Qui di seguito il terzo e ultimo appuntamento della serie La Rete e il Castello, il mio saggio sullo stato attuale della ricerca e università in Italia. Potete recuperare anche la prima e la seconda puntata.
Abbiamo approvato in Senato il decreto sulle regole di finanziamento dell'università con riferimento al criterio del costo standard. L'argomento presenta una certa complessità matematica che ho cercato di spiegare in un testo inevitabilmente difficile. Una sintesi semplificata si può leggere nel testo del mio intervento nell'aula del Senato a pagina 41 di questo documento PDF. Rispetto a quel testo, è stato successivamente eliminato con il voto di fiducia l'emendamento 12.27.
Abbiamo approvato in Senato il decreto sulle regole di finanziamento dell'università con riferimento al criterio del costo standard. L'argomento presenta una certa complessità matematica che ho cercato di spiegare in un testo inevitabilmente difficile. Una sintesi semplificata si può leggere nel testo del mio intervento nell'aula del Senato a pagina 41 di questo documento PDF. Rispetto a quel testo, è stato successivamente eliminato con il voto di fiducia l'emendamento 12.27.
Negli ultimi mesi molti atenei hanno istituito il numero chiuso in diversi corsi di studio. Si chiudono le porte dell'università nonostante il basso numero di immatricolati. Si scoraggiano i giovani al proseguimento degli studi in un paese che ha la metà dei laureati rispetto alla media europea. È una politica contro l'interesse nazionale, ma nessuno l'ha dichiarata e nessuno si assume la responsabilità degli effetti. È solo la conseguenza di algoritmi apparentemente neutrali e incomprensibili ai cittadini. Se ne sono serviti i governi degli ultimi dieci anni per attuare la più pesante recessione nella storia del sistema universitario italiano, una sorta di triplice arretramento di circa -20, -20, -20 per cento di docenti, di fondi e di studenti. Nessun altro comparto della pubblica amministrazione ha subito un salasso di questa portata. E nessun altro paese europeo ha risposto alla crisi indebolendo le strutture dell'alta formazione e della ricerca.
Dal 2014 a oggi il numero chiuso è stato aiutato anche dall'applicazione dell'algoritmo del costo standard nella ripartizione dei finanziamenti. Esso infatti contiene palesi errori nel metodo di calcolo e determina effetti dannosi e iniqui nel sistema universitario. La Corte Costituzionale però ha annullato i decreti con i quali i governi passati si erano impossessati illegittimamente della competenza e ha restituito la parola al Parlamento. In questi giorni abbiamo potuto discutere le norme sul costo standard inserite dal governo nell'articolo 12 del decreto legge n. 91/2017 dedicato un tema diverso come il Mezzogiorno, senza la coerenza di argomento che sarebbe prescritta dalle regole costituzionali.
In base alla sentenza della Corte il governo ha inserito nel decreto una sorta di sanatoria sulla ripartizione dei fondi dal 2014 a oggi. Voleva altresì prolungare negli anni successivi l'applicazione del suo algoritmo, ma la ritrovata potestà legislativa del Parlamento ha consentito di correggere almeno gli errori più gravi del metodo matematico. Provo a renderli comprensibili, spero senza perdere il rigore dell'analisi. Spesso la complessità di questi algoritmi rimane oscura ai più e impedisce la limpida discussione sui contenuti delle politiche pubbliche.
Il baco dell'algoritmo
Il costo standard per studente è una positiva innovazione che dovrebbe consentire di superare il vecchio modo di finanziamento, basato in parte sulla spesa storica e in parte su un modello di costo standard elaborato dal CNVSU, il comitato di valutazione che esisteva prima dell'Anvur.
Oggi il criterio è applicato a circa un quinto del finanziamento, ma nei prossimi anni dovrebbe regolare l'intera ripartizione del Fondo di finanziamento ordinario (FFO), al netto della quota cosiddetta premiale ripartita sulla base della valutazione della ricerca condotta dall'Anvur.
Poiché le nuove regole avranno un forte impatto sul sistema, devono essere definite accuratamente. Inoltre, esse comportano la revisione degli strumenti del vecchio approccio che potrebbero avere effetti negativi nel nuovo. Nessuna di queste due condizioni è assicurata. L'algoritmo del costo standard contiene un grave baco, e manca una rielaborazione delle regole del sistema.
Di seguito analizzo le incongruenze del modello, segnalate in un corposo parere della Commissione Cultura, e le correzioni proposte dagli emendamenti presentati dal Gruppo Pd del Senato, concordati con il Miur e in parte approvati.
La formula di base della ripartizione dei fondi tra gli atenei è apparentemente semplice:
F=N×C
che significa: il fabbisogno finanziario F di tutti i corsi di studi della medesima classe, cioè concernenti la stessa disciplina, è dato dal numero N degli studenti moltiplicato per il costo standard C di ciascuno studente. Già qui sorge il primo problema sulla definizione di N, che fino a oggi ha escluso gli studenti fuori corso. Il criterio svantaggia gli atenei che ne hanno un numero maggiore, in particolare quelli meridionali. L'emendamento 12.25 amplia il calcolo di N agli studenti del primo anno fuori corso, perché si tratta di solito di studenti che, a differenza dei ritardatari di lunga durata, continuano a frequentare i corsi, spesso devono solo completare la tesi di laurea e comunque utilizzano pienamente i servizi di ateneo. Infatti, questo criterio estensivo è stato già adottato nelle norme che abbiamo approvato sulle borse di studio e sulla no-tax area.
Sommando i fabbisogni di tutti i corsi si ottiene il fabbisogno FA dell'ateneo. Sommando i valori FA di tutti gli atenei si ottiene il fabbisogno totale FS del sistema universitario e quindi la quota percentuale QP spettante ai singoli atenei.
F=N×C
che significa: il fabbisogno finanziario F di tutti i corsi di studi della medesima classe, cioè concernenti la stessa disciplina, è dato dal numero N degli studenti moltiplicato per il costo standard C di ciascuno studente. Già qui sorge il primo problema sulla definizione di N, che fino a oggi ha escluso gli studenti fuori corso. Il criterio svantaggia gli atenei che ne hanno un numero maggiore, in particolare quelli meridionali. L'emendamento 12.25 amplia il calcolo di N agli studenti del primo anno fuori corso, perché si tratta di solito di studenti che, a differenza dei ritardatari di lunga durata, continuano a frequentare i corsi, spesso devono solo completare la tesi di laurea e comunque utilizzano pienamente i servizi di ateneo. Infatti, questo criterio estensivo è stato già adottato nelle norme che abbiamo approvato sulle borse di studio e sulla no-tax area.
