Il CRS ha organizzato un ciclo di incontri sull'opera di Pietro Ingrao, a dieci anni dalla scomparsa. Il primo si è svolto alla Camera dei Deputati il 13 maggio 2025 ed è stato dedicato a L'impegno politico di Ingrao, con introduzione di Claudio De Fiores, coordinamento di Francesco Giasi e interventi di tre relatori: Luciana Castellina, Massimo D'Alema e il sotto scritto.
Qui la locandina e il video dell'evento
Di seguito potete leggere il testo del mio intervento.
Dieci anni dopo è vivo il ricordo di Ingrao, fiorisce la ricerca sull’opera e trabocca l’affetto verso la persona. Ho ancora negli occhi il recente convegno organizzato dai figli all’Istituto Goethe. Superando il consueto riserbo hanno accolto tante persone nel calore familiare, facendo scorrere le foto inedite di Pietro nell’intreccio tra vita privata e pubblica. Ho avuto l’impressione che ciascuno di noi, mentre ascoltava i relatori e guardava le immagini, avviasse un personale colloquio con lui. E senza che nessuno ne facesse parola con chi era seduto accanto, i tanti pensieri muti parlavano tra loro, fino a comporre un silenzioso colloquio comunitario con il nostro caro maestro.
Da cosa dipende questa lunga connessione sentimentale?
Il nostro non consegna mai totalmente la propria personalità alla politica, ne salva sempre una parte segreta che a sua volta riemerge pubblicamente come esercizio del dubbio e come ricerca di un oltre. Da questa intima asimmetria tra Persona e Politica scaturisce il suo fascino. L’inquieto equilibrio tra stare nel gorgo e fuggire in convento. La capacità di parlare ai sentimenti popolari al di là dei confini di partito. La curiosità verso la molteplicità dei saperi, delle culture e perfino delle esperienze spirituali di un Dossetti o un Calati. La sensibilità esistenziale più che politica verso la rivoluzione femminista. La tensione creativa tra la maestosità della memoria e la sottile speranza verso l’avvenire.
Il fascino di Enrico Berlinguer deriva dalla stessa relazione, ma in senso contrario, in una perfetta coincidenza tra Persona e Politica. A darne prova bastano le immagini della sua tragica morte nell’ultimo comizio o più serenamente quelle del suo corpo minuto sul palco di fronte alle grandi manifestazioni, che abbiamo rivisto nella bellissima interpretazione di Elio Germano.
Nel successo imprevedibile del film convergono due motivazioni. I giovani che non lo hanno conosciuto sono affascinati proprio dalla coerenza tra gli ideali del Politico e l’etica della Persona. Chi come noi ha partecipato a quelle manifestazioni, invece, è assalito dalla nostalgia per quell’immedesimazione tra il leader e il suo popolo, mai più ritrovata dopo.
Lasciamoci pure cullare dalla nostalgia, ma con cautela: è un sentimento bellissimo, è un’infatuazione erotica del passato che accarezza l’anima, ma ha anche il difetto di depistare la ragione, poiché riporta alla memoria solo le cose belle e nasconde quelle mediocri.
E allora mi pongo la domanda. Perché oggi ripensiamo il passato del Pci solo attraverso il sentimento? Eppure siamo stati educati come militanti a fare storia di partito in rapporto a qualsiasi decisione importante, a volte con gli eccessi del cambiamento nella continuità. Era uno storicismo da militanti non da storici professionali, che si fondava su una comunità di intenti e di azione. Venendo a mancare questa comunità la riflessione storica si individualizza e prende la forma sentimentale. È la triste condizione colta con sguardo sornione da Laura Ingrao, nelle memorie raccolte dalla figlia Chiara, quando dice: “dovevamo diventare vecchi per ritrovarci ad essere dei senza partito”.
Con questa premessa temo di aver reso ancora più arduo il mio compito e mi domando: Che ci faccio qui? A nome di chi parlo? Certo mi ha invitato il CRS e sono affezionato alla comunità che si ritrova nella memoria di Ingrao e cura le sue opere. Ma non siamo un partito e forse le cose che dirò non saranno condivise da tutti.
