Intervento per la commemorazione di Giovanni Berlinguer tenutasi in Senato nella seduta dell’8 Aprile 2015.
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Signor presidente, onorevoli senatori,
è venuto a mancare Giovanni Berlinguer, una figura eminente della Repubblica. È stato uno dei migliori uomini politici italiani. Ha servito con passione e competenza le istituzioni, dal Campidoglio, alla Camera, al Senato, al Parlamento europeo. In ogni assemblea elettiva ha lasciato un segno inconfondibile della sua presenza. Anche in quest'aula di Palazzo Madama si ricordano i suoi contributi preziosi e sempre aperti al confronto con chi la pensava diversamente.
Eppure, nel celebrarne il valore politico mi pare di non dire quasi nulla sulla ricchezza della sua personalità. È stato infatti non solo un politico, ma uno scienziato di ampi orizzonti, un militante dell'impegno sociale, un intellettuale riconosciuto a livello internazionale. È impressionante la vastità dei suoi interessi, la diversità dei campi di azione e la molteplicità dei linguaggi. A tenere insieme questa complessità di pensiero e azione poteva essere solo una pregiata stoffa di umanità, che negli esiti appariva esplicitamente ai suoi interlocutori, ma nelle motivazioni rimaneva come una forza segreta del suo animo. Era un piacere discutere con lui, un'occasione imperdibile lavorare insieme, un privilegio averlo come amico.
Nei diversi gradi della relazione con gli altri rimaneva costante il suo stile lieve, generoso, semplice, curioso e ironico. Non era privo di contrasti, che però non si elidevano tra loro, anzi vibravano come le corde di un violino creando il fascino della sua personalità: intransigente e aperta, determinata e mite, solare e profonda.
Alla radice di tutto c’era la sua bontà, come ha rivelato il cugino Luigi in uno struggente ricordo familiare. È inusuale usare per un politico la parola bontà. Quando viene ostentata si capovolge nel fariseismo oppure si irrigidisce nella precettistica. Quando invece viene dissimulata agisce come una forza interiore che mette in movimento tutte le doti di una persona. In questo significato segreto Giovanni era prima di tutto un uomo buono. Lo era perché amava la vita e a questo fine intendeva piegare la politica.
La sua lezione è tutta qui: prendersi cura della relazione tra politica e vita, che oggi invece rischia di essere recisa dalle algide tecnocrazie, dalle arroganze mediatiche e dagli inconsapevoli conformismi.
Quella relazione spiega la sua opera, anche come parlamentare. Non a caso ha dato il contributo più intenso proprio nelle grandi leggi che hanno suscitato un profondo coinvolgimento popolare, come l’interruzione di gravidanza, il superamento dei manicomi e la riforma sanitaria; da rileggere la bella dichiarazione di voto a favore che in quella occasione pronunciò a nome del Pci.
La medicina è malata, si intitolava così il libro che negli anni cinquanta anticipava, mediante la critica ai saperi correnti, i principi della riforma: la prevenzione della salute, l’attenzione alle condizioni ambientali e lavorative, la lotta alla diseguaglianza nell’accesso alla cura, una questione che ancora negli anni duemila riteneva cruciale, sottolineando i grandi progressi raggiunti dalla scienza e dalla pratica medica e allo stesso tempo però il paradosso di un mondo sempre più diviso tra i problemi dell’obesità e quelli della morte per fame.
Il suo primo libro che mi capitò tra le mani è stato Le borgate di Roma, scritto insieme ad un altro caro maestro della mia generazione, Piero Della Seta. L’impegno del politico che si occupava della vita dei baraccati nella periferia della capitale si intrecciava con la razionalità e la sensibilità del medico del popolo. Quel libro era utilizzato contemporaneamente come testo universitario nella nascente disciplina della sociologia urbana e come manuale d’uso nelle sezioni di partito e nelle associazioni di quartiere.