Sommando i fabbisogni di tutti i corsi si ottiene il fabbisogno FA dell'ateneo. Sommando i valori FA di tutti gli atenei si ottiene il fabbisogno totale FS del sistema universitario e quindi la quota percentuale QP spettante ai singoli atenei.
Fino a oggi è stato utilizzato il coefficiente di riparto QP, ma non il valore totale FS. Detto in altri termini, finora il Ministero ha applicato il costo standard agli atenei per ripartire i fondi, ma non lo ha applicato a sé stesso per definire lo stanziamento necessario all'università. Non è casuale. Se si considerasse il fabbisogno totale il finanziamento ordinario del sistema, al netto delle quote premiali, dovrebbe aumentare del 20-30%; ad esempio, nel 2014 lo stanziamento si è attestato a 4.9 miliardi mentre il fabbisogno era di 6.3 miliardi di euro; è come se nel quadriennio di applicazione del costo standard l'università avesse perduto un'annualità di FFO rispetto ai costi riconosciuti dal modello. Questa differenza non poteva emergere con la spesa storica, ma ora risulta da una semplice moltiplicazione del costo standard per il numero totale degli studenti.
Si potrebbe sostenere che la differenza è compensata dalle entrate delle tasse. Sarebbe però una compensazione ingiusta. Vorrebbe dire che gli atenei del Nord ottengono l’intero fabbisogno in quanto godono di maggiore capacità contributiva delle famiglie degli studenti, mentre al contrario gli atenei meridionali sono sottofinanziati perché operano in contesti sociali svantaggiati. Il diritto all’istruzione superiore deve essere assicurato equamente e non può dipendere dalla capacità contributiva dei territori.
L'emendamento 12.27 intende evidenziare il fabbisogno totale FS che ogni anno dovrebbe costituire il punto di riferimento nella discussione sugli stanziamenti della legge di stabilità. La norma è stata approvata nella Commissione Bilancio, ma è stata cancellata dal governo in occasione del voto di fiducia, con una grave forzatura istituzionale.
Veniamo ora al baco dell'algoritmo. Il costo standard C è il rapporto tra il totale dei costi (CD) relativi ai vari corsi di studio, raggruppati in classi, e il numero standard NS di studenti ritenuto ottimale dal Ministero per le diverse macro-aree disciplinari (medica-sanitaria, scientifica-tecnologica e umanistica-sociale).
C=CD/NS
C=CD/NS
La variabile CD è rappresenta quasi esclusivamente dal costo della docenza calcolato sulla base del numero minimo dei professori necessari per l’accreditamento del corso di studio. A partire da questo valore sono poi determinati, mediante coefficienti parametrici, altri costi della docenza a contratto e del personale tecnico-amministrativo, con l'aggiunta infine di una voce relativa alla dotazione dei servizi e delle infrastrutture. Il parametro NS è invece un parametro definito artificiosamente senza una dimostrazione analitica della sua congruità; tanto è vero che nel decreto in esame se ne rende possibile anche un abbattimento fino al 60% del valore definito per l’accreditamento. La disinvoltura con cui si modifica la numerosità standard degli studenti, che come vedremo svolge un ruolo decisivo nel modello, dice tutto circa la sua arbitrarietà. Inoltre, la definizione del valore NS per sole tre macro-aree disciplinari può produrre distorsioni rilevanti in alcune sub-aree che presentano modalità organizzative diverse.
C'è poi una distorsione più grave determinata dall'attribuzione a NS di un valore crescente nella serie delle tre macro-aree, medica-sanitaria, scientifica-tecnologica, umanistica-sociale. Poiché ciò avviene a parità di numero di docenti per corso si ottiene un andamento decrescente del costo standard nella serie delle tre aree. L'effetto è di forte penalizzazione della macro-area umanistica-sociale, che nella suddetta formula del costo standard vede diminuire C a causa dell'aumento del denominatore NS in costanza del numeratore CD. Ad esempio, al corso di Lettere viene riconosciuto un costo standard per studente inferiore pur dovendosi assicurare lo stesso numero di docenti del corso di Ingegneria o di Medicina. È come dire che il contributo dello Stato per un professore di Filosofia è più basso di quello per il professore di Idraulica o di Odontoiatria, pur ricevendo tutti lo stesso stipendio. Invece, il modello corretto dovrebbe mantenere costante il costo standard in tutte le discipline e riconoscere invece, per rimanere nell'esempio, che a Ingegneria o Medicina sarebbe necessari più professori per la didattica in laboratorio o in ospedale. In tal modo rimarrebbe costante il fabbisogno unitario per professori di discipline diverse e aumenterebbe il fabbisogno FA per i corsi che richiedono un maggior numero di docenti.
L'effetto della distorsione disciplinare si fa sentire nel numero chiuso generalizzato introdotto recentemente da varie università, ad esempio quella di Milano. Spesso i rettori preferiscono bloccare le iscrizioni nelle discipline umanistiche e sociali per ottenere in discipline scientifiche e tecnologiche o sanitarie un maggiore numero di professori, i cui stipendi sono rimborsati in misura maggiore dallo Stato. Il profilo formativo, però, dovrebbe dipendere dal progetto culturale dell'ateneo e non da una regolazione economica arbitraria. Non può essere un algoritmo ministeriale a decidere l'organizzazione culturale dell'università italiana.
Tornando al modello vigente, possiamo riscrivere la formula base F=N×C esplicitando la composizione del costo standard come sopra definita, ottenendo la seguente formula:
F=NxCD/NS
F=NxCD/NS
che però può essere scritta anche così:
F=CDxN/NS
Questa espressione consente di interpretare meglio il significato reale: il fabbisogno di un corso F è determinato dal costo della docenza CD moltiplicato per una sorta di fattore di riempimento del corso medesimo R=N/NS, cioè del numero di studenti effettivi in rapporto alla numerosità che il Ministero ha definito come standard. Se NS può variare del 40% passando da un decreto all'altro significa che tutto il modello poggia su parametri arbitrari. Già questo dovrebbe essere sufficiente per dubitare della presunta neutralità delle scelte che vengono operate mediante l'algoritmo.
