle persone. “A noi è concessa libertà di pensiero ma non un pensiero di libertà” (Dello Spirito Libero, p. 43).

È lo stesso Tronti a definirlo il suo discorso più difficile, “il più aspro, il più respingente, il più improponibile”, nell’ultimo libro Il proprio tempo appreso col pensiero (p. 92).

La difficoltà non è tecnica né linguistica, ma è di carattere spirituale: consiste nel caricarsi sulle spalle l’indicibile. È la stessa difficoltà espressa sottovoce dagli apostoli nel Vangelo di Giovanni (6, 60-3): "Questo linguaggio è duro, chi può intenderlo?" E Gesù, sapendo in cuor suo che i discepoli mormoravano disse loro: "Questo vi scandalizza? E se vedeste il figlio dell'uomo salire dove era prima? È lo spirito che dà la vita".

Il nostro maestro risponde alla difficoltà spirituale con una decisione esistenziale: “.. mi carico sulle spalle l’indicibile.. non ho nulla da perdere e nulla da guadagnare. Tanto vale giocare a viso aperto quest’ultima partita” (p. 92). In un guizzo di spontaneità svela la tensione interiore tra il pensare e il sentire, quel sentire “che cerco di razionalmente di contenere, con la tentazione quotidiana di emotivamente abbandonarmi ad esso” (p. 82). E aggiunge che non vuole convincere nessuno (p. 68), dismettendo così le vesti del pensatore sempre proteso al compito politico. In un colloquio personale mi confessò che avrebbe voluto essere un dirigente del Partito Comunista Italiano.

La decisione esistenziale supera il vecchio motto, "pensare estremo e agire accorto", ripreso pochi giorni fa come titolo dell’incontro al Senato. La radicalità non ha più bisogno della “dissimulazione onesta” dell’amatissimo Torquato Accetto. Qui, credo si debba ricercare il senso della definizione di “libro postumo”, scritta poche ore prima della morte in quelle righe struggenti, ora pubblicate come esergo.

A un libro postumo si risponde con una critica postuma, dicendo oggi anche ciò che non abbiamo potuto o saputo dirgli quando era in vita. La libertà di pensiero che ha preso per sé, forse la consegna a noi discepoli increduli della sua parola, come gli apostoli.

La costellazione tra questi tre elementi - difficoltà spirituale, decisione esistenziale e libro postumo - orienta nuovi possibili sentieri della critica trontiana. Già li percorre questo convegno e il cammino proseguirà ad opera della nuova generazione di studiosi ai quali, proprio in questa occasione, la mia generazione consegna il testimone.

Il disamoramento tra capitalismo e democrazia.

A questo punto, però, viene un dubbio. È davvero un pensiero così indicibile quello della democrazia totalitaria? Sulla crisi democratica ormai ci sono intere biblioteche. Accanto a me, in questo convegno, ho alcuni dei migliori autori di questa letteratura: Ida Dominijanni (Totalitarismo democratico, Il Tascabile, 2025) e Alfio Mastropaolo (Fare la guerra con altri mezzi, Il Mulino, 2023) .
 
Oggi, si appalesa qualcosa di più di un malessere, un mutamento strutturale tra politica e società. Il nostro secolo forse sarà ricordato per il disamoramento tra capitalismo e democrazia. È il passaggio d’epoca che rende dicibile l’indicibile.

A conferma ci sono molti dati empirici. In quasi tutto il mondo il capitalismo sembra cavarsela bene senza legare le sue sorti a quelle della democrazia, non solo in Russia, in parte dell'Asia e dell'America Latina, ma ormai anche nella guida americana dell’Occidente. 

Viene da chiedersi se una tendenza così pervasiva su scala mondiale non abbia determinate cause strutturali. Se analizziamo a colpo d’occhio il capitalismo contemporaneo emerge la sua irrefrenabile concentrazione nei grandi monopoli: un grappolo di imprese digitali controlla quasi tutta la conoscenza; tre grandi fondi di investimento finanziario posseggono quasi l’80% delle azioni delle imprese americane ed europee; i crescenti consumi energetici e le terre rare per le tecnologie risvegliano la più antica forma di monopolio, quella del territorio. 
Questo capitalismo è molto diverso da quello classico di origine industriale: oggi si crea valore non con lo sviluppo dei fattori produttivi, ma acquisendo rendite di posizione. Come accadeva con la vecchia rendita immobiliare, un tempo ritenuto settore arretrato e invece oggi modello generalizzato nel far soldi. Non sarà un caso che a capo dell’impero americano ora ci sia un gruppo di immobiliaristi da Trump, a Kushner a Witkoff. 
È una creazione di valore senza produzione e infatti da decenni il tasso di crescita è molto basso, gli studiosi più seri parlano di “stagnazione secolare”, nonostante le promesse neoliberali di un prorompente sviluppo per tutti. Di conseguenza, sono proprio i monopoli ad acuire le disuguaglianze tra chi partecipa al grande banchetto della rendita e chi ne paga gli effetti recessivi nel campo produttivo. 