Insomma, per un militante è doloroso, è difficile fare storia di partito senza partito. La mancanza di un referente collettivo rischia di lasciare troppo libera la fantasia e quindi di dire cose estemporanee, non incardinate nell’azione comune.
Però, facendo conto sulla vostra indulgenza, sento anche il bisogno di rischiare. Perché, a mio avviso, siamo ancora lontani da una comprensione di che cosa è stato veramente il Partito Comunista Italiano, questo strano animale, la giraffa togliattiana. Forse la nostra generazione è troppo legata all’esperienza per raggiungere una vera conoscenza, ma almeno provarci può spianare la strada alla comprensione da parte delle successive generazioni.
Come prima mossa smentisco il mio incipit e metto da parte il sentimentalismo.
La più bella immagine del pensiero storico è la famosa Nottola di Minerva che si alza in volo sul far del tramonto, quando si comprendono finalmente gli eventi del giorno. In quella stupenda Prefazione alla Filosofia del Diritto, Hegel chiarisce che il pensiero si alza in volo solo se mette da parte la “pappa del cuore”.
Quindi interpreto in senso stretto il titolo del nostro convegno “l’impegno politico di Ingrao”, come dirigente di partito, cercando di capire in che misura la sua opera aiuti una migliore comprensione della storia del PCI. L’attenzione è rivolta all’influenza che egli ha avuto sulla vicenda comunista nei tornanti decisivi della storia italiana e mondiale. Con l’assillo di verificare se in quei momenti, aperti a varie possibilità, si è presa la strada giusta oppure se era meglio andare in altra direzione. Gli storici di professione disdegnano la storia fatta con i se. Ma per il militante è invece quasi un’ossessione capire la genealogia della sconfitta, riesaminare le decisioni prese, mettendole a confronto con le alternative allora possibili.
Tutto ciò implica una lettura dell’opera ingraiana inusuale e forse anche provocatoria, ma con l’intento di contribuire a una discussione.
Metterò da parte l’immagine del sognatore minoritario: Volevo la luna, la Pratica del dubbio, il Non mi avete convinto dell’XI Congresso sono espressioni che ancora suscitano l’emozione di molti, me compreso. Di questa narrativa, però, ormai sappiamo tutto. Forse può essere ancora utile a formare la sensibilità politica di nuove generazioni, come risultò evidente, per esempio, nel suo ultimo discorso pubblico rivolto ai giovani no-global nel Forum di Firenze, quando però li prese in contropiede incitandoli a fare politica, non solo movimentismo.
Mi soffermerò, invece, su Ingrao che pensa come se fosse in maggioranza, anche quando si trova in minoranza, cioè che propone una linea per tutto il partito e che coglie possibili soluzioni nelle grandi transizioni nazionali e internazionali. Per essere ancora più chiaro farò un gioco euristico: immaginerò Ingrao come segretario generale del PCI. È un esercizio di pura fantasia volto a fissare un’immagine rappresentativa del ragionamento che seguirà.
Può sembrare un gioco forzato, ma non mancano gli indizi in almeno tre passaggi cruciali della storia del PCI, che sottopongo alla vostra attenzione.
1. Un dibattito tra giganti: Togliatti, Amendola e Ingrao
Innanzitutto, ricordiamo che Ingrao per circa venti anni, poco meno della metà della sua lunga vita di dirigente comunista, è stato in maggioranza a fianco di Togliatti, anzi era il suo pupillo e forse uno dei possibili successori.
E non fu un ventennio qualsiasi, dalla svolta di Salerno alla morte di Togliatti si realizzò un doppio capolavoro.
Primo, il contributo comunista alla Resistenza antifascista e poi alla Carta Costituzionale, cioè il fondamento che, pur non attuato nelle promesse, ha salvato la Repubblica dai rischi di disgregazione, almeno fino a oggi e non sappiamo per quanto ancora. Secondo, la costruzione del partito di massa ben diverso dai dettami della Terza Internazionale: un radicamento popolare non solo di classe, un’infrastruttura democratica non un’organizzazione di quadri, una cultura gramsciana come eresia, pur non dichiarata, della scolastica marxista-leninista.