Ma c'è un effetto distorsivo più grave che mi pare sia sfuggito finora alla discussione pubblica. Se R<1, cioè se il numero degli studenti è inferiore allo standard, il fabbisogno F viene ridotto in proporzione, pur rimanendo costante il costo della docenza CD. Al contrario, se R>1, cioè se il numero degli studenti è superiore allo standard, il fabbisogno F è aumentato in proporzione, anche in questo caso in costanza dell'onere della docenza CD.
Il modello è in contrasto con la realtà: aumenta o diminuisce il finanziamento dei corsi che presentano lo stesso costo della docenza. E il discrimine tra aumento o riduzione è determinato dal parametro NS che, come detto sopra, è definito arbitrariamente.
Consideriamo un semplice esempio tra due atenei che offrono due corsi di Lettere con una diversa partecipazione, il primo di venti studenti e il secondo di duecento studenti, con numero standard fissato a cento. Il secondo ateneo riceve un finanziamento dieci volte superiore al primo ateneo, pur affrontando entrambi gli stessi costi. Se anche le numerosità fossero meno distanziate, ad esempio 75 e 150, comunque un finanziamento sarebbe doppio dell'altro, con uno squilibrio comunque inaccettabile rispetto ad attività formative di pari costo. È come se lo stipendio del docente venisse rimborsato dallo Stato due o dieci volte di più a un ateneo solo perché è più grande di un altro.
È evidente che il modello nasconde una grave distorsione dimensionale priva di qualsiasi giustificazione relativa ai costi reali. A difesa si potrebbe sostenere che è una policy contro la proliferazione di corsi con bassa partecipazione studentesca. Se fosse questa l'intenzione basterebbe innalzare la soglia minima di accreditamento dei corsi, oppure se si volesse incentivare economicamente l'accorpamento dei corsi, almeno nei luoghi dove la domanda lo consente, si potrebbe riconoscere una quota parziale, ma non la quantità intera dell'aumento di studenti per corso.
Tornando agli esempi precedenti, si può accettare che il corso più numeroso abbia una piccola maggiorazione del finanziamento, anche se è discutibile perché esso già gode di economie di scala nei costi fissi dei servizi, ma certo l'aumento non può arrivare al 100% o al 900%, perché in tali casi non è più un'incentivazione all'accorpamento, ma è una regola di sistema che premia solo la dimensione.
L'algoritmo determina una fortissima penalizzazione degli atenei collocati in bacini poco attrattivi, meno accessibili o comunque a domanda più debole. È una pesante gerarchizzazione del sistema che colpisce il Mezzogiorno, le aree interne del Centro e perfino alcune province del Nord, dalla Liguria al Friuli. Nei quattro anni passati proprio con questi criteri sbagliati e ingiusti sono stati distribuiti miliardi di euro.
Gli autori del modello sono evidentemente consapevoli di tali squilibri se avvertono l'esigenza di introdurre due coefficienti di riequilibrio: le condizioni sociali ed economiche del territorio e l'accessibilità dei trasporti per i singoli atenei. Per calcolarli individuano nuovi algoritmi che introducono variabili esterne al sistema, di complessa definizione. È molto difficile rappresentare con precisione i nessi tra le scelte di iscrizione all'università e l'ambiente socioeconomico, infatti i modelli utilizzati in passato producono correttivi di pochi punti percentuali e comunque molto al di sotto della soglia massima del 10% prevista nel decreto. Ancora più esagerata è la pretesa di rappresentare in un modello l'accessibilità trasportistica dell'intero territorio nazionale. Non è mai stato elaborato neppure ai fini della politica dei trasporti, è curioso che si riesca a farlo bene per la politica universitaria.
Sono evidentemente correzioni rozze di un modello che non funziona. È un classico fenomeno à la Kuhn, quando si risponde al fallimento di un paradigma con soluzioni artificiose che complicano il modello e procurano ulteriori fallimenti, fino al punto che si rende necessario sostituire il paradigma iniziale.
Lo squilibrio è accentuato da un altro meccanismo. Come si è detto, il fabbisogno totale FS non è finanziato interamente dallo Stato, e di conseguenza si devono ripartire i fondi secondo la quota percentuale QP del fabbisogno di ateneo FA. Mettiamo il caso che un ottimo ateneo attui una politica molto attrattiva e riesca a immatricolare più studenti nella coorte dei diplomati rispetto all'anno precedente. Per il Paese con la penuria di laureati sarebbe una buona notizia, ma avrebbe un effetto negativo sugli altri atenei. I nuovi studenti che entrano nel sistema, infatti, non innalzano il finanziamento totale, ma modificano solo i coefficienti di riparto provocando un aumento dove si immatricolano e una diminuzione negli altri. È una regola conservativa che sembra fatta apposta per mantenere la penuria di laureati.
Si svela così l'equivoco dell'algoritmo che non riguarda affatto la regolazione dei costi, ma serve solo a definire un premio ai forti e una penalizzazione ai deboli, a parità di oneri per la docenza. D'altronde non è una novità, è l’esito di tutti gli algoritmi introdotti nell'ultimo decennio: il turn over, l'accreditamento, la ricerca. In particolare gli ultimi provvedimenti fanno capire dove si vuole andare: 500 professori selezionati da commissioni governative e pagati bene con le cattedre Natta, mentre a tutti gli altri professori sono stati bloccati gli adeguamenti stipendiali; 270 dipartimenti finanziati bene e liberi di assumere, mentre per gli altri 540 dipartimenti rimangono i tagli e i vincoli al turn-over. Tutte queste regole hanno l'obiettivo inconfessato di portare all'estinzione una parte degli atenei per concentrare le risorse sugli altri. A tal fine si è raccontata la falsa storiella delle troppe università che ci sarebbero in Italia, mentre le comparazioni internazionali dimostrano il contrario. Di nuovo bisogna osservare che è una policy ostile all'aumento del numero dei laureati, e del tutto coerente con il calo delle immatricolazioni degli ultimi anni. Per un balzo in avanti verso la media europea non è sufficiente che l'università cresca nelle grandi città, ma si deve innalzare la qualità degli atenei nelle reti capillari del paese, nella provincia profonda e tra gli strati sociali più svantaggiati.