Il capitalismo dei rentiers ha una forma verticale e ha bisogno di appoggiarsi a somiglianti geometrie di potere. Per questo si accompagna molto bene alla verticalizzazione della politica. Il monopolio guarda dall’alto in basso la società e si aspetta che la politica abbia la stessa postura, anche a discapito delle noiose e pedanti regole democratiche. C’è un’affinità elettiva, anzi un’attrazione reciproca tra il rentiers monopolista il politico solo al comando, come dimostra la sorprendente alleanza tra le Big-Tech e Trump. 
In questo abbraccio si perdono i tradizionali confini e ancor di più i controlli tra il pubblico e il privato. Basti pensare all’impresa Palantir, fondata da Peter Thiel, che vende “potere” allo Stato, facendosi essa stessa strumento statale per le azioni di guerra, il controllo delle migrazioni, la gestione della sicurezza e l’elaborazione dei dati ospedalieri. Lo Stato è assorbito all’interno delle relazioni economiche ma, in senso opposto, questa è la novità che viene dall’America, anche il politico ricomincia a mettere bocca sulle decisioni economiche.

Tuttavia questa doppia verticale non si reggerebbe in piedi se non disponesse di una terza verticale che assicura, espande e radica il coinvolgimento della gente nel sistema. Il controllo dall’alto di un inedito Gestell tecnologico di comunicazione e di relazioni punta non solo alla formazione del consenso, ma più profondamente al dominio delle menti. Sul nascere era apparso come un sistema vocato all’espansione della democrazia, ma oggi sono sotto gli occhi di tutti i rischi di un’inedita servitù volontaria. 
 
Noi progressisti siamo caduti nell’abbaglio, ma il pericolo non sfuggì a un autentico liberale, Norberto Bobbio, col quale amava dialogare Tronti. Nei primi anni ottanta, quando la tecnologia non aveva ancora inventato la rete e il personal computer era ancora un prototipo, con ben altra preveggenza, Bobbio ammoniva in questo modo: 

Nessun despota dell’antichità, nessun monarca assoluto dell’età moderna, pur circondato da mille spie, è mai riuscito ad avere sui suoi sudditi tutte quelle informazioni che il piú democratico dei governi può attingere dall’uso di cervelli elettronici... Se non si riuscirà a trovare una risposta adeguata.. la democrazia, come avvento del governo visibile, è perduta..

Questo incredibile brano è contenuto nel suo libro sulle promesse non mantenute della democrazia (Il futuro della democrazia, Einaudi, 1984, p. 19). E forse aiuta ad alleggerire il peso del pensiero difficile di Tronti, rendendo meno indicibile la democrazia totalitaria. Il principe del pensiero liberale italiano ne parlava con una dissacrazione onesta molto lontana dal pudico conformismo della pubblicistica corrente.

L’innamoramento tra capitalismo e democrazia era maturato nel mezzo del Novecento con il grande compromesso suffragato dal Welfare State, prima per iniziativa dei liberali, come William Beveridge, e poi per gli sviluppi socialdemocratici. Ma il corteggiamento era cominciato nella seconda metà dell’Ottocento, non a caso insieme alla grande industria.

In precedenza, invece, la democrazia era aborrita dalle classi dirigenti liberali e per farne un tema costituzionale c’è voluto il Quarantotto, l’anno non solo delle rivoluzioni democratiche ma anche del Manifesto dei comunisti. Quando Tronti dice viviamo in un tempo premarxiano, quindi, il riferimento vale per l’arretramento nella lotta sia contro il Capitalismo sia per la Democrazia

Il disamoramento, invece, si consuma nel passaggio di millennio e si articola in tre fasi.

Come accade talvolta, l’amore svanisce quando si approssima la stabilizzazione del matrimonio. Infatti, nella prima fase, quella degli anni settanta apparentemente più propizi all’unione - quando il fallimento del comunismo sovietico nella vergogna di Praga e nella senescenza brezneviana sembra eliminare ogni ostacolo - è la Trilaterale a innescare la disaffezione, denunciando il sovraccarico della democrazia che frena il capitalismo.