Se posso permettermi un bilancio severo, nei successivi trent’anni il PCI è vissuto della rendita accumulata nel primo ventennio repubblicano. È stato il genio di Togliatti a fondare il più grande partito comunista d’Occidente.
La generazione post-togliattiana ha certamente prodotto risultati nella vita pubblica e nel rinnovamento del partito, ma pur essendo dotata di grandi personalità politiche e morali, non ha aggiunto nessun altro capolavoro a quelli del dopoguerra. Per fare un esempio, è mancato il capolavoro di un definitivo distacco dall’Unione Sovietica dopo le nefandezze di Praga, dell’Afghanistan e di Varsavia, prima del crollo del Muro. La generazione ancora successiva, la mia per non fare altri nomi, nella transizione post-comunista è riuscita addirittura in un capolavoro al contrario, cioè nel conservare tutti i difetti e disperdere tutte le virtù dello stile e del modo d’essere dei comunisti italiani.
In un bilancio equanime dell’opera di Ingrao, quindi, lo stereotipo del sognatore minoritario non può oscurare il contributo originale che diede a quei capolavori come autorevole dirigente e soprattutto come direttore dell’Unità. Su indicazione togliattiana ne fece l’organo delle masse popolari, come il Corriere della Sera era l’organo della borghesia. Come ricorda Pietro Spataro, quel giornale straordinario scritto dai migliori intellettuali e letto anche dagli analfabeti, raccontò la vitalità italiana del dopoguerra, arrivò nelle case degli operai e dei contadini e spalancò le finestre sul mondo.
Nella vita interna del Pci troviamo Ingrao schierato decisamente in maggioranza nel primo vero conflitto politico, nel Comitato Centrale del 1961, un dibattito poco noto, pubblicato meritoriamente dalla Fondazione Gramsci anche con l’audio, che se fosse stato ascoltato a quel tempo avrebbe sconvolto milioni di militanti.
Il primo a mettere in discussione la fedeltà all’Unione Sovietica e a chiedere la fine del centralismo democratico è Giorgio Amendola nel più aspro assalto, mai condotto prima, alla guida togliattiana. Ingrao, invece, fa un intervento non brillante, tutto a difesa del segretario, il quale peraltro si difende da solo e con rudezza, arrivando a minacciare l’organizzazione di una propria corrente. Poi all’XI congresso il copione si ripete a parti invertite, stavolta è Ingrao a chiedere la libertà del dibattito e la presa di distanza dal comunismo sovietico, ma a sbarrargli la strada è proprio Amendola, in un tipico paradosso della tortuosa vita interna del Pci.
Tuttavia, dopo quel terribile Comitato Centrale Togliatti avverte meglio di altri che non sono più sufficienti i capolavori del dopoguerra e si apre alla ricerca di nuove vie: il discorso di Bergamo rivolto ai cattolici, l’appello anticapitalistico alle nuove generazioni, che sembra anticipare temi del Sessantotto, in un documento rivolto alla Fgci, e soprattutto il Memoriale di Jalta.
Nonostante la proverbiale freddezza, negli ultimi anni emerge una postura inquieta del Migliore: arriva perfino a rassegnare le dimissioni da segretario, subito respinte; soffre con trepidazione i conflitti interni al mondo comunista, in particolare quello cino-sovietico; osserva con curiosità i fermenti della società italiana e ne porta allo scoperto le diverse interpretazioni che vanno maturando nel dibattito interno.
È il famoso convegno dell’Istituto Gramsci del 1962 sulle Tendenze del capitalismo italiano organizzato dal segretario proprio per mettere a confronto, quasi un duello tra Orazi e Curiazi, tre amendoliani e tre ingraiani, tra cui il giovane e brillante Bruno Trentin. Il dissidio è apparentemente solo di analisi, cioè se si debba interpretare la società italiana in chiave di modernizzazione oppure di arretratezza, e costituirà un dualismo permanente nel dibattito del Pci.