La correzione del metodo di calcolo
Vediamo ora come si può eliminare l'errore del modello vigente e come si può impostare il modello corretto. A tal fine è utile riassumere le diverse configurazioni della numerosità degli studenti. Nel grafico seguente si distinguono tre livelli:
Al di sotto del livello standard NS c'è il livello minimo di studenti NMIN che è necessario perché si ottenga l'accreditamento dei corsi. Al di sopra di NS c'è il livello massimo NMAX oltre il quale, sempre secondo le regole di accreditamento, l'ateneo è obbligato ad aumentare in quota parte il numero dei docenti e di conseguenza vedrà aumentare anche il costo docenza CD. In pratica tra NMIN e NMAX il costo della docenza CD rimane costante e di conseguenza dovrebbe essere costante anche il fabbisogno F che viene riconosciuto dallo Stato. Per fare un esempio, non dovrebbe cambiare il costo della docenza, e neppure il rimborso statale, se in un'aula con un professore ci sono 50 o 100 studenti. Questa semplice considerazione sfugge all'algoritmo utilizzato fin qui. Basta un grafico per rendere visibile l'errore del modello vigente, che presuppone un'impossibile funzione continua, cioè proporzionale, fra F e N (fig. b), mentre nella realtà, ben rappresentata con il modello corretto, il fabbisogno F è una funzione discreta che procede a salti all'aumentare degli studenti (fig. c).
La correzione dell'algoritmo è ottenuta con l'emendamento 12.8 che determina la costanza del fabbisogno per qualsiasi numero di studenti compreso tra valori minimi e massimi, la cui definizione è affidata ad un successivo decreto ministeriale. In questo modo si rispecchia il funzionamento reale del sistema. Ovviamente l'ateneo più grande sarà finanziato di più nella misura in cui offrirà un maggior numero di corsi, tenendo conto quindi dei suoi maggiori costi reali. Il ricorso ad un'ampia fascia di numerosità studenti a valore costante di costo della docenza renderà l’algoritmo più stabile e coerente.
A rigore non si tratta solo di una correzione, ma è un vero cambio di paradigma à la Khun. Come sostiene il parere della Commissione Cultura con il nuovo modello di calcolo si potrebbero superare i rozzi coefficienti di riequilibrio territoriale, perché la nuova logica dell’algoritmo risolverebbe intrinsecamente gli squilibri. Non ci sarebbe più bisogno di calcolare improbabili parametri di accessibilità trasportistica che intervengono dall'esterno del sistema. La costanza di F tra NMIN e NMAX modifica dall'interno l'algoritmo e assicura lo stesso fabbisogno agli atenei che hanno una bassa partecipazione di studenti a causa di condizioni logistiche svantaggiate. È inutile mettersi a calcolare il numero di treni, navi e aerei che servono Sassari o Cagliari, perché quegli atenei riceverebbero lo stesso rimborso del costo della docenza per ogni corso di studio anche se gli studenti fossero in numero minore della Sapienza, del Politecnico di Milano o della Federico II.
Anche l'altro coefficiente di riequilibrio relativo alle condizioni sociali potrebbe essere risolto all'interno del sistema di regolazione dell'università, senza scomodare le variabili esterne dei modelli economici territoriali. Basterebbe utilizzare il dato delle entrate contributive degli studenti, che è strettamente correlato ai redditi medi locali, come dimostrato da molti studi. Occorrerebbe un coefficiente di riequilibrio inversamente proporzionale al livello di tassazione, ovviamente senza annullare l'entrata per l'ateneo. Si introdurrebbe anche un utile disincentivo all'aumento del prelievo contributivo a carico delle famiglie degli studenti, che si è verificato in Italia in controtendenza rispetto all'Europa continentale. Tuttavia, nella Commissione Bilancio si è ritenuto di non poter ristrutturare l'intero modello e si è così deciso di limitare gli emendamenti agli errori principali, confermando i coefficienti esterni di riequilibrio come previsti dal decreto legge.
La variabile indipendente del sistema
Per valutare la capacità espansiva dell'università occorre approfondire lo scenario R>1 relativo alla numerosità di studenti superiore allo standard NS, come rappresentato nella fig. a. Quando N supera NMAX, il decreto ministeriale sull'accreditamento dei corsi impone di aumentare quota parte del numero dei docenti, ma contemporaneamente un’altra legge, quella del 2008 sul turn-over, può impedire l'assunzione dei docenti necessari. L'ateneo si trova nella demenziale situazione di non poter assumere il docente per il quale ha ricevuto un finanziamento aggiuntivo in base al costo standard. Siamo dentro un tipico "Comma 22", perché si affastellano regole che rispondono a logiche diverse.
Il Ministero non è consapevole della portata dell'innovazione intrapresa. Il costo standard cambia radicalmente la regolazione del sistema e dovrebbe implicare quindi una revisione di tutte le regole precedenti. La coesistenza di algoritmi conflittuali determina diverse contraddizioni e suscita comportamenti non positivi degli atenei.
L'effetto più negativo è la proliferazione del numero chiuso. Convergono nel fenomeno diverse risposte dei rettori. Per evitare il doppio vincolo di dover aumentare docenti senza poterli assumere, l'ateneo fissa il numero chiuso al livello NMAX. Oppure può accadere che l'ateneo disponga di piccoli margini assunzionali, ma voglia spenderli in certe discipline e quindi blocca le altre con il numero chiuso. Può accadere anche che il miglioramento di attrattività di alcuni atenei, essendo lo stanziamento inferiore al fabbisogno, causi indirettamente un taglio di risorse docenti ad altri atenei, costringendoli a introdurre il numero chiuso. In tutti i casi il sistema si regola sull'offerta dei docenti e non sulla domanda degli studenti.
Questa regolazione sarebbe inaccettabile nel sistema scolastico, che risponde alla crescita della popolazione studentesca con un corrispondente aumento del numero degli insegnanti, anche se con le farraginose modalità delle graduatorie, ormai poste definitivamente ad esaurimento. La stessa dinamica di sviluppo si dovrebbe verificare nell'università se il Ministero applicasse coerentemente la logica del costo standard. Il conflitto con le regole delle assunzioni, invece, produce un ribaltamento della regolazione che assume come variabile indipendente il numero dei docenti e non la domanda degli studenti. Che vi sia un basso livello delle immatricolazioni da quasi un decennio non è un accidente, ma la logica conseguenza di questa e di altre regole del sistema. È una policy che impedisce al Paese di raggiungere gli obiettivi europei sul numero dei laureati.