Nella seconda fase del disamoramento, con la svolta reaganiana e thatcheriana, emerge l’egemonia neoliberale: non solo un’economia senza limiti e una politica dominata dall’impolitica, ma soprattuto l’ambizione antropologica di creare un uomo nuovo pienamente compatibile con la logica del capitale.


Il Dubbio dei Vincitori

La potenza di quella visione rispondeva per eccesso al Dubbio dei Vincitori, come dice una poesia di Pietro Ingrao. Quel dubbio ineffabile e inconsapevole si incunea nell’animo di chi ha vinto e lo induce a una risposta eccessiva per paura che si rialzi chi è stato vinto. È apparso molte volte nella storia: dal manto di sale sparso dai Romani sulla terra di Cartagine perché non crescesse più l’erba, fino alla prima guerra mondiale, quando Francia e Inghilterra sferrarono una punizione esagerata alla Germania, fino a innescare il contraccolpo del nazismo.

Gli anni Novanta, a dispetto dell’immagine ottimistica ancora diffusa, furono dominati dalla paura, più precisamente dalla paura che il comunismo potesse rinascere sotto mentite spoglie. Basta vedere le spietate ricette neoliberali applicate dagli americani, sfruttando le sbronze di Eltsin, come dice Mario, al fine di estirpare la radice sovietica, con il risultato di mortificare la Russia, di regalare i suoi beni a una sfrenata oligarchia economica - altro che libero mercato - e di preparare così la riscossa del figlio del KGB, Vladimir Putin, che oggi risveglia l’incubo americano dell’Impero del Male. La lezione dei vincitori della guerra mondiale non è servita ai vincitori della guerra fredda.

Ma il Dubbio dei Vincitori ha influenzato più in profondità la visione neoliberale. Solo la paura della rinascita del comunismo poteva condurre all’eccesso di una totale depoliticizzazione della vita associata. Ci siamo abituati e non ci facciamo più caso, ma che si possa governare il mondo con il pilota automatico è una teoria assurda, un titanico tentativo di ingegneria sociale, un’illusoria fine della storia. Che non si dovessero più stabilire dei fini politici all’economia, che si dovesse solo creare un’immenso mercato globale, questo estremismo occidentale ha nuociuto solo all’Occidente. Gli americani ora si accorgono di aver allevato il principale competitor del nuovo secolo, la Cina, e si disperano per aver lasciato andar le loro industrie, e corrono appresso al primo demagogo che grida America First
L’Europa ha addirittura fondato sulla depoliticizzazione il suo progetto di Unione e ora si trova nuda di fronte al problema politico per eccellenza, la pace e la guerra. Di più, le sue classi dirigenti, ormai anche cognitivamente depoliticizzate, non hanno neppure gli strumenti per affrontare il risentimento politicizzato dei popoli europei e gridano senza costrutto contro il populismo contribuendo alla fortuna della sua versione imperiale, il trumpismo.

Questo regime politico del leader salvato da Dio segna la terza fase, il livello più intenso del disamoramento, e costituisce una revisione profonda della visione neoliberale. Ne conserva la costruzione antropologica dell’homo economicus, ma elimina l’eccesso scaturito dal Dubbio dei Vincitori, rilanciando la decisione politica, pur dentro finalità capitalistiche.

Il presidente usa i dazi come una clava contro la globalizzazione, costringe gli europei a comprare armi e gas, in sfregio alle stesse regole dell’Unione; chiama nello studio ovale alcune imprese e non altre per il grande investimento sull’Intelligenza Artificiale; mette sotto controllo il cervello della tecnologia nelle università; espropria le terre rare agli ucraini; minaccia di ritirare la licenza alla rete televisiva CBS perché un suo anchorman parla della Palestina, mette in circolazione la criptovaluta della sua famiglia e dice perfino alla Coca Cola come deve migliorare la famosa bevanda. Altro che depoliticizzazione, questa è iperpolitica.


Tra Naphta e Settembrini

Da militante sconfitto sono affascinato dalla capacità camaleontica della destra. In mezzo secolo ha recitato diverse parti in commedia; dal compromesso welfariano, alla depoliticizzazione neoliberale fino all’iperpolitica trumpiana.

Loro hanno sempre cambiato gioco per vincere, noi siamo stati vinti ripetendo sempre lo stesso schema.