La ricerca di Ingrao mette in evidenza il carattere moderno dei problemi aperti dal miracolo economico. Paventa il rischio che il neocapitalismo possa assorbire il conflitto operaio dentro la nuova civiltà dei consumi, ma, d’altro canto, guarda con curiosità alla trasformazione della vecchia Italia. Da questo quadro viene il compito ambizioso di ripensare un antagonismo comunista all’altezza della sfida e nel contempo di proporre al Paese un nuovo modello di sviluppo, come risposta ai nuovi bisogni di una società avanzata.
Al contrario Amendola parte dall’arretratezza italiana e dall’incapacità delle vecchie classi dirigenti di portarne a soluzione le fratture storiche, a cominciare da quella Nord-Sud. Da ciò discende il compito del movimento operaio che deve surrogare la debolezza della borghesia italiana. È il motivo che poi diventerà egemone nel linguaggio comunista della funzione nazionale. Partire dall’interesse del Paese è stato un paradigma fecondo che ha formato le menti di milioni di militanti, ha ampliato le radici popolari e ha esteso le alleanze sociali e politiche. Ma in diversi casi è scivolato nella subalternità, ha rinunciato a un vero cambiamento riducendosi a chiedere sacrifici alla propria gente per risanare i conti pubblici devastati dalle scelleratezze dei partiti di governo. È impressionante rileggere il Progetto a Medio Termine di Napolitano del 1977, durante la solidarietà nazionale. Contiene frasi che si ritrovano quasi alla lettera nell’Agenda Monti di trent’anni dopo, per esempio: è necessaria una vera e propria “guerra allo spreco” […] non solo nella sfera dei consumi privati, ma nella sfera della spesa pubblica”.
Pochi mesi dopo la morte di Togliatti, Amendola porta il suo ragionamento alle conseguenze estreme. Traccia un bilancio severo della Rivoluzione di Ottobre, mettendo in evidenza la doppia sconfitta, socialdemocratica e comunista, per concludere sulla necessità di riunificare le due sinistre nel «partito unico della via italiana al socialismo», con una motivazione che nessun altro oserà pronunciare fino alla Bolognina: Ascoltate bene: «Una organizzazione politica che non raggiunga i suoi obiettivi in un cinquantennio, con almeno tre generazioni di militanti, deve ricercare le ragioni di questo insuccesso e sapersi trasformare».
Si tratta, quindi, di due revisionismi del togliattismo, così Rossana Rossanda definisce quello di Ingrao, ma si può estendere anche a quello di Amendola. Sono due modi diversi di sciogliere i dilemmi che già avevano attanagliato il Migliore dopo il compimento dei capolavori del dopoguerra.
Nessuno dei due revisionismi è mai riuscito a diventare maggioranza. Eppure avevano ragione o gli amendoliani o gli ingraiani, avevano torto tutti gli altri. Erano le uniche due prospettive possibili per l’avvenire, al di là del giudizio di valore che ciascuno di noi voglia darne.
Se nel 1964 avesse vinto Amendola lo spostamento a sinistra degli anni settanta avrebbe trovato una normale forza socialdemocratica capace di candidarsi al governo e di superare la doppia debolezza della sinistra italiana.
Se avesse vinto Ingrao, col discorso pronunciato all’XI congresso, che è una sorta di profezia del grande sommovimento che ci sarà più avanti nel ’68-69, il Pci si sarebbe trovato in piena sintonia con la trasformazione sociale, ne avrebbe saputo leggere i conflitti e ne avrebbe potuto rappresentare le istanze riformatrici con la proposta di un nuovo modello di sviluppo.
La sconfitta di entrambi i revisionismi è la causa fondamentale della crisi del Pci. In seguito essi hanno continuato a stimolare l’innovazione politica e culturale, mentre la maggioranza del partito ha solo amministrato il capolavoro togliattiano, benché questo avesse perduto da tempo la capacità propulsiva. Come disse Chiaromonte: “sembrò a noi che la proposta di compromesso storico si muovesse nell’ambito della grande ispirazione politica di Palmiro Togliatti”. Ma era, a mio avviso, un togliattismo fuori tempo che non poteva risolvere i nuovi problemi e i conflitti della società italiana.