L'avvento del costo standard implica l'abbandono dei vincoli del turn-over. Negli anni si sono stratificate diverse forme di riduzione degli organici, secondo una bulimia normativa che rende incomprensibile il funzionamento del sistema. Provo a riassumere le norme principali:
a) norma Tremonti (la legge n. 133 del 2008 e successive revisioni) che stabilisce a livello nazionale un limite massimo per il turn-over;
b) decreto ministeriale per la ripartizione tra le università delle risorse assunzionali derivanti dai pensionamenti, che ha già prodotto la migrazione di circa un migliaio di cattedre dal Sud al Nord;
c) decreto legislativo Profumo n. 49 del 2012 che definisce a livello di ateneo un ulteriore vincolo alle spese del personale in relazione ai parametri di bilancio, introducendo un incentivo alla crescita del prelievo contributivo sui redditi degli studenti, che si è effettivamente realizzata.
Abbiamo tentato di disboscare questa selva normativa nel modo seguente. L'emendamento 12.28 concordato con il Miur intendeva eliminare il limite nazionale di Tremonti (a) e di conseguenza far cadere anche il decreto ministeriale di riparto (b) che ne costituisce l'attuazione. È stato bocciato dalla Commissione Bilancio sulla base di un parere negativo del MEF, a mio avviso infondato sul piano giuridico e contabile.
L'emendamento 12.8 che corregge l'algoritmo stabilendo la costanza del fabbisogno a parità di docenza, nella versione originaria conteneva una seconda parte volta a disinnescare anche le assurde norme Profumo (c) almeno nel caso R>1 di superamento di NMAX che determina l'obbligo di aumentare il numero dei docenti. Su questa parte dell'emendamento non si è però raggiunto l'accordo con il governo.
L'eliminazione dei vincoli sul turn-over sarebbe la correzione più importante da apportare alla dissennata politica universitaria dell'ultimo decennio. Una volta introdotto il costo standard il sistema dovrebbe regolarsi sulla base della domanda degli studenti e non può più tollerare le restrizioni all'offerta del numero dei docenti.
D'altro canto la regolazione del turn-over non è più neppure necessaria ai fini del controllo della spesa pubblica. Nel nuovo schema, infatti, la politica delle assunzioni degli atenei non può in nessun modo influire sulla crescita della spesa poiché è costretta a muoversi all'interno del budget assegnato con la ripartizione del fondo FFO. Non esiste alcuna norma che obblighi il Ministero dell'Economia ad aumentare lo stanziamento perché quel certo ateneo ha assunto un docente in più all'interno del proprio bilancio.
Il vincolo del turn-over non serve a tenere sotto controllo il debito pubblico, ma addirittura vieta le assunzioni anche agli atenei che hanno risorse proprie, distorcendo la logica del costo standard. Questa ossessione normativa ha danneggiato pesantemente l'università italiana, tenendo fuori dalla porta due generazioni di giovani studiosi, causando un pernicioso invecchiamento della docenza, inaridendo prestigiosi filoni di ricerca per mancanza di ricambio generazionale. L'ipocrisia della politica economica nazionale contabilizza come risparmio il blocco delle assunzioni, senza considerare i costi economici e culturali determinati dalla crescita di una "seconda università" grande come quella dei professori di ruolo, ma costituita da ricercatori precari, privi dei diritti elementari e di opportunità di riconoscimento dei meriti, spesso costretti ad abbandonare o il Paese o la passione per la ricerca.
Lo strapotere della burocrazia ministeriale dell'Economia, cresciuto con complicità o la debolezza dei governi, alimenta il disordine nella macchina statale, senza neppure garantire il contenimento della spesa pubblica, come è sotto gli occhi di tutti.
Le regole di finanziamento dell'università
Il decreto in discussione prevede che a regime il costo standard sostituisca completamente il criterio della spesa storica. Di conseguenza il fondo FFO verrebbe a comporsi di tre elementi: costo standard, fondo premiale degli atenei e una quota che dovrebbe essere aggiuntiva per i superdipartimenti. È una composizione irrazionale e inefficace.
Innanzitutto, non si capisce perché si debbano sommare due quote premiali, ridondanti in quanto calcolate sulla stessa base dati della VQR. Quella degli atenei, pur con i suoi difetti, è ormai abbastanza consolidata, ma quella dei dipartimenti è frutto di un algoritmo basato su presupposti ideologici e di dubbia validità scientifica. Come è noto, esso confronta le mele con le pere, combinando parametri comparativi calcolati per differenti aree disciplinari e ricorrendo a complesse compensazioni statistiche incomprensibili al di là di una cerchia ristretta di persone. Inoltre, in alcuni casi gli esiti sono in contrasto con l'interesse pubblico: ad esempio si premia la Sicilia solo per i dipartimenti di Giurisprudenza, da sempre dominanti, mentre quella regione avrebbe bisogno di rafforzare le frontiere scientifiche. Inoltre, questa premialità supera il blocco del turn-over per 180 dipartimenti su 720, cioè ottiene proprio quella deroga alla norma Tremonti che è stata negata nel criterio del costo standard. In sostanza il numero dei docenti non dipende dalla crescita della domanda degli studenti ma solo dall’offerta dei dipartimenti.
Entrambe le quote premiali sono peraltro fuori posto in un fondo come FFO chiamato non a caso di finanziamento ordinario. Dovrebbero essere inserite invece in un apposito capitolo nel bilancio del Ministero. Si otterrebbe allora un FFO interamente attribuito sulla base del costo standard, che nel modello corretto assegnerebbe un fabbisogno corrispondente ai costi effettivi. Si eviterebbe inoltre il curioso sistema per cui il premio di un anno si tramuta immediatamente per un ateneo nel suo finanziamento “ordinario” e risulta quindi protetto da tutte le variazioni negli anni successivi. Sarebbe come se, vinta una volta una gara, la si vincesse ogni anno, almeno in termini di premio riscosso.
È però riduttivo considerare la didattica l'unica voce di finanziamento del sistema, come se non esistessero altre funzioni, soprattutto la ricerca e la troppo spesso dimenticata terza missione. Il fondo ordinario dovrebbe avere una struttura più articolata per rappresentare e sostenere il campo di attività degli atenei oggi molto più ampio di una volta.