La destra è mutevole nelle sue convinzioni. Non ci dovrebbero ingannare le sue certezze ideologiche. La famosa triade Dio-Patria-Famiglia è solo una superficiale copertura dell’abisso ontologico squarciato dal suo pessimismo verso l’umano.

La destra non crede a niente e può fare di tutto; la sinistra crede a tutto e imita chi si trova di fronte.

Alla base c’è una differenza originaria descritta da Carlo Galli in Perché ancora destra e sinistra, un denso libretto riassunto e commentato mirabilmente da Ida Dominijanni (Il Manifesto del 27-4-2010).

Da un lato un’antropologia negativa che fronteggia il disordine del mondo con la reazione oppure con la rivoluzione, dall’altro un’antropologia positiva che cerca un ordine razionale come progresso lineare dell’umanità.

È il grande dibattito ideato da Thomas Mann nella Montagna Incantata, tra i nichilismo reazionario e rivoluzionario del gesuita Naphta e il razionalismo progressista del giovane ingegnere Settembrini. Tronti si schiera decisamente a fianco di Naphta.

Il discrimine è nel senso tragico della vita ossia nella lacerazione tipicamente occidentale tra ordine e caos, tra bene e male, tra apparenza e verità, spirito e materia e così via.

Solo a questo livello profondo si può spiegare l’apparente divergenza dell’opera trontiana. Ci si è domandati spesso come potesse conciliare il realismo politico e la profezia del Regno. Ma è proprio il senso tragico della vita a illuminare di fronte alla morte sia la contingenza del reale sia la speranza della salvezza. È il senso tragico a tenere insieme il Che fare di Lenin e la Secolarità Sacra di Panikkar, lo Stato di eccezione di Schmitt e lo scandalo della Croce di S. Paolo.

Per questo i capitoli centrali del libro postumo contengono una teoria unitaria della salvezza sia della rivoluzione sia della libertà. Entrambe sono rimaste prigioniere nelle gabbie pur diverse del socialismo reale e della democrazia totalitaria. Occorre quindi un’interpretazione congiunta della sconfitta comunista e della vittoria neoliberale. Si spiegano insieme perché sono l’esito del conflitto del secolo, qui inteso come il polemos eracliteo che non viene dopo i contendenti, ma li istituisce e li riconosce. Tutto il libro postumo cerca il profondo nesso tra i vincitori e i vinti del Novecento. Da qui Tronti ricava due compiti messianici: salvare la rivoluzione dal socialismo e salvare la libertà dalla democrazia.

Il libro postumo li connette strettamente, tanto da rendere impossibile la discussione di uno senza l’altro. Invece, la nostra critica postuma, a mio avviso, deve separarli radicalmente sulla base di una contrapposta valutazione storico-politica. Essi costituiscono i lati estremi dell’opera trontiana: la parte da dimenticare e la parte da riscoprire.

Il primo compito è un ferro vecchio da rimuovere decisamente per riconquistare lo spazio politico. Il secondo compito, invece, consegna agli eredi un lascito prezioso, ancora embrionale, ma fecondo di nuovi pensieri.

Come ci ricorda Derrida (Quale domani?, intervista con E. Roudinesco, Bollati Boringhieri 2004. p. 15), nel raccogliere l’eredità di un maestro c’è sempre, talvolta inconsapevolmente, una scelta, una selezione, una decisione tra ciò che lasciamo andare e ciò che vogliamo rielaborare.


Primo compito messianico: salvare la rivoluzione dal socialismo

Il primo compito fa i conti con la Rivoluzione d’Ottobre. E richiede una più severa critica postuma poiché è la parte più debole del libro postumo. Non svolge una vera analisi storica, ma solo due interpretazioni mitiche.

La prima dice: l’Ottobre è nato sacro ma è diventato profano. Come riconosce esplicitamente, Mario non ha convinto neppure la cara amica Rita Di Leo, che ha studiato il tema per tutta la vita.

Molto prima della rivoluzione bolscevica, la profanazione del sacro era stata consumata durante la Seconda Internazionale: la generatività sociale e culturale del primo socialismo era stata cristallizzata dal Partito e dallo Stato. Il movimento di socializzazione era approdato alla statalizzazione, con il vantaggio di generalizzare e consolidare le conquiste operaie, ma anche con lo svantaggio di svuotarle della loro carica libertaria.