Già negli anni sessanta, quindi, si incunea nell’anima del PCI il demone della decadenza, che prima si nasconde sotto le ali delle vittorie elettorali degli anni settanta, ma poi emerge nell’incapacità di soddisfare le aspettative di milioni di italiani che avevano votato comunista. Il resto è una lunga agonia fino alla Bolognina.
In un inedito di prossima pubblicazione, Una difficoltà storica, a cura di Alberto Olivetti e secondo una testimonianza personale di Maria Luisa Boccia, Ingrao considera già innescata la sconfitta storica alla vigilia del Sessantotto, mentre gli ingraiani del Manifesto, al contrario, scrutano i segni di un nuovo comunismo.
2. Quali riforme
Nel passaggio d’epoca tra la fine dei Trenta Gloriosi e l’inizio del grande ciclo conservatore che ancora oggi domina il mondo, Ingrao propone al suo PCI il contributo più alto e anche il meno ascoltato. Avverte presto la portata del cambiamento e si impegna in una ricerca teorica a partire da quella intervista con Romano Ledda e Pietro Barcellona “Crisi e Terza Via” che in diverse analisi sembra quasi una profezia del mondo attuale. Mi permetto di consigliare la rilettura.
Entro questa cornice sviluppa due ambiziosi compiti riformatori, il Progetto Europeo e la Riforma dello Stato, chiamando a raccolta un ampio e variegato gruppo di intellettuali, non solo comunisti, nell’ambito del Centro per la Riforma dello Stato che diventa uno dei più fecondi think-tank, come diremmo oggi, della sinistra italiana ed europea.
Sul progetto europeo Ingrao avvia non un semplice dibattito ma una comune attività di ricerca con esponenti e studiosi della socialdemocrazia, in particolare quella tedesca, austriaca e svedese. Sgombrando il campo dalle vecchie contrapposizioni ideologiche, emerge la comune consapevolezza che il ciclo liberista possa mettere in crisi tutta la sinistra europea, non solo quella comunista, anche quella socialdemocratica, come accadrà effettivamente in seguito. Partendo da questo assunto Ingrao afferma la presa di distanza dal modello sovietico e a pieno titolo partecipa dei dilemmi socialdemocratici, come se fosse già acquisita per il PCI una comune appartenenza.
Sono illuminanti, per esempio, le considerazioni sull’esaurimento del modello frontista francese, oggi di fatto scomparso dalla scena; e anche per il modello SPD si domanda quanto possa durare l’uso dell’immigrazione mediterranea come esercito di riserva dell’industria tedesca, oggi divenuto motivo di rigurgito neonazista.
Soprattutto tra i comunisti del Crs e i compagni socialdemocratici si intrecciano le rielaborazioni sul Welfare di fronte alle nuove domande sociali, sulle relazioni tra capitale e lavoro, sulle trasformazioni dei partiti e sui compiti dell’Europa nella cooperazione Nord-Sud.
Al congresso di Firenze del 1986 invece prevale l’ovvia dichiarazione del PCI parte integrante della sinistra europea, saltando a piè pari l’esigenza di un comune ripensamento strategico. Fu solo una scorciatoia per ottenere una legittimazione politica, che poi nella Seconda Repubblica si tramutò in vincolo esterno, fino a quando è sprofondato il ruolo dell’Europa nel mondo, come è sotto gli occhi di tutti.
Il secondo progetto è un vero e proprio corpus di riforme dello Stato elaborato dal CRS, definite perfino nei dettagli tecnici e comunque tutte molto innovative. Purtroppo non vengono recepite da Botteghe Oscure, come ricorda Peppino Cotturri. Emblematica è la proposta di legge elettorale proporzionale a doppio turno che nel 1984 viene affossata quasi all’unanimità nel Comitato Centrale, votammo a favore uno sparuto gruppetto, neppure tutti gli ingraiani. Pochi anni dopo lo stesso organismo aderirà entusiasticamente alla ventata referendaria di Segni, facendo tabula rasa delle elaborazioni del proprio centro studi. Si passò in breve tempo da un cieco conservatorismo a un subalterno eclettismo.