Sarebbe importante incentivare la promozione della crescita culturale, civile ed economica nei territori di riferimento. La ricerca andrebbe considerata non solo come premialità, ma come volume di attività, essendo una componente non meno rilevante della didattica e comunque decisiva per definire il profilo scientifico dell'ateneo. L'attuale modello considera lo stipendio del professore come rappresentativo anche dei costi della ricerca, ma è una semplificazione drastica che non tiene conto di specifici oneri degli investimenti e dei servizi nei laboratori. Come si è visto, in alcuni casi si ricorre al numero chiuso per conquistare margini di investimento sulle risorse per la ricerca, negate dall'applicazione esclusiva del criterio del costo standard. Per evitare ulteriori motivi di chiusura delle porte dell'università, è bene che l'attività di ricerca sia finanziata esplicitamente nel fondo FFO.
Infine, si dovrebbe considerare anche il sostegno alle strategie di sviluppo del sistema universitario. Il fondo ordinario non dovrebbe intendersi statico, come esclusiva gestione dell'esistente, ma dovrebbe contenere una voce finalizzata a raggiungere ben definiti obiettivi nazionali. Se si vuole aumentare il numero dei laureati verso livelli europei bisogna sostenere le politiche di crescita della domanda degli studenti. Se si vuole aiutare la rinascita del Mezzogiorno, si devono sostenere anche gli atenei deboli ma preziosi per determinate aree, magari stipulando accordi di programma che finanziano obiettivi di miglioramento verificabili. Se si vuole rafforzare il profilo internazionale occorrono programmi di investimento per tenere il passo delle reti lunghe nella ricerca di frontiera.
Si possono fare altri esempi, ma in sostanza occorre una politica del Paese per l'università, da finanziare in modo esplicito insieme alla componente che scaturisce dal calcolo corretto del costo standard.
Algoritmi e democrazia
Riassumendo, gli emendamenti del Gruppo Pd concordati con la Ministra Fedeli e approvati in aula consentono di apportare due importanti correttivi al modello: conteggio degli studenti fuori corso e valore costante del fabbisogno a parità di costo docenza. Sono stati bocciati, invece, l’emendamento sul superamento del vincolo del turn-over e quello sul fabbisogno nazionale.
Rimangono irrisolti altri problemi: l'insufficiente finanziamento del fabbisogno totale, lo squilibrio a discapito dell'area umanistica-sociale, la mancata revisione generale delle regole del fondo FFO. A tal fine, avevo proposto di limitare le norme del decreto all'inevitabile sanatoria dei quattro anni passati e di prevedere un nuovo disegno di legge per riformare organicamente le regole di finanziamento per i prossimi anni. Sarebbe stata anche l'occasione per sottoporre la riforma ad un'ampia discussione pubblica, ottenendo sicuramente contributi migliorativi e creando una diffusa consapevolezza sulle regole di sistema. Purtroppo, non c'è stato l'accordo e di conseguenza siamo dovuti intervenire con correttivi puntuali.
Rimane quindi uno scarto preoccupante tra la portata sistemica del costo standard e l'assenza di discussione all'interno e all'esterno dell'accademia.
Rimane il fatto che per quattro anni diversi atenei sono stati penalizzati da un algoritmo sbagliato. È la conseguenza di un accentramento delle decisioni. Ho ricordato all'inizio che il Parlamento ha potuto discutere i criteri solo perché una sentenza della Corte Costituzionale ha annullato i decreti governativi. Addirittura, oggi il governo ha cancellato col voto di fiducia la norma approvata dalla commissione parlamentare sul turn-over. Sono episodi della più generale tendenza dell'esecutivo a impadronirsi del potere legislativo. La revisione costituzionale voleva santificare questo accentramento di potere, che comunque prosegue in via di fatto anche dopo la bocciatura venuta dal popolo italiano nel referendum.
Gli algoritmi sono stati utilizzati spesso per impedire un confronto sulle politiche pubbliche. Può darsi che queste mie pagine risultino prolisse e noiose, e me ne scuso, ma sono un tentativo di spiegare un criptico testo legislativo, al fine di renderlo controllabile da parte dei cittadini interessati.
La proliferazione del numero chiuso non sembra decisa da nessuno ma accade come ineluttabile conseguenza metodi di calcolo di fatto non verificabili dai non addetti ai lavori.
Se un ministro andasse in televisione ad annunciare la decisione di limitare gli accessi dei giovani all'università, se ne discuterebbe apertamente e forse le proteste dell'opinione pubblica lo impedirebbero. Invece, si è ammantata di motivazioni tecniche una rilevante scelta politica che impedisce al Paese di prevedere, seppure gradualmente, il raddoppio del numero dei laureati secondo gli standard europei. Questo obiettivo non manca mai nella retorica ufficiale, ma di fatto l’establishment politico-accademico ha preferito conservare l’equilibrio a ribasso. Se nonostante tutto i giovani italiani volessero in misura maggiore proseguire gli studi, troverebbero le porte chiuse in molti atenei a causa del blocco del turn-over e di altre norme astruse.
Al costo standard abbiamo apportato alcune utili correzioni, ma non basta. Nei prossimi mesi dovremo fare di più per apportare una correzione all'intera politica universitaria dell'ultimo decennio.
Niente affatto noiose, al contrario utili per capire una materia così intricata e controversa, le tue osservazioni.
RispondiEliminaAggiungerei un dato preliminare, che ritengo preoccupante e a cui nessuno presta la dovuta attenzione, ovvero quello della "licealizzazione" sempre più accentuata della secondaria superiore italiana. Oggi il 53,1% dei ragazzi sceglie un Liceo, uno su tre opta per un Istituto tecnico e solo il 16,5% per un Istituto professionale ( In Germania, ad esempio, quest'ultimo indirizzo raccoglie attorno al 65% delle iscrizioni totali). Scegliere il Liceo significa scegliere la filiera lunga di formazione, cioè a dire l'università, che invece vede scemare in misura preoccupante le iscrizioni (altro che Lisbona 2020!). Come è possibile sostenere in futuro una prospettiva del genere, in cui oltre il 50% degli studenti italiani dovrebbero frequentare l'università per dare un senso alle proprie scelte e invece si disperdono, con in mano un diploma senza terminalità? Non è il caso di ripensare a meccanismi orientativi fin dalla scuola superiore (con algoritmi certo migliori di quello che è stato utilizzato per assegnare le cattedre)? L'efficacia di azioni che, per rammodernare un abito, iniziano dal cappello e non dalle scarpe, si misura fatalmente solo con la logica del mero risparmio. Una parte notevole della questione risiede in un investimento mirato e consistente sulle scuole tecnico-professionali: avrebbe riflessi utili anche per l'università.
Grazie.
Claudio
Parole sacrosante, caro Claudio, occorre una strategia unitaria per scuola e università. E il filone tecnico professionale ne ha più bisogno, non solo per attrarre studenti verso il diploma, ma anche come formazione tecnica para universitaria.
EliminaLa strategia di smontare l'apparato formativo tecnico, nella scuola media superiore, è un lavoro (anche culturale) perverso iniziato decenni fa, il cui risultato finale è una società senza tecnici e capacità manuali (fornite da immigrati). Mi pare sbagliato questa corsa ad avere lo stesso numero di laureati tecnici come nei paesi del nord-europa dove esiste un'industria in grado di assorbire e valorizzare tali competenze (non a caso molti bravi ingegneri e scienziati italiani espatriano con successo). L'analisi dell'apparato formativo di medio e alto livello (come pure delle esigenze di ricerca) dovrebbe partire da un'analisi della situazione industriale e tecnologica della società italiana, non dalle statistiche europee.
EliminaStefano Galli
Avevo svolto un'analisi simile alla sua pubblicata sul sito di ROARS qualche tempo fa
RispondiEliminahttps://www.roars.it/online/gli-effetti-perversi-delle-formule-dei-costi-standard/
I problemi sollevati sono tanti. Effettivamente era necessaria una rivisitazione complessiva, e la cosa ancora più assurda è senza la sentenza della Corte Costituzionale le formule sbagliate del costo standard avrebbero continuato a creare le ingiustizie da lei segnalate.
Qualche osservazione sugli emendamenti.
Temo che l'emendamento 12.8 che lascia costanti le dotazioni standard per i costi della didattica possa non raggiungere lo scopo. C'è un possibile equivoco di fondo. La "numerosità minima" citata nell'emendamento non necessariamente è la numerosità minima prevista dalla normativa sull'accreditamento, cioè quella al di sotto della quale il corso di studio non può essere attivato. Allo stesso modo la "numerosità massima" dell'emendamento non necessariamente è la numerosità massima al di sopra della quale l'ateneo deve prevedere nuovi docenti di riferimento. Tali numerosità, purtroppo, sono rimesse al solito decreto ministeriale, cioè all'arbitrio degli anonimi tecnici del MIUR. La mia previsione (accetto scommesse) è che tale DM prevederà
numerosità minima = 60% * numerosità di riferimento
numerosità massima = 100% * numerosità di riferimento
Purtroppo ciò renderà vano l'emendamento. Facciamo un esempio. Prendiamo la Laurea Magistrale in Matematica (LM-40), sulla cui importanza per il Paese credo che non ci siano molti dubbi.
La numerosità di riferimento per tale laurea è 65, un numero altissimo. Il 60% di 65 è 39. Ebbene, tra tutti gli atenei italiani che hanno attivato la laurea magistrale in Matematica solamente 10 (su 36 !!!) sono sopra 39 studenti l'anno. Si tratta degli atenei più grandi, come La Sapienza, Napoli Federico II, Torino, ecc.. Ben il 72% degli atenei, invece, rimane sotto la soglia minima, pur abbassata dal decreto-legge, di 39 studenti. La maggior parte di tali atenei si trova a SUD del Paese. Gli atenei più periferici, o quelli che sono insediati in territori a bassa densità di popolazione, o con un'alta dispersione scolastica, sono assai sotto tale soglia minima, e continueranno a perdere pesantemente.
L'esempio fatto per la laurea in Matematica si può fare anche per altre classi di laurea (Fisica, Geologia, ecc.), altrettanto strategiche per il Paese.
Condivido poi la sua critica all'algoritmo di riparto della perequazione economica. Come si desume dall'analisi su ROARS, tale perequazione finisce perfino per premiare, dando loro una "perequazione", gli atenei che hanno violato la legge, superando il tetto massimo di legge sulle tasse universitarie. Inoltre, considerare come parametro di riferimento il reddito medio familiare su scala regionale è completamente fuorviante. Recentemente il MIUR ha elaborato i dati degli studenti beneficiari della no-tax area. Ho confrontato tali dati con il reddito medio familiare della regione in cui ha sede l'ateneo. I due parametri sono completamente scorrelati tra loro. Vi sono atenei con un'altissima percentuale di esonerati dalle tasse ma con un effetto perequativo del costo standard assai modesto, e viceversa altri atenei con pochi esonerati e tasse fuori controllo ma premiati dalla perequazione del costo standard. Possibile che non si possa fare nulla a riguardo?
(continua...)
Grazie per l'utilissimo commento. Ha ragione, l'esito finale dipende da come viene scritto il decreto ministeriale. L'emendamento è frutto di una difficile mediazione con il governo che voleva mantenere il modello sbagliato e iniquo degli anni passati. Non è detto che il conservatorismo non si ripresenti in fase attuativa. Occorrerà vigilare nel Parlamento e nella comunità scientifica. A tal fine mi piacerebbe rimanere in contatto, se vuole mi scriva pure sulla posta Senato. Purtroppo non avevo letto il suo articolo, è un peccato, mi sarebbe stato utilissimo nella discussione parlamentare. Colgo l'occasione per raccomandarne la lettura ai visitatori di questo blog che volessero approfondire l'argomento.
EliminaInfine, il mio rammarico sull'emendamento sul turn-over. Era un emendamento importantissimo. Per la prima volta si cercava di scardinare un marchingegno diabolico, nato ai tempi del Governo Monti, ma difeso strenuamente dai Ministri Carrozza e Giannini.
RispondiEliminaForse l'emendamento era troppo ambizioso. Eliminando il tetto al turn-over il MEF ha avuto gioco facile a porre il veto con la solita (assurda) scusa delle coperture finanziarie. Data la situazione, sarebbe già stato un risultato eccezionale riuscire ad eliminare l'assurda norma, che vige solo per le università, secondo la quale un pensionamento all'Università di Catania va a finanziare un nuovo posto all'Università di Milano, soltanto perché quest'ultima ha una tassazione più alta (e probabilmente fuori-legge).
Ora c'è la legge di bilancio. Si riuscirà in quella occasione a portare a segno qualcuno di questi tentativi?
Beniamino Cappelletti Montano
Walter, molto interessante. Materia complessa. Ma mi sembra (ammetto potrebbe essermi sfuggito) che noi abbiamo - nel confronto europeo - un enorme deficit di studenti in area tecnico scientifica mentre siamo a livello (anzi ne abbiamo qualcuno in più) per le aree umane e sociali.
RispondiEliminaGrazie Dario, in effetti ricordi bene, con la percentuale dei laureati "arts and humanities del 15.8% siamo sopra la media europea di 11%, poco sopra la Germania (12.2%) e in linea con la Gran Bretagna (15.5%); le statistiche Eurostat non forniscono il dato per ingegneria: https://goo.gl/5Ac95E. Però, rimango convinto che non sia corretto utilizzare il costo standard per regolare le scelte degli studenti. Invece di mettere il numero chiuso a Lettere, sarebbe necessario promuovere le lauree scientifiche e in generale migliorare l'orientamento degli studenti.
EliminaOttima analisi sullo status quo del finanziamento al sistema universitario. Intelligenti e ben poste anche le riflessioni e le critiche. Ma sorge immediata la domanda: quale è la logica politico/sociale che sta dietro questo modo di procedere? Capisco la logica di governi di centro/destra. Una società governata da un'oligarchia che domina e guida tutti gli altri, con l'accesso al sistema terziario solo alle classi abbienti e con una università funzionale al mercato. Capisco le logiche Montiane: risparmio. Ma sinceramente non riesco affatto a capire come governi (supposti) progressisti si muovano sui solchi fatti da quegli altri. Eppure, questi "strombazzano" di ricerca/istruzione e del suo ruolo sociale. Così come del valore in se' della cultura (argomento portato avanti dalla sinistra, da sempre) indipendentemente se utile o no al mercato. Su questo, vorrei criticare l'articolo di Dario Braca dove (e nella sua risposta qui conferma) si caldeggia una università funzionale al mercato, sempre più finalizzata, a scapito della ricerca (libera) di base. A questo riguardo, vorrei ricordare in questo blog di addetti ai lavori che scoperte come il transistor o idee come il bosone di higgs sono scaturite da ricerche di base, non finalizzate a nulla se non a lasciar libero il pensiero umano. Come militante PD e uomo di sinistra mi sembra doveroso che si apra un dibattito serio e approfondito su questo argomento e si discuta su proposte assai fantasiose come quelle di riformare l’università per darle una struttura piramidale.
RispondiEliminaIn effetti, ci vorrebbe un dibattito aperto dal Pd con i suoi elettori; il nuovo responsabile della politica universitaria, sen. Francesco Verducci, ha intenzione di promuoverlo.
EliminaCaro Walter, eccellente articolo, ma anch'io ho qualche dubbio simile a quello trasmesso da Dario Braga (e appartengo all'area umanistica); quanto alle università "piccole" occorrerebbe verificare sul serio quali siano le strutture reali offerte agli studenti (anche per le aree umanistiche), e quindi il livello della loro formazione, Roberto Antonelli
RispondiEliminaRoberto Antonelli
Grazie Roberto, sui dati ho risposto a Braga. Hai ragione sui piccoli atenei, che dovrebbero essere grandi per qualità, altrimenti tutto si riduce in una dispersione di risorse.
EliminaCaro Walter, ottimo articolo, riflessione attenta e visione condivisibile. Me ne sono occupato come direttore del dipartimento di architettura di Firenze e come presidente della Conferenza universitaria italiana di architettura (ex conferenza dei presidi di architettura).
RispondiEliminaLa nostra riflessione e proposta era più limitata alla correzione delle assurdità e criticità determinate dal DM987, non solo per l'area progetto, prima fra tutte la numerosità di riferimento che per tutta l'area progetto (architettura, design, pianificazione, paesaggio, conservazione) è fissata in 75 e una massima devastante di 180. seconda il non riconoscimento che anche per direttiva europea dal 50% al 60% delle attività devono essere di laboratorio di progettazione che in tutto il mondo vede una numerosità di 20-30 studenti.
poi i laboratori che per l'area progetto in relazione alla digitalizzazione globale del progetto richiede una dotazione di laboratori di ricerca e formazione essenziali per la continua innovazione della formazione.
poi la docenza di supporto ai docenti dei corsi di laboratorio di progettazione.
insomma sono pienamente d'accordo sulla sommarietà della componente NS che è la variabile determinante del costo standard.
una notazione la ridotta differenza di numerosità fra primo ciclo e secondo ciclo combinata con la naturale riduzione degli studenti fra primo e secondo ciclo è contraddittoria con il senso del modello "Bologna" e induce ad una contrazione dei corsi di secondo livello, riducendone la potenzialità di specializzazione che può essere offerta dalle università, nella logica dominante da troppi anni di contrazione dell'università pubblica italiana, fra le migliori al mondo e le meno finanziate, e di contrazione del diritto allo studio.
grazie dell'articolo davvero eccellente
Saverio Mecca
Grazie Saverio, la tua esperienza contribuisce a chiarire molte questioni. In particolare lo squilibrio che l'algoritmo produce tra il primo e il secondo ciclo; non ci avevo pensato, è utile la tua osservazione.
Eliminapenso sia matura, anche sulla base della tua analisi, una conferenza nazionale sul tema del finanziamento dell'università pubblica come azione strategica di sviluppo del paese e in particolare di sostegno alla debolezza di prospettive di lavoro nella ricerca e nella formazione superiore. abbiamo probabilmente le migliori generazioni come qualità della formazione e rinunciamo ad aprire gli spazi per la ricerca professionale e una formazione aggiornata.
Eliminaserve un piano decennale di assunzioni di ricercatori TDB, pari almeno a 5.000 ricercatori all'anno (anche in media nei 10 anni e con una accelerazione nei primi 4 anni) che potrebbe sostenere il turnover, recuperare l'emorragia determinata dalla contrazione delle risorse dal 2008 in poi e introdurre nuove energie nell'università italiana. servono concorsi rigorosi affidati alla comunità universitaria italiana e anche straniera, senza problemi, soprattutto trasparenti e pubblici, niente di più.
sono almeno 400 milioni di euro per anno per 10 anni per sostenere la sostituzione e l'incremento dell'organico universitario per i prossimi 10 anni per arrivare ad una dimensione corrispondente ai bisogni della società italiana del 2030. il turnover può essere investito dalle università per le carriere degli attuali professori e per le chiamate estere. serve coraggio e lungimiranza, ciò che ci attendiamo da un governo riformatore e da ministri responsabili
Condivido pienamente la tua proposta
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