Tra Ottocento e Novecento si determina un grande irrigidimento delle pratiche e degli ideali: l’associazionismo operaio viene racchiuso nei partiti verticistici; le camere del lavoro sono soffocate dagli apparati sindacali; il mutualismo, la cooperazione e le università popolari si tramutano nei servizi amministrativi dello Stato; il sogno del sol dell’avvenire viene appannato nell’ortodossia ideologica e soprattutto la fratellanza universale è tradita dai crediti di guerra e dal socialismo in un solo paese. In questa ipostasi del movimento operaio c’è una continuità dalla socialdemocrazia al comunismo. E infatti cadono insieme alla fine del Novecento quando per entrambi vengono meno le basi statali. Ciò che oggi ancora anima le esperienze alternative nelle periferie, nelle pratiche ambientali, nell’innovazione sociale, nei movimenti per la pace non è certo la tradizione comunista e socialdemocratica, ma la visione forse inconsapevole del sol dell’avvenire del primo socialismo.

Ora che il comunismo russo è morto dovremmo chiudere la chiave dall’esterno, dice Tronti. Non solo sono d’accordo, ma si può dire di più: è stata sopravvalutata la portata rivoluzionaria dell’Ottobre. Certamente ha costituito una preziosa mitologia della presa del Palazzo e della riscossa degli oppressi, ma nella realtà storica si è sviluppata in continuità con le trasformazioni in atto nell’Occidente del primo Novecento.

Innanzitutto in campo economico. La statalizzazione della proprietà delle imprese non ha messo in discussione la forma di produzione allora nascente del fordismo, semmai l’ha rafforzata con il volontarismo stakanovista. E la continuità sarebbe stata ancora più forte se fosse stata attuata la NEP proposta da Lenin.

In essenza, il regime russo può essere considerato una variante del più ampio processo di statalizzazione delle masse che promana dalla drammatica esperienza collettiva della grande guerra e nel secolo attraversa le molteplici forme politiche, non solo il comunismo e la socialdemocrazia, ma il nazi-fascismo e il New Deal americano, fino ai grandi partiti popolari del secondo dopoguerra. Sono tutte esperienze, positive o negative, di accesso delle classi subalterne alla grande dimensione statale. La variante bolscevica ci ha messo un di più di burocrazia asfissiante e di violenza contro i contadini e un di meno di prosperità per il popolo.

Paradossalmente il successo del comunismo russo non ha nulla a che fare con l’essenza del comunismo. Ha il merito di aver modernizzato il paese con la scolarizzazione e l’elettrificazione, ma per questi obiettivi sarebbe bastata anche una rivoluzione borghese. Ha il merito storico di aver salvato la “democrazia del Capitale” dal morbo mortale del nazismo che le era cresciuto in grembo, con il sacrificio di 20 milioni di morti nelle trincee di Stalingrado e non solo. Ha il merito di aver messo paura al capitalismo costringendolo in Occidente al compromesso con i lavoratori. Ma un regime che dà il meglio di se nel mettere paura, alla lunga, introietta questa efferata postura nel suo animo e non è più in grado suscitare la propria virtù, il marxiano “sogno di una cosa”.

L’altro mito trontiano considera l’Ottobre un atto di redenzione per il quale l’umanità non era ancora pronta. Anche se non lo esplicita, è il punto di vista del Grande Inquisitore di Karamazov: l’amore cristiano sarebbe una libertà sconvolgente se non intervenisse il potere clericale a salvare la vita dell’uomo. E purtroppo è diventato anche il motivo del regime sovietico: il comunismo della libertà sarebbe stato perturbante se il partito non lo avesse trattenuto.

Il Grande Inquisitore è una favola russa. Nella storia spirituale di quel grande paese e affascinante per tanti versi, si manifesta l’impossibilità di mediare la libertà tra due estremi: il mistero dell’umano e l’efferatezza del dominio.

Per Tronti è stata una fortuna che il comunismo sia nato nella terra di Dostoievsky e di Floresnky, ma quelle altissime figure spirituali hanno come rovescio della medaglia l’immagine spietata di Stalin.

Al contrario, io penso sia stata una tragedia storica radicare il comunismo in Russia. Forse oggi si capisce meglio che non è stata una rottura rivoluzionaria. C’è una secolare coazione a ripetere, dallo zarismo, allo stalinismo fino al putinismo. È una continuità esplicitamente rivendicata dal regime attuale e ben visibile in alcuni caratteri costanti: l’aggressività imperiale, il sovvertimento dall’interno dei paesi stranieri ieri con certi partiti fratelli oggi con gli hacker, l’omicidio come soluzione politica, l’acquiescenza popolare verso il potere.