Dopo di che la riforma istituzionale è diventata un mantra della Seconda Repubblica. I postcomunisti spesso hanno motivato le loro proposte con i precedenti ingraiani, ma si trattava, al di là dei tecnicismi, di due approcci completamente diversi. Il CRS parte da una precoce analisi dei nuovi poteri dominanti che promanano dall’economia globalizzata, dalla società dell’informazione e dalla concentrazione delle tecnologie; allora sembrava un tema astratto ma oggi quella concentrazione ha prodotto i Padroni del Digitale che mettono in pericolo la sovranità democratica.
Per tenere a bada tali poteri bisogna rafforzare la volontà popolare conferendo alle istituzioni democratiche una maggiore Potenza della Decisione - Ingrao non teme la Potenza - ma insieme a una crescita della Rappresentanza nelle molteplici forme istituzionali, politiche e sociali. Essenziale è non solo difendere il ruolo dei partiti, ma soprattutto rinnovarli alla luce delle mutazioni antropologiche che influenzano sia il sociale sia il politico. E la riforma non riguarda solo i rami alti, ma l’intera trama istituzionale della Repubblica, che dalle autonomie locali arriva fino alla centralità del Parlamento, affidando alle Regioni, udite udite, il compito di unire il Paese, come Ingrao era venuto sperimentando già negli anni settanta, anche mediante la formazione di una nuova leva di amministratori in Umbria, Toscana e Marche.
Tutto ciò richiede un Governo Costituente, ecco la sua proposta più coraggiosa e più fraintesa. Certo non voleva affidare all’esecutivo la riforma, anzi la riteneva possibile solo a condizione di una presa di responsabilità e di una lealtà dei partiti, per scongiurare che nel frattempo la legislazione ordinaria del governo in carica continuasse a stravolgere la Costituzione materiale. Proprio ciò è accaduto fino a oggi, quindi la sua preoccupazione era fondata.
Questo afflato riformatore è mancato nella Seconda Repubblica: si sono viste solo ingegnerie istituzionali a misura del leader politico di turno, la Decisione è stata rafforzata solo a discapito della Rappresentanza; i partiti sono diventati mere organizzazioni di ceto politico.
E oggi ci ritroviamo leggi elettorali indecenti, alluvioni normative senza riforme, regionalismo come leva per scardinare la repubblica e premierato assoluto. Che almeno la mobilitazione democratica, questo è l’auspicio da proclamare qui alla Camera dei Deputati, riesca nei prossimi mesi a salvare la Costituzione antifascista da chi non sa neppure pronunciare la parola antifascista.
Se la storia si può fare anche con i se, almeno per noi militanti, forse sulla scia di Ingrao si potevano fronteggiare meglio le sciagure del Paese e della sinistra.
3. Un altro nuovo inizio
L’ultimo tentativo di pensare da segretario la sorte del Pci assume forme misteriose pochi mesi prima della Svolta, nel marzo 1989 al xviii congresso del «nuovo Pci». Venne elaborata una mozione alternativa, scritta da Lucio Magri gomito a gomito con Ingrao, che indicava un salto di cultura politica, non meno coraggioso di quello occhettiano, ma di ben altra qualità strategica.
Quel documento non arrivò mai al congresso ed è rimasto segreto per venti anni. Come nei romanzi di Umberto Eco, fu proprio il testo nascosto a condizionare i comportamenti dei personaggi. Occhetto sapeva cosa si andava preparando e giocò la carta spericolata, di cui è sempre stato maestro, proponendo a Ingrao, la sera prima dell’assise, di inserire nella sua relazione un forte richiamo ai movimenti femministi, ecologisti e pacifisti. Venne fuori il famoso incipit sull’Amazzonia, di cui presto si persero le tracce, che convinse l’anziano leader a sostenere il giovane segretario e a cestinare la mozione alternativa, forse anche spinto da una parte degli ingraiani, tra i quali purtroppo noi giovani dirigenti della Federazione romana.
Solo prima di morire Magri ha reso pubblico il testo, come appendice a Il sarto di Ulm, la migliore storia del Pci, pur essendo scritta da un dirigente radiato, scevra delle facili abiure e delle divagazioni memorialistiche di tanti altri contributi sull’argomento.