Lo studio dei rapporti tra salute ed eguaglianza sociale lo ha reso famoso nei paesi latinoamericani, non solo a livello accademico, con ampio risalto dei suoi lavori scientifici, ma anche per il riconoscimento popolare. Il presidente Lula disse, in un consesso internazionale, “Giovanni Berlinguer è da noi quasi una leggenda”. È accaduto spesso a grandi italiani di essere riconosciuti meglio all’estero che in patria.
La sua autorevolezza ha avuto un peso anche negli organismi internazionali, ad esempio nell’Organizzazione mondiale della Sanità per lo studio delle determinanti sociali della salute; lo ha ricordato il presidente dell’apposita commissione Michael Marmott nel messaggio inviato alla commemorazione tenutasi stamane alla Sapienza. Come relatore della Dichiarazione Universale sulla Bioetica dell’Unesco contribuì a superare le fratture ideologiche proponendo una “bioetica quotidiana” come autocoscienza della vita delle persone. E nel Parlamento europeo avanzò importanti proposte nelle risoluzioni per le politiche relative al cambiamento climatico.
Giovanni Berlinguer è stato un innovatore in tutti i campi, anche nel suo partito. Nel Pci ha contribuito a superare le angustie ideologiche, volgendo sempre lo sguardo ai cambiamenti del mondo, spesso in anticipo rispetto agli altri dirigenti. È del ‘73 una sua analisi su informatica e democrazia che solo oggi con l’avvento della rete è divenuta questione cruciale.
Non ha mai avuto paura del nuovo inteso come seria analisi del mutamento, ma negli anni duemila divenne sospettoso del nuovismo inteso come vuota retorica che nasconde il conformismo. Denunciò il pericolo quando venne candidato alla segreteria dei Democratici di Sinistra, in un memorabile discorso, riprendendo un apologo di Gioacchino Rossini: a un giovane compositore che gli portava il suo spartito per un giudizio disse: “ciò che è bello non è nuovo e ciò che è nuovo non è bello”.
Giovanni si fermo lì, noi andammo avanti a fondare un nuovo partito. Ma proprio per questo abbiamo il dovere di dimostrare ogni giorno che il nuovo è davvero bello e che della tradizione prendiamo solo le virtù lasciando cadere i difetti. Tra le virtù che Giovanni raccomandava c’era la priorità della questione morale, riprendendo, senza mai ostentarla, l’eredità del fratello Enrico. Nella corruttela, diceva, la politica non solo compie un danno allo Stato e un’ingiustizia tra i cittadini, ma soprattutto delegittima se stessa, perde la dignità e quindi la forza di cambiare le cose.
Ma forse la grandezza della persona si vede anche nelle attività più eccentriche e apparentemente minori. La relazione tra politica e vita era ricercata anche negli studi entomologici che liberavano al massimo grado la sua creatività. Dall’analisi dell’operosità delle api, al mondo delle pulci che, come faceva notare, ha agito nella storia decidendo le sorti di grandi battaglie più della genialità dei generali; fino a quella singolarissima usanza di tenere in casa un cucciolo di leopardo, quasi a ricercare una dimensione domestica di quella vitalità apparentemente inquietante.
Le relazioni tra i viventi di tutte le specie era il suo assillo. Ma per una sorte amara negli ultimi anni è stato segnato proprio da quella malattia che impedisce le relazioni con gli altri. Dopo aver studiato per una vita la socialità della salute, la sua mente si è chiusa in un mondo scarno di parole.
Se ne è andato poco dopo la scomparsa della sua amatissima Giuliana, come accade nei grandi amori tra due persone, dove nasce il desiderio di accompagnare l’altro non solo nella vita ma anche nella morte.
Negli ultimi tempi, quando incontrava gli amici, Giuliana diceva loro “venite a trovare il mio ragazzo”. A un amico che accettò l’invito capitò la fortuna di essere riconosciuto e di ascoltare una domanda incredibile - “che cosa posso fare?” - come se cercasse ancora la via dell’impegno sociale e politico. Giovanni lascia in eredità ai giovani questa domanda: che cosa posso fare, non solo per me, ma per noi, per la società, per il nostro Paese?
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