Per essere sincero, non condivido l’indulgenza di una parte della sinistra verso l’attuale zar. Dal punto di vista del realismo politico se ne può perfino ammirare la capacità di governo, di gran lunga superiore rispetto alle incerte leadership europee. Sono anche d’accordo nel denunciare le gravissime responsabilità americane ed europee per la guerra in Ucraina. Ma tutto ciò non attenua la responsabilità morale e politica della Russia per tre anni di bombardamenti su popolazioni inermi, bambini, donne e anziani, e per il sacrificio al fronte di oltre mezzo milione di giovani russi morti o feriti. Devastazioni e morti che sono servite a Putin solo per gongolarsi con le figurine dell’album storico della Grande Russia.

Proprio per sottolineare questa continuità utilizzo l’espressione comunismo russo, invece dei termini in voga come socialismo reale o regime sovietico. 
Io appartengo all’ultima generazione che ha gridato nelle piazze “Vota Comunista”. Proprio noi dovremmo essere più duri degli anticomunisti contro il comunismo russo. Perché a noi ha tolto perfino la possibilità di usare la parola “comunismo”.

Forse perché divento vecchio, mi guardo indietro con il Dubbio dei Vinti: come abbiamo fatto ad accompagnarci con quel regime lordo di sangue che era la negazione del nostro ideale del comunismo come liberazione degli oppressi? Un’immagine allegorica affiora nei miei ricordi dell’autunno caldo. Poco più che ventenne, con il megafono in mano, mi trovai alla testa del combattivo corteo operaio all’interno della mia fabbrica, la Selenia. Entrai di prepotenza in un salone e ci trovammo di fronte una schiera di generaloni sovietici, con le loro stupidissime medaglie sul petto, che erano venuti ad acquistare i missili per la guerra. Per la riuscita dell’affare il perfido capo del personale sperava di fermarci, ma gli scioperi continuarono, la commessa svanì e ne fummo contenti. La libertà della nostra lotta era inarrestabile. 


Il secondo compito messianico: salvare la libertà dalla democrazia

Il secondo compito implica un ripensamento di due concezioni divergenti della tradizione occidentale: da un lato la libertà ridotta al libero arbitrio individualistico e dall’altro la libertà come spazio pubblico della relazione, del conflitto, dell’immaginazione di un mondo nuovo. In questa divergenza Hanna Arendt ha svelato il “tentativo cosciente di far divorziare dalla politica la nozione di libertà, per arrivare a concepirla in modo che si potesse essere liberi, pur essendo schiavi di fronte al mondo” (Tra passato e futuro, p. 192).

La sua era un’analisi storica del pensiero politico occidentale, ma si è rivelata a una profezia dell’epoca neoliberale. Anche in questo caso, infatti, il Dubbio dei Vincitori ha condotto all’eccesso. Per paura che risorgesse un agire politico, i Vincitori hanno esagerato la separazione della libertà dalla politica, per ricondurla alla sfera privata della scelta individuale.

Questo soggettivismo estremo e solitario non solo non impedisce, ma in una certo senso favorisce l’invasione del potere nel campo della vita. Se non altro perché esso opera una pericolosa selezione tra le facoltà spirituali dell’umano: espunge quelle riferite al rapporto con l’altro ed esalta solo la volontà di scelta che è quella più adatta “a imporre e a comandare”, e quindi più esposta alla deriva totalitaria (ivi p. 190).

Oggi quasi tutte le promesse neoliberali svelano i propri inganni. La pretesa faustiana di costruire una nuova umanità aveva promesso di eliminare la questione del potere mediante l’atomizzazione della società. Un’altra illusione da fine della Storia. Un’altra eterogensi dei fini. Il potere si ripresenta come forma immanente della vita.

Nella separazione dalla politica la libertà perde la sua dimensione relazionale e, osserva Ida Dominijanni, “assume una valenza normativa, disciplinante, complice del dispositivo prestazionale del capitalismo” (Il trucco, pp. 46-7).

Nella colonizzazione economica dell’umano, infatti, tali prestazioni devono essere definite in termini di codici, standard, valori, calcoli, algoritmi. La marcia trionfale della tecnica rende ancora più pervasivi i sistemi di regolazione. La promessa di un’infinità libertà per l’individuo si capovolge nell’ineffabile potere sulla vita come non si è mai visto prima. Così, l’individuo isolato è assorbito in un mondo artificiale, che da un lato ne potenzia tutte le facoltà, ma nel contempo lo separa dalla vita sia per difetto sia per eccesso.