La mozione partiva dal superamento della vecchia identità comunista e cercava una lettura critica della società postindustriale. Con un insolito tono ottimistico, indicava i compiti inediti di fronte alla produzione immateriale e ai nuovi bisogni. L’economia della conoscenza coniugata al principio di eguaglianza, diceva, era la condizione per un’epoca signorile di massa, cioè «un salto straordinario dell’incivilimento. Per la prima volta nella storia l’arricchimento dei bisogni propriamente umani, della personalità, delle relazioni, questo arricchimento da sempre connotato come privilegio signorile, potrebbe rappresentare l’obiettivo dell’intera società». Il tema è oggi ripreso da Luca Ricolfi in una polemica liberale contro la sinistra.
Il documento non indulgeva alla nostalgia, anzi poneva sotto accusa i vecchi difetti, sia il movimentismo sia lo statalismo, sul quale arrivava a dire che si è rivelato non solo costoso, ma impotente a risolvere il problema della democrazia.
Nel contempo indicava le nuove frontiere nel rapporto tra sviluppo e natura e nella liberazione sia dal lavoro sia del lavoro.
Preveggente era poi la lettura di una tendenziale divaricazione tra capitalismo e democrazia, di cui solo oggi si è avuta piena consapevolezza: «ciò che avanza, diceva, è una sorta di Stato federato “per conquista regia”, dove il re è una ristretta oligarchia economica e tecnocratica, cui si contrappone un “popolo” frantumato da storie nazionali». Cioè un’incredibile previsione degli attuali sovranismi.
L’ultimo capitolo conteneva la più impietosa analisi dell’esaurimento del partito di massa, che, se non contrastato, avrebbe portato a «un ceto politico professionale che si trasforma esso stesso in una corporazione», prevedendo così con largo anticipo l’esito della Casta. La crisi della forma partito, aggiungevano Magri e Ingrao, è il problema più grave per la sinistra, perché la espone «all’assenteismo elettorale della povera gente, al ricatto dei media, all’egemonia culturale dell’avversario». Alla lunga rimane solo un consenso di opinione che non può reggere prove di governo difficili, come si è poi visto con l’Ulivo, e di conseguenza provoca «un’autoriduzione dei programmi, un malinteso “ascolto della società” che accetta i rapporti di forza esistenti. Il “riformismo di basso profilo” diventa non una scelta, ma una necessità».
Che dire? Non sembra un programma scritto nell’89, ma una cronistoria di ciò che è accaduto dopo. La comprensione dei tempi nuovi avrebbe potuto sostenere una strategia, certo difficile, ma in grado di affrontare in extremis la lunga crisi del Pci e di tracciare una via d’uscita originale.
Concludo, il gioco di immaginare Ingrao segretario ci svela passaggi cruciali della vicenda comunista: le fortune e le sconfitte, i propositi e le ambivalenze, i pregi e i difetti. Tutto ciò si può riassumere con una parola molto amata da Pietro, la Complessità. Del suo significato tutti abbiamo un’idea vaga. Più precisamente nel linguaggio scientifico essa indica un sistema in cui il risultato è superiore alla mera somma dei suoi elementi.
Infatti, il Pci è stato molto di più dei suoi errori, ha svolto una funzione reale al di là della sua stessa ideologia, ha cambiato il Paese meglio di come era scritto nei suoi programmi.
Questo “di più” ha alimentato le sue virtù, ancora oggi di esempio per le nuove generazioni: la rappresentanza delle classi subalterne che è necessaria a «rimuovere gli ostacoli» di cui parla l’articolo 3 della Costituzione; l’infrastruttura democratica che ha consentito a milioni di cittadini di partecipare alla vita pubblica, dall’ultimo paesino del Mezzogiorno alla grande fabbrica del Nord; una classe dirigente stimata per il rigore morale, la nobiltà dello stile, la dedizione nazionale.
In un bilancio storico i diversi elementi si compongono come le tessere di un mosaico, alcune splendide, altre scolorite, altre spezzate, altre ancora mancanti, ma tutte insieme mostrano il “di più” della Complessità del PCI.
E il mosaico appare un’opera d’arte disegnata da milioni di donne e di uomini.
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