Per difetto perché svuotato del legame sociale rimane intrappolato in un suadente mondo virtuale, come Agilulfo, il Cavaliere Inesistente di Italo Calvino, chiuso in un’armatura tanto vuota quanto sfolgorante.

E per eccesso perché si identifica in ogni cosa gli capiti a tiro, come il suo scudiero Gurdulù che si tuffa nella pentola della zuppa per goderne a pieno.

Entrambi i personaggi calviniani si sentono padroni delle loro scelte, ma sono in balia di un potere che li conduce a uno squilibrio con la vita: Agilulfo è libero di compiere le azioni più strampalate, ma tutte rigorosamente dentro l’ordine cavalleresco e Gurdulù è libero di godere di qualsiasi cosa, ma senza desiderarla davvero. La dissonanza per eccesso e per difetto segnala che la vita è scissa, perde la misura quando viene esposta senza filtri al potere.

Per gli appassionati di serie TV consiglio di vedere Scissione, l’inquietante narrazione di una grande impresa che applica un dispositivo ai cervelli dei lavoratori per separare totalmente la loro vita lavorativa da quella privata.

La presa diretta del potere sulla vita è la radice del totalitarismo democratico. Ecco il problema fondamentale. E Tronti lo risolve con un’ardita mossa intellettuale sulla scia di Alexandre Kojève (La nozione di Autorità). Irrompe nel suo discorso il concetto di Autorità che libera il campo della vita dal Potere, dice: “autorità è esattamente quanto può garantire la libertà vera, cioè quella che lascia distinti e separati il potere dalla vita. È stata una geniale intuizione di quel pensiero femminile, non a caso detto della differenza, aver richiamato la distinzione di potere e autorità” (p. 99).

Purtroppo è solo un accenno di poche pagine. Avrebbe meritato l’intero testo, ma è un libro postumo che lascia a noi la responsabilità di proseguire la ricerca.

In tal senso ci offre una chiave di lettura della crisi d’autorità: “non c’è più demos nel corpo della democrazia, ma perché non c’è stato più kratos nella sua anima.. Perché il potere ha perso autorità. Di qui, la tentazione non del fascismo eterno, piuttosto di un nuovo autoritarismo nelle vesti di democrazie illiberali. Non basta, per batterlo, difendere lo status quo della democrazia liberale. Occorre tornare a coniugare autorità e libertà” (pp. 113-4)

Infatti, proprio l’eccesso di separazione tra libertà e politica oggi rende ingovernabili le società occidentali. L’individuo isolato si trova nudo di fronte a invisibili forme di dominio, non possiede più gli strumenti politici né per conoscerle né per combatterle. Da qui discendono lo spaesamento, il rancore, il tumulto, la ricerca di capri espiatori ecc. 
I paesi più ricchi sembrano senza una guida: i leader politici appaiono o sono realmente inadeguati; i contrasti tra interessi si travestono in guerre di religione; i conflitti internazionali non ammettono mediazione ma solo annientamento del nemico; un clima da guerra civile strisciante turba la sazia convivenza; sono acclamati i comportamenti estremi, l’invettiva, la volgarità; la volontà imperiale americana è delegittimata al suo interno dalle divisioni su ciò che è veramente americano.

Sembra attuale la profezia di Ortega Y Gasset: “A distruggere la civiltà non saranno più i barbari ma gli uomini qualunque che credono di sapere tutto senza sapere nulla, che hanno tutto ma non hanno più nulla da desiderare”.

Nonostante l’esibizione di potenza la democrazia totalitaria fallisce proprio nel governo della società. Su questo smacco si esaurisce la lunga fase reaganiana e si apre il nuovo ciclo trumpiano. Anche nelle biografie, tra i due presidenti c’è sempre stato un contrasto. E di recente il presidente della regione canadese dell’Ontario per attaccare Trump ha finanziato uno spot televisivo contenente un discorso di Reagan contro la politica dei dazi.

La mutazione camaleontica della destra, però, non finisce mai e forse ci riserva altre sorprese. Nei facoltosi think-tank americani si prepara una svolta ancora più profonda. Un segnale inquietante viene da Peter Thiel, un miliardario, guru digitale e avventuroso imprenditore, ma anche filosofo, ormai dedito a elaborare una compiuta ideologia del trumpismo e ad addestrare il successore, il giovane vicepresidente Vance.

Stupefacente è il motto di Thiel: la democrazia non è più compatibile con la libertà. E le sue ricadute pratiche portano alle estreme conseguenze il mito individualista, fino a immaginare di portare su un altro pianeta i più ricchi e più intelligenti, lasciando che la Terra vada in malora.

Questa subcultura tecnocratica non deve ingannare, anche Reagan all’inizio sembrava un personaggio bizzarro, ma ha inaugurato un ciclo politico di quasi mezzo secolo.


La scelta del campo di lotta

Di fronte a questa sfida quale sarà il nostro campo di lotta? Pensiamo davvero che l’abbrutimento istituzionale della nuova destra si possa battere con le buone maniere delle regole liberali?

Che sia un’arma spuntata dovremmo saperlo noi italiani meglio di altri. Non siamo mai riusciti nella cultura di massa a sconfiggere Berlusconi, il vero precursore del trumpismo ed espressione emblematica di quell’attitudine italiana nell’invenzione del maligno, che già si manifestò con l’esportazione del fascismo nel mondo.

Con il Cavaliere il nostro allarme per le regole, la nostra indignazione per le malefatte, il nostro disgusto per i bunga bunga non bastarono. Pensammo di batterlo invocando la distinzione dei poteri e il rispetto delle istituzioni, ma lui aveva già saltato il fosso con un’idea di libertà intesa come volontà politica che viene prima delle leggi democratiche. Ed è lo stesso movimento che oggi intraprende Trump e forse svilupperà Thiel.

Non trattengo l’ammirazione per i leader che hanno radicalizzato la propria parte, altro che rincorsa al centro, e fondato partiti mai visti prima, dal Polo delle Libertà al nuovo partito repubblicano americano. Immaginiamo cosa sarebbe potuto diventare il partito socialista europeo se i suoi leader avessero avuto il coraggio radicalizzarne la politica e l’ideologia.

Alla fine, quindi, scopriamo che quello del libro postumo non è affatto un discorso difficile, anzi quasi coincide con quanto si va elaborando al centro dell’Impero. Il motto di Thiel – la democrazia è incompatibile con la libertà – coincide quasi alla lettera con il motto di Tronti: salvare la libertà dalla democrazia.

Le parole sono le stesse, ma i significati sono opposti. Per la destra americana la libertà serve a spianare la strada al futuro distopico dei monopoli Big-Tech, mentre risveglia gli incubi del passato: l’assalto a Capitol Hill non è da meno dell’incendio del Reichstag; le ordinanze presidenziali non sono molto diverse dalle “leggi fascistissime”; i controlli sui messaggi dei social sarebbero piaciuti al Tribunale Speciale.

Il motto trontiano, invece, indica un compito messianico. La salvezza della libertà dalla democrazia come superamento di “una società di individui indipendenti”, a favore di “una società di persone autonome” (p. 102), un popolo di spiriti liberi.

Coincidenza e differenza dei due motti sono molto significative per il futuro possibile di una sinistra ancora inimmaginabile.

La coincidenza dovrebbe condurre la sinistra nel campo di lotta di fronte all’avversario ovvero sulla concezione politica della libertà. Saremmo già sulla buona strada. Quando si parla la stessa lingua del nemico, vuol dire che il conflitto è reale e forse anche produttivo. I grandi conflitti si svolgono tra soggetti simmetrici che si combattono su un terreno comune: la civiltà industriale nella lotta tra capitale e lavoro, il riconoscimento hegeliano tra servo e signore, le guerre di religione del New Model Army che preparano lo Stato moderno.

La differenza invece è nascosta nella similitudine dei due motti. Come si è visto, con il Dubbio dei Vincitori la destra ha giocato sempre in eccesso, ha smentito se stessa e ha vinto tutte le battaglie dell’ultimo mezzo secolo.

Al contrario, a Tronti e a molti di noi il discorso è apparso difficile solo perché siamo stati vinti. Per noi, e solo per noi, è diventata indicibile la democrazia totalitaria.

Nel distico di Pietro Ingrao il verso del Dubbio dei Vincitori si accompagna a un altro verso che parla di noi: L’indicibile dei vinti.

Cosi, in una sorta di dialogo in cielo si intrecciano la poesia di Pietro e il libro postumo di Mario.

I nostri patriarchi ci incitano a riconquistare la parola libertà contro il destino indicibile
